di Famiano Crucianelli - 30 novembre 2013 - Convegno di Ancona
Una costituente per la sinistra
Ovviamente, queste mie non sono conclusioni alla discussione, propongo anche io soltanto un intervento, per altro scritto già prima, e in funzione, del nostro incontro di oggi. Sarei tentato di accantonare le poche pagine pronte per inseguire i mille fili del dibattito che si è svolto tra noi, mi limiterò a raccogliere due o tre questioni, prima di presentare il mio contributo specifico .
Primo problema: da dove viene il terrorismo in Italia alla fine degli anni 70? Alfonso Gianni considera nella sostanza giusto l’articolo di Rossanda, Album di famiglia: il terrorismo troverebbe la sua origine nella resistenza incompiuta, nelle stesse zone grigie e in alcune ambiguità ideologiche del partito comunista di allora. E’ una risposta che non mi convinse allora e che continua a non convincermi. Qualche parentela con le vicende della resistenza, rivendicate anche da diversi terroristi, può aver avuto una sua evidenza. Ma l’ondata del terrorismo degli anni 70, con migliaia di terroristi e di fiancheggiatori in carcere, è stata in primo luogo il prodotto delle culture estremistiche, della stagnazione politica e della delusione provocati dal compromesso storico al governo. Ho partecipato al congresso di scioglimento di Potere operaio e di Lotta continua e ho vissuto, come diversi tra voi, più come vittima che come protagonista l’enorme manifestazione del 12 marzo 1977 a Roma, quando venne saccheggiata un’armeria in pieno centro e che terminò con lo scontro armato a piazza del Popolo. Era del tutto evidente la spinta militante di gruppi consistenti verso la lotta armata e, altrettanto, l’area vasta di simpatia che tale scelta trascinava con sé. Ma non fu certo la resistenza antifascista la base ideologica di quel movimento. Non è in discussione il senso profondo del 68 studentesco e del 69 operaio, è altro ciò su cui andrebbe riflettuto e ragionato. Condivido l’opinione di Garcia, che nella rottura fra il Pdup e il Manifesto giornale la questione del Pci ebbe un ruolo essenziale, ma, ancor prima, ci divise in profondità la riflessione sul movimento del 77, la posizione sul rapimento Moro, la valutazione sulla natura e dimensione del terrorismo, che fu cosa maledettamente seria e sulla quale ancora oggi sarebbe bene riflettere.
Una seconda questione di grande rilievo ruota intorno alla ricerca delle cause della mancata unificazione fra il Manifesto e l’ex Psiup di Vittorio Foa. Si trattò di un passaggio politico decisivo, e non solo per noi, perché quell’insieme, se avesse funzionato, avrebbe potuto mobilitare forze consistenti nei movimenti, nel sindacato e nelle istituzioni, avrebbe potuto esercitare qualche impatto sulla strategia del compromesso storico e sul governo di unità nazionale. Ma a ben riflettere quell’impasto non poteva funzionare, e non solo per il cattivo carattere di Foa. In realtà l’ex Psiup era distante nelle sue corde più proprie dalla cultura comunista del Manifesto, lo stesso Foa si sentiva molto più vicino a Sofri che a Magri, per non parlare di Togliatti. Ciò spiega anche il paradosso di quei due anni. Nel 74 noi eravamo considerati, in quanto estremisti, un impedimento al dialogo con il Pci e poi nel 76 , solo due anni dopo, mentre Foa si alleava con Lotta Continua, noi cominciammo a vedere con interesse le contraddizioni della politica di Berlinguer.
Vi sono, infine, due domande che restano in superficie e che anche con Lucio abbiamo avuto difficoltà ad affrontare. La prima, se sia stato giusto forzare l’uscita del Manifesto rivista, fino al punto di arrivare dopo il XII congresso alla rottura con il Partito comunista. E, ancora, se ormai privi di Berlinguer, che con la sua “svolta” aveva determinato le condizioni politiche di un possibile re-incontro, sia stato saggio entrare nel Pci. Sono interrogativi che voglio solo evocare perché affrontarli ci porterebbe molto lontano.
Vengo ora al mio compito specifico, non semplice, perché non si tratta di esprimersi sulla situazione politica contingente, dalle primarie al governo Letta, dal Pd a Sel e a tanto altro. Vorrei piuttosto tentare di andare oltre il ricordo e la filologia dei testi per fare un piccolo passo avanti, e iniziare a ragionare soltanto sulle premesse della situazione politica attuale.
Sarebbe un abuso di cieca tracotanza, e sarebbe anche fare torto a Lucio e a noi stessi, sostenere che nella cultura politica e nella storia del Pdup vi sono le soluzioni dei tanti mali che oggi tormentano la politica e la sinistra. Pur tuttavia non è peregrino affermare che oggi ha un senso essere qui a riflettere sul Pdup, non solo come atto di affetto per una storia comune, ma perché la vicenda del Pdup e il contributo politico e teorico di Magri ci offrono insegnamenti, spunti e idee utili per ragionare nella grande confusione di questi anni. Se guardiamo alle spalle e agli anni che procedono dalla svolta della Bolognina, emergono tre grandi problemi sui quali la sinistra si è persa e si è dispersa quasi completamente: l’analisi del sistema capitalistico e la previsione sulla sua evoluzione; il progetto e l’idea di un’altra società; il partito e la democrazia. La tesi che voglio sostenere è che nel pensiero degli scritti giovanili di Lucio, nell’esperienza politica del Pdup e, infine, nella nuova edizione della rivista il Manifesto ai primi del 2000 vi sono riflessioni e opzioni politiche lungimiranti, che sono state sconfitte e rimosse quando se ne presentava il tempo, e che invece avrebbero potuto rappresentare una risorsa preziosa verso i guai di oggi. E’ utile leggere alcuni scritti che appartengono alla sua ultima impresa collettiva, la nuova serie del manifesto rivista tra il 1999 e il 2004 e, in particolare, i due lunghi articoli La rivista va rivista e Le ragioni del commiato scritti, rispettivamente, a dicembre 2003 e 2004. Scrive Lucio nel 2003: “bisogna ormai riconoscere che il ristagno e la credibilità di una sinistra alternativa come soggetto politico, più ancora che per la frammentazione in gruppi che restano diffidenti e ostili fra loro anche quando conducono le stesse battaglie, è stata e rimane conseguenza di contraddizioni e debolezze della sua cultura costitutiva". Nel lunghissimo saggio del dicembre 2004 Lucio torna sulla medesima questione fondamentale, che è anche la ragione prima del commiato e della fine della rivista, e scrive : “il tema sul quale ci scervelliamo e alla fine ci dividiamo va ben oltre la politica . E’ quello della rifondazione di un pensiero e di un soggetto politico. Dopo il crollo del socialismo reale, e l’eclissi della socialdemocrazia in quanto socialista si è invece creato un vuoto, cui si ripara con uno spontaneismo che nega la necessità della politica e approda a una fiducia acritica nella ribellione della moltitudine, speculare alla fiducia nel progresso: neoanarchismo versus liberismo. Perciò una sinistra alternativa, a quindici anni dall’89, e tuttora minoritaria e divisa, oscilla tra radicalità e subalternità ”. E’ una conclusione molto amara, una vera, profonda delusione. La rivista l’aveva pensata come una palestra di idee, e per molti versi lo era stata, per la profondità delle analisi, per le riflessioni sulla crisi e sul progetto di società, per i ragionamenti sul sindacato, sui partiti, sui movimenti di massa che furono protagonisti nel nostro paese in quei primi anni 2000. Magri aveva immaginato che la rivista avrebbe potuto contribuire a una “costituente della sinistra “, era questo il suo obiettivo fondamentale. Così non fu, Lucio chiuse la rivista e si mise a scrivere Il sarto di Ulm , da lui stesso poi considerato il suo testamento politico. Le ragioni della sconfitta sono molteplici, ma al fondo vi è l’estraneità di un pensiero, di una storia politica che non è riuscita a fecondare né il grosso dell’esercito del movimento operaio, né le sue ali più estreme. La ragiona prima di questa estraneità sta proprio nella forza critica di quelle elaborazioni, nella natura radicalmente innovativa della teoria e della pratica che quel pensiero avrebbe potuto imporre. Lucio non amava la dizione “pensiero critico”, la considerava quasi un’ offesa, un confino nell’angolo della testimonianza e del minoritarismo che detestava quanto il moderatismo. Tuttavia, tanto sul terreno dell’analisi quanto della proposta e della visione del mondo egli fu quasi sempre critico con i gruppi dirigenti del movimento operaio e con la stessa nuova sinistra. In questo senso, al di là delle sue affermazioni che talvolta potevano apparire quasi ortodosse, era in permanente conflitto con lo spirito conservatore sia delle idee sia delle forme organizzate della politica. È stato così per tutta la sua esistenza: nei giovani democristiani, nel Pci, nel primo Pdup, poi di nuovo nel Pci, in Rifondazione comunista sino alla chiusura della rivista nel 2004. Solo in un momento si trovò a suo agio, quasi pacificato e questa fase è ben rappresentata da una sua affermazione del 1978 dopo il congresso di Viareggio: “ora, pur nella grande amarezza della rottura con il Manifesto, possiamo agire come partito“. Che non stava a significare l’approdo ad una sponda più moderata e ragionevole, finalmente liberi dell’estremismo del Manifesto giornale, bensì il tentativo di portare idee e proposte radicali nel cuore della politica, per incidere sulla realtà e sui processi politici. Fu così per le leghe dei disoccupati, per il terremoto dell’Irpinia, per i movimenti pacifisti dei primi anni 80 e per la lotta sulla scala mobile. Il Pdup di quegli anni riprese a tessere il filo dei movimenti e delle iniziativa di lotta che i fatti del 1977 e il terrorismo avevano spezzato, furono anche i primi passi per ricostruire un rapporto politico con la Fgci e il Pci di Enrico Berlinguer.
La nuova qualità della crisi
E vengo alle tre questioni fondamentali sulle quali il contributo di Magri e del Pdup è stato e resta importante.
Sull’analisi del capitalismo abbiamo, forse, il contributo più rilevante. L’interpretazione della realtà capitalistica e la previsione dei processi economici e sociali è il pesce pilota che guiderà Lucio nelle diverse e controverse scelte politiche, è l’architrave su cui poggiano idea di società e proposte politiche. E’ così dai primissimi anni 60. L’intervento sul neocapitalismo al convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 è un passaggio fondamentale; in quel ragionamento Magri interpreta le profonde novità e innovazioni economiche e sociali del nuovo capitalismo e offre una base analitica solida alla sinistra sindacale e ingraiana. E’ un ragionamento largamente incompreso dal gruppo dirigente del Pci. Nel saggio Il Gramsci di Togliatti del 2001 Lucio fa risalire quella incomprensione a un errore culturale e politico dello stesso Togliatti, il quale, pubblicando i Quaderni dal carcere, aveva messo in un angolo il saggio Americanismo e Fordismo che di Gramsci era, invece, agli occhi di Lucio, uno scritto fondamentale.
L’analisi del neocapitalismo fu decisiva per la nascita del Manifesto e fu la premessa logico-analitica delle tesi Per il comunismo del 1970, un testo che Lucio ancora dopo anni non riteneva un abbaglio, pur lamentando, questo sì, il corto circuito che si volle fare di quelle tesi che avevano un valore di carattere più teorico che immediatamente politico.
Con l’articolo Breve la vita felice di Lord Keynes, pubblicato sul Manifesto il 24 Agosto del 1972, Magri apre una riflessione sulla nuova fase del capitalismo e sulla fine dell’espansione economica. Vi saranno poi i due lunghi saggi La qualità nuova della crisi e il dibattito, sempre promosso dal Manifesto, su Spazio e ruolo del riformismo. La svolta del dopo elezioni del 72, che chiude definitivamente le porte alle tentazioni estremistiche del Manifesto, trova fondamento in quelle analisi sulla fase del sistema capitalistico. Quella del Manifesto, e poi del Pdup, è una svolta che viene dalla comprensione che, entro una crisi ormai strutturale del sistema capitalistico, la radicalità della proposta, del programma e dell’idea di società doveva fare i conti con i rapporti di forza reali nella società, con i rischi della nostra democrazia, con un’analisi meno ideologizzata del Pci. La rottura, prima con Foa e poi con il Manifesto, avvenne proprio su una diversa lettura della fase storica. E furono quell’ analisi e quella previsione di fase che permisero al Pdup di cogliere i pericoli del terrorismo, la debolezza, la crisi del compromesso storico, e la svolta di Berlinguer che rese possibile il re-incontro con il Pci.
Nel documento del 1987, scritto per una mozione congressuale che non ebbe la luce verde d’Ingrao e pubblicato come appendice al Sarto di Ulm, Lucio fa un passo avanti nell’analisi del sistema capitalistico e affronta per tempo le ragioni e le conseguenze della globalizzazione. A questo scritto sarà ispirata la relazione di Arco, con l’estremo e non riuscito tentativo di Magri di tenere insieme l’area politica che si era opposta alla svolta di Occhetto.
Un filo rosso tiene insieme per più di cinquant’ anni l’esperienza teorica e politica di Magri, e l’anima di questo filo la ritroviamo in un’ intervista di Lukacs a Rossanda nuovamente pubblicata in questi giorni. Dice Lukacs: “dopo la morte di Marx nessuno, salvo Lenin, ha dato un contributo teorico ai problemi dello sviluppo capitalistico. Bisogna tornare a Lenin e a Marx, insomma come si usa dire, fare qualche passo indietro per saltare meglio“. Lucio che di Lukas era non solo un conoscitore, ma anche un estimatore, con questo nodo teorico si è confrontato con rigore, cultura e intelligenza creativa per tutta una vita, e lascia un’eredità preziosa a quanti oggi intendono affrontare con volontà critica il nuovo capitalismo postindustriale e la rivoluzione tecnologica, il primato del capitalismo finanziario e la crisi dell’occidente. I testi di Lucio sullo sviluppo e la crisi del capitalismo degli ultimi 50 anni non sono solo un viaggio nella storia del neocapitalismo, una narrazione colta, acuta dei fatti e delle vicende che hanno segnato la seconda metà del secolo passato e i primi anni di questo nuovo millennio, quegli scritti sono anche un laboratorio di idee, di concetti , di arnesi intellettuali utili per contrastare il revisionismo distruttivo del pensiero unico, ma anche per evitare le secche di una fuga ideologica o economicistica dalla complessità e difficoltà dei problemi dell’oggi.
Il Gramsci di Lucio
Nel saggio del 2001 Il Gramsci di Togliatti Lucio riprende un concetto fondamentale di Gramsci: “in Occidente la rottura rivoluzionaria non poteva ridursi alla conquista e all’esercizio esclusivo del potere da parte di un’avanguardia organizzata, ma presuppone un lungo lavoro molecolare, la conquista progressiva di casematte, alleanze sia sociali che politiche con forze storicamente radicate. Guerra di posizione oltre che di movimento “. Questa idea gramsciana della rivoluzione Magri l’afferma fin dai primi anni 60 in polemica con lo stesso partito comunista di allora e sarà il fondamento dell’esperienza politica del Manifesto e del Pdup. Le cose migliori che abbiamo scritto e fatto, e per le quali siamo stati oggetto di polemica continua da parte dei gruppi della nuova sinistra, sono segnate da questo principio motore. E’ stato così su tutta la vicenda operaia, dal valore strategico dei consigli alla soggettività politica del sindacato, al significato emblematico delle 150 ore nei contratti dei metalmeccanici.
E’ stato così sullo stato sociale. Non ci sfuggiva il problema della crisi fiscale dello stato, non l’inefficienza e la degenerazione burocratica del sistema pubblico, né il fatto che alcuni diritti fondamentali nel mondo del lavoro e nella società non si erano ancora affermati. Per questo abbiamo ragionato su un sistema di Welfare misto nel quale anche il sociale fosse direttamente protagonista nelle forme del volontariato e del privato sociale. L’esperienza compiuta nel settore socio-sanitario, che ebbe un precipitato teorico, soltanto teorico e legislativo, nella legge 180 e nella riforma sanitaria, così come l’esperienza delle leghe dei disoccupati nel 1979 ben riflettono quell’idea e quel ragionamento. Anche il così detto “terzo settore “ con le sue ambiguità e le sue più recenti regressioni viene da quella storia.
Emblematica è stata la nostra proposta e iniziativa sulla scuola, la critica alla neutralità della scienza, la critica alla scuola come corpo separato, lo scontro con un sistema autoritario e baronale della formazione s’intrecciava nella nostra ipotesi con una nuova idea del sapere da costruirsi nel concreto del rapporto con il lavoro e la società, l’obiettivo era quello di un nuovo e diverso rapporto fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Sulla rivista Il Manifesto di aprile del 2000 Lucio pubblica La madre di tutte le riforme, un lungo articolo nel quale lui che pure aveva avuto qualche perplessità sulle nostre tentazioni utopistiche di gioventù scrive che la formazione permanente “è un obiettivo del quale si parla molto e sul quale tutti sembrano convergere, ma, forse, senza valutarne il valore , la portata e la difficoltà. Si tratta di abbattere la separazione fra due tempi: quello in cui si va a scuola per imparare e quello in cui si usa ciò che si è imparato per lavorare e vivere. E di intrecciare scuola, lavoro, esperienza fin dall’adolescenza e per tutta la vita”. Più che una rivendicazione è un progetto di straordinaria attualità. Se questo obiettivo era vero e necessario ieri, in una società più compatta dove la trasmissione del sapere era garantito da istituzioni antiche come la famiglia, il posto del lavoro era stabile, ed eravamo all’alba della rivoluzione tecnologica, a maggior ragione questa strategia è attuale oggi che le istituzioni di ieri sono evaporate, il lavoro è precario, le tecnologie rivoluzionano quotidianamente l’ organizzazione del lavoro, l’amministrazione della cosa pubblica, le relazioni sociali e personali.
Il Partito
Terza grande questione, sulla quale siamo nelle peste e che fu per Lucio un chiodo fisso: il partito. Alla domanda sulla sua situazione esistenziale, se lui fosse depresso, la risposta era sempre la stessa: no, io sono disperato. Una delle ragioni fondamentali di questa sua disperazione traeva origine dalla crisi profonda non solo della concreta organizzazione del partito, ma dell’idea stessa di partito. Per l’idea che aveva coltivato della teoria della rivoluzione, quella crisi senza rimedio rappresentava il danno più grave, e questo spiega la critica feroce al “nuovismo” e la rottura anche personale con Occhetto . Aveva scritto su “Critica marxista” nel 1966: “il problema dell’organizzazione di un partito rivoluzionario – diceva Marx – non può essere affrontato che partendo da una teoria della rivoluzione “. Il pensiero di Lucio si muove nel solco della rivoluzione di ottobre e già nel 1966 va oltre il leninismo. Come emerge nello stesso articolo “permane illiquidata nel Che fare? la contrapposizione tra la coscienza socialista portata e codificata dal partito e la realtà immediata della lotta di classe, tale limite si ripercuote sulla concezione generale del partito, si traduce in un permanente, insuperabile pericolo di giacobinismo”, perciò, aggiungeva, riprendendo il nucleo dell’idea di Gramsci “ il partito come forza egemone, il partito come prefigurazione: ecco dunque – scriveva – i due aspetti nuovi e tipici della teoria gramsciana. E su questa via, possiamo affermare appare definitivamente liquidabile, in sede teorica e pratica, ogni limite giacobino nell’organizzazione d’avanguardia, e ogni strumentalismo e rivendicazione nell’azione di massa“. Lucio ha insistito molto affinché il saggio giovanile che ho citato, Problemi della teoria marxista del partito rivoluzionario, uno scritto complesso e in qualche parte astruso, fosse pubblicato. Era convinto di aver scritto e pensato le cose migliori in età giovanile e rintracciava già nelle sue prime elaborazioni i segni di rottura e innovazione rispetto alla tradizione e ortodossia comunista.
L’appendice al Sarto di Ulm, con i due capitoli conclusivi intitolati L’impotenza del sovrano e La forma del partito, affronta la crisi della democrazia politica e la crisi del partito mostrando la stringente connessione di queste due crisi, in pagine che io considero illuminanti. E’ una straordinaria istantanea di ieri sulla miseria della democrazia e dei partiti dei nostri giorni. Dentro una ricchezza di argomenti e di analisi che non posso riprendere Lucio scrive : “uno sviluppo della democrazia coincide ormai con la riappropriazione quotidiana e articolata delle varie funzioni di governo, con una socializzazione del potere, con un graduale superamento della separatezza dello Stato. E tutto ciò non è possibile senza rimettere in discussione quanto dello statalismo si è riflesso nelle forme organizzative del movimento operaio: e cioè il partito come sede e strumento esclusivo della politica, sovrapposto a un movimento di massa come sede e strumento del conflitto economico – sociale“. Se tutto ciò era plausibile nel 1987 appare ancor più drammaticamente vero oggi che i partiti nulla hanno più della comunità politica e sono ridotti a contenitori anonimi di interessi particolari. Da decenni si discute della “forma partito“, non si è fatto un passo avanti, se mai diversi chilometri indietro al punto che la parola Partito suona come una bestemmia. Resto convinto che dentro le tensioni e anche le contraddizioni che pure sono presenti nell’elaborazione compiuta da Lucio, il perimetro teorico e politico che vi è tracciato e che ha segnato in profondità l’esperienza del Manifesto e del Pdup, resti una miniera ricca di materiali preziosi, anche per l’oggi.
Il ringraziamento più vero che devo rivolgergli non è tanto quello di avermi tirato fuori dall’estremismo, ero un giovane particolarmente vivace . Non è quello di avermi reso più ragionevole o più moderato, ma di avermi portato dentro una cultura, un’esperienza politica e, anche, umana della quale non mi sono mai dovuto pentire, che non ho mai dovuto nascondere o sconfessare e che ancora oggi non mi fa sentire un alpino del 68 o un reduce della nuova sinistra.
Voglio riprendere le battute con le quali si chiude la lunga conversazione con Lucio Magri pubblicata nel libro Alla ricerca di un altro comunismo, per lasciare a lui l’ultima parola sul futuro. Alla domanda sul valore del Sarto di Ulm Lucio risponde: “la cosa migliore del libro, se ne sono accorti in pochi, è l’appendice. Quel saggio che chiude il libro è molto innovativo, più della relazione di Arco che fu scritta quattro anni dopo: si parla del precariato, dei diversi processi di globalizzazione, dello svuotamento e della crisi della politica. Sono passati venticinque anni da quando ho scritto quel testo. Il valore futuro è quella appendice, contiene del materiale sul quale interrogarsi. Mi spiace che anche nelle numerose recensioni ciò che ha colpito dell’appendice è la preveggenza: non vi è stato un ragionamento, sul merito, sui contenuti e sull’analisi di quello scritto. Mi auguro che quella riflessione prima o poi qualcuno possa riprenderla“.
Famiano Crucianelli
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