INGRAO:
“LA PASSIONE POLITICA MI HA FATTO CAPIRE IL MONDO
ED È DIVENTATA UN PANE NECESSARIO”
di Alfredo Morganti – 25 marzo 2015
Una nuova soggettività, la stessa passione
Pietro Ingrao ha detto più volte che una sconfitta aiuta a capire (e a capirsi) più di una vittoria. Non intendeva dire, ovviamente, che nella vita si debba essere dei perdenti e ci si debba destinare a un ruolo marginale. Ingrao non era un minoritario. Gli era capitato di essere minoranza, ma è cosa ben diversa. In un’intervista a Gabriele Polo lo ha detto esplicitamente: “io non credo al minoritarismo”. Anche gli sconfitti, aggiunge Ingrao, possono vivere esperienze straordinarie, e credo che lui intenda esperienze in epoche in cui la politica era grande, le idealità forti e intense, e la storia batteva colpi. Essere sconfitti in quelle epoche era comunque una vittoria, la vittoria della politica in grande, che forza i confini e riallinea in modo straordinario e sconvolgente il potere. Oggi sono altri tempi. La politica è piccola e angusta. Di piccolo cabotaggio. La politica ha perso connotati, è ridotta a un tweet. Ingrao è d’accordo: “oggi, a volte, l’orizzonte della politica mi sembra diventato più piccolo e angusto”. Notate l’inciso “a volte”. Forse serviva ad alleggerire il giudizio, ma ritengo che in cuor suo pensasse in realtà “spesso”, anche se un grande dirigente politico come lui non poteva, non avrebbe potuto attenuare nemmeno di un po’ la speranza e il giudizio sull’epoca. Ogni epoca è rivoluzionaria, solo a saperla interpretare; guai a condannarla mentre ancora si sta dispiegando.
Oggi c’è un vuoto, dice ancora Ingrao nella stessa intervista. Un vuoto avvolgente e vertiginoso, perché siamo anche senza una riflessione seria, approfondita “sulla necessità di creare un nuovo soggetto politico”. La politica è debole, e questa debolezza è per di più infarcita di un vuoto di pensiero e di iniziativa su un tema capitale, quello della soggettività, della sua costituzione, della sua forma e della sua aderenza alla realtà. Sembra di leggere una cronaca odierna, non la riflessione di un decennio fa. Qual è il male oggi? Il male in politica, dico. Che cosa genera questo vuoto di pensiero, di iniziativa? Non paia un paradosso, né una tautologia. Ma la crisi della politica è la crisi della politica stessa, il suo arretramento progressivo nei confronti dell’economia, della tecnica, della comunicazione. Il riallineamento del potere con il grande capitale, quello oligarchico, finanziario, tecnologico, globale. Il riequilibrio dei rapporti di forza a favore dei potenti, di chi detiene leve e arnesi della produzione e della decisione. E quindi la crescita sproporzionata e intollerabile della diseguaglianza, che mette in questione anche la democrazia. Una scenario che riduce di moltissimo ogni margine utile di manovra. Questo è il male, qui leggo il segno della sconfitta epocale.
Che fare? Ecco la domanda cardine. Io dico: dobbiamo porci il problema del ‘vuoto’, porci il problema della soggettività politica, partendo dall’attuale crisi di forme e di idee. L’Acquario non è un modello perseguibile. La rissa che ne è venuta fuori non è un bello spettacolo. Le fazioni non mi piacciono, soprattutto se sono fazioni di una fazione di minoranza di un partito faziosamente personale. L’invito è a colpire quando c’è da colpire. L’appello è, comunque, ad aprire una discussione che non sia di facciata. L’auspicio è quello di raccogliersi in un soggetto politico di sinistra (associazione, partito, congrega, club fate voi) dove si dibattano idee e programmi, si elabori una linea comune, si facciano scelte precise e, come base, si lavori contro la crisi della politica. Chi ci sta ci sta. Io non mi rinchiuderei in un fortino. Fuori o dentro non importa. Va bene pure sia fuori sia dentro. Purtroppo vengo da una tradizione in cui l’unità era un valore, un percorso, un metodo (non solo un giornale). Piuttosto che dividere e affettare ancora di più la ‘minoranza’, io unirei. Ci proverei almeno. Anche Giancarlo Pajetta, che non era certo un’educanda, pronunciava la parola unità con forza e con orgoglio. A chi non interessa, poi, libero di dire ‘no, grazie’ e di acconciarsi su qualche strapuntino renziano. Si sappia solo che non si può più restare fermi a difendere a spada tratta un bidone di benzina vuoto in mezzo alla jungla. Io non sono un giapponese. Sono italiano, romano e di ascendenza romagnola. Può bastare. E un solo ingrediente, uno solo è indispensabile quando il compito diventa così urgente e gravoso, lo spiega ancora Pietro Ingrao: “La passione politica mi ha fatto capire il mondo ed è diventata un pane necessario”. Ecco.
dal Blog Nuova Atlantide
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