Discutendo di Enrico Berlinguer
IL SUO ERRORE
Rossana Rossanda
Condivido il fastidio di Aldo Tortorella (nel suo articolo nel numero di ottobre della rivista) per la liquidazione di EnricoBerlinguer in nome della superiore modernità di Bettino Craxi, effettuata da Piero Fassino nel suo Per passione. Della `modernizzazione' - così viene definito il nuovo corso liberista mondiale, cui adeguare i partiti ex operai rinunciando all'ottica e al conflitto di classe - Craxi avrebbe capito tutto mentre Berlinguer nulla, finendo col morire d'una specie di crepacuore politico sotto il peso dei suoi errori, ultimo la difesa della scala mobile.
Non è una discutibile revisione del passato, è un'operazione politica sul presente; la stessa che ha indotto alla pubblicazione delle note di Antonio Tatò, che per Berlinguer teneva i rapporti un po' machiavellici con gli altri partiti, note che testimonierebbero il suo odio per i socialisti innovatori e l'attrazione fatale per la Dc conservatrice (il cattocomunismo). È probabile che andrà su questa strada anche l'annunciato convegno della Fondazione ItalianiEuropei.
A chi è indirizzata l'operazione? Non alla Casa delle libertà, che se ne infischia, non ai vecchi e nuovi Dc, che non possono gradirla, non ai partitini di Boselli o De Michelis - ma a quella parte dei Ds, che è renitente alla confluenza nel partito democratico in gestazione, cara invece alla destra `diessina' che, salvo qualche rinnovo, è la stessa che ostacolò l'ultimo Berlinguer quando arretrava dalla solidarietà nazionale. Aldo Tortorella ricostruisce dunque meritoriamente l'interessante vicenda interna del Pci negli anni settanta e primi ottanta, oltre a riproporre l'indissolubilità dalla politica di un'etica almeno dell'onestà personale.
Ma la sua argomentazione sembra suggerire anche che, se Berlinguer non fosse stato messo in difficoltà dalla morte di Aldo Moro e dalle manovre craxiane, la sorte del Pci sarebbe stata diversa. È proprio vero? Se, a differenza di Craxi,Berlinguer lasciava un partito ancora grande, il Pci sarebbe rimasto tale per poco. Perché dunque il suo declino? Possiamo attribuirlo alle manovre della destra antiberlingueriana? Se fosse rimasto nel solco tracciato dal segretario sarebbe stato esente dalle traversie dei secondi anni ottanta?
Ne dubito. Anzitutto il Berlinguer dal 1979 alla morte non è tutto Berlinguer, né quello storicamente più importante. Egli è l'uomo del compromesso storico. Ne vide il fallimento e finì col ritrarsene ed è certo che se ne ritraeva da una posizione di debolezza. Ha senso pensare che il suo disegno era stato messo in scacco dal sequestro e dall'uccisione di Moro? Debole è un progetto politico condizionato all'esistenza d'un solo uomo. Certo l'idea che Berlinguer s'era fatta della Dc, e forse dell'intera scena politica e sociale italiana, era sbagliata. Non ebbe nemmeno il tempo di ripensarla, travolto come fu dall'aggressione capitalistica e dall'iniziativa craxiana. Quando andò ai cancelli della Fiat era troppo tardi. E quando avrebbe alzato la bandiera del referendum, lui che non aveva creduto in altri referendum invece vinti, avrebbe perduto.
Non avanzo questi dubbi perché cacciata dal Pci nel 1969. Non fu Berlinguer a volerlo, lo vollero soprattutto i Secchia e Terracini in curioso connubio con Amendola. Fu se mai di Berlinguer lo stile corretto, e del tutto inedito, con il quale la radiazione avvenne.
Avvenne su divergenze fondamentali, che venivano da lontano, e non erano percepite soltanto dal gruppo che decise di esprimerle e ne pagò il prezzo. Era dalla morte precoce di Togliatti, a metà di un decennio denso di rivolgimenti mondiali e di conflitti sociali, che al Pci si imponeva la domanda sul che fare. E presto si delineò, grosso modo, l'opposizione fra una linea Ingrao più interrogata dai cambiamenti e una linea Amendola che puntava alla riunificazione con il Psi. Enrico Berlinguer non era affatto per l'unità con i socialisti ma optò lo stesso per Amendola, che reputava più vicino per il primato che dava al gioco politico rispetto a Ingrao, intento a un aggiornamento della sinistra storica. Ne vennero scelte decisive. Mi limito a indicarne alcune, sulle quali probabilmente fra noi la valutazione è diversa.
La prima riguarda l'Urss e l'atteggiamento del Partito nei suoi confronti. Con il memorandum del 1964, Togliatti riteneva venuto il momento non d'un distacco plateale ma di prendere delle distanze, fino a votare contro la proposta di Conferenza internazionale degli 81 partiti comunisti. Dopo la sua morte, su questa strada il Pci si ferma. Sull'invasione di Praga, la direzione prima media sulla definizione «tragico errore», poi - con Longo messo fuori combattimento da una malattia - ingoia, anzi di fatto difende, la normalizzazione cecoslovacca. Perché? Non che Berlinguer si facesse delle illusioni sul gruppo dirigente sovietico, del quale pensava il peggio possibile, ma perché temeva - e ne sono testimone - che se il Pci avesse aperto il dossier sull'Urss il Pcus avrebbe organizzato una frazione al suo interno (Cossutta come Lister in Spagna). E forse concordava con Amendola sul fatto che era utile per il Pci avere alle spalle una grande potenza, per degenerata che fosse (i Dc hanno gli Usa, noi l'Urss).
Era un ben miope realismo. Né Berlinguer né Amendola avevano capito in quale crisi fosse entrato il Pcus alla fine degli anni cinquanta, come aveva invece intuito Togliatti, e diventava evidente con la destituzione di Krusciov. È vero che non lo capirono neanche le grandi cancellerie. In ogni caso Berlinguer attese a fare lo strappo fino al 1981, dopo che erano scoppiate le questioni cecoslovacca, polacca e afghana. E lo fece in modo reticente: dire, come egli fece, che era finita la spinta propulsiva del 1917, in quegli anni era un singolare understatment. Intanto il Pci aveva rifiutato ogni contatto con le crescenti dissidenze dell'Est, niente affatto tutte di destra; esse non trovarono interlocutori a sinistra se non di modeste dimensioni come noi, o poco affidabili, come gran parte dei socialisti, o interessate ai propri fini come la Chiesa in Polonia.
Ma l'errore più grave fu lasciare il partito impreparato all'implosione del 1989, cosa che avrebbe permesso a Occhetto di effettuare in una notte quell'altro strappo, repentino, con il quale il Pci non solo cambiava nome ma pareva non avere mai visto né conosciuto l'Unione Sovietica.
Perché Berlinguer accumulò questi errori? Perché continuò a ricevere dall'Urss finanziamenti più compromettenti che decisivi per il bilancio del partito? Ancora per non irritare il Pcus e evitare scissioni filosovietiche? Se è così, sbagliava anche in questo: essi non attecchirono in nessun paese.
Manifestamente la sua prima preoccupazione era di ordine interno, e su questo trasse delle conclusioni radicali. Che non esponeva a un Comitato centrale: scriveva su «Rinascita» del golpe in Cile e ne derivava un rivoluzionamento della collocazione del Pci, il compromesso storico. Fondata sul timore di una risorgenza dei fascismi in Europa, frutto inevitabile degli estremismi delle lotte, e quindi interessata a una forma di unità antifascista tra comunisti e Democrazia cristiana. Alla quale dava però una valenza non tattica, non frontista; doveva essere l'incontro di due grandi tradizioni, socialista e cattolica, per la democrazia e accantonando la lotta di classe. Questo era il prezzo da pagare per il Pci, la fine di ogni possibile alleanza a destra il prezzo pagato dalla Dc. Il compromesso stava in questo.
Le previsioni del saggio su «Rinascita» erano errate. Sui fascismi venne subito smentito: l'anno dopo, nel 1974, sarebbe caduto il salazarismo in Portogallo, nel 1975 la giunta fascista in Grecia, nel 1976 Francisco Franco in Spagna. Mentre a metà degli anni '70, dopo la cancellazione di Bretton Woods e la crisi dell'energia, la destra, con la Trilaterale, si sarebbe riorganizzata su basi assai diverse da quelle del fascismo.
Quanto all'incontro tra comunisti e cattolici, la sua sola versione concreta fu la politica della solidarietà nazionale. La quale scombussolava prima la base comunista e poi, dopo una fase di discussione bizantina sui muri che ci sono o non ci sono fra socialismo e democrazia, si andò via via orientando verso un nuovo tipo di quadro, assai più intento a fare gli accordi periferici che ad alimentare i conflitti. E, fuori dal partito, rompeva ogni dialogo con i movimenti che erano nati attorno al 1968. Il Pci si interdiceva così di capire una vicenda in quegli anni ancora tutta in fieri e che fino al 1975 avrebbe gonfiato il suo bacino elettorale. E finiva con il dare argomenti alle derive estremiste, invece di tagliar loro l'erba sotto i piedi: è in quella estate del 1976, con il consenso di fatto del Pci al governo Andreotti, che i movimenti si dividono acerbamente e si formano o allargano (nel caso delle Br) i gruppi armati.
Non che Craxi invece capisse: ostentò una comprensione verso il movimento, anche il più estremo (buttando sulle spalle del Pci e della Dc quella politica della `fermezza', cui non si oppose mai in sede di governo). Quella di Craxi fu un'abile recitazione, come lo fu Sigonella. Ci si può chiedere perché Berlinguer non tentasse mai un'egemonia verso il piccolo, ma importante e tormentato, Partito socialista nel passaggio da De Martino a Craxi.
Ma più importante è domandarsi quanto fosse percorribile il tragitto con la Democrazia cristiana. Non so fin doveBerlinguer pensasse che Dc e Pci avevano in comune una radice antimercantilista e anticonsumista, che si poteva coniugare anche all'interno del capitalismo italiano, in nome del primato della politica rispetto all'economia. Sta di fatto che c'è un surplus gramsciano (o presunto tale), che porta Berlinguer a scolorire del tutto un'analisi di classe. Contano i grandi assi costitutivi delle idee e di un'etica, i cattolici sono meno assatanati dal consumo che non i centristi laici. E la sua `austerità' non è stata soltanto una scelta contabile.
Ma anche qui, il movimento del 1968 era ben più attendibile che la Democrazia cristiana? E per tornare alla scena politica, quanto di essa si riconobbe mai nel pianto di Moro a San Pellegrino? E Moro stesso quanto era disposto a dare al Pci, in potere e in sostanza sociale, nell'incontro che pareva auspicare in quel suo modo tortuoso? Dal 1976 al 1978 (quando fu catturato e poi ucciso dalle Br) non mise in atto nessuna vera mediazione. Sarà pur venuto il momento di parlarne.
Sta di fatto che la vera innovazione del berlinguerismo è stata il compromesso storico, cioè una versione dell'autonomia del politico, e le conseguenze che ne derivarono sarebbero state di lunga durata. Due di esse - a mio avviso le maggiori - sono il filo di continuità fra la vicenda di Berlinguer e quella dei Ds. La prima è il ritiro dell'opposizione dei comunisti al passaggio sotto l'ombrello della Nato, che avvenne nei primi anni '70, e anch'esso senza gran dibattito. Era una scelta in chiave difensiva da un pericolo sovietico sempre più improbabile? O implicava l'approdo all'idea che il capitalismo e la sua forma politica avevano vinto o dovevano vincere?
La seconda era la dichiarazione sul primato della produzione come bene di tutti, rispetto agli interessi della classe (che per il marxismo erano interessi generali). Questa non va solo contro il movimento di base nelle fabbriche e nelle scuole ma anche contro la Cgil di Lama dei primi anni settanta, e prelude al giudizio sull'essere state quelle lotte null'altro che cenere. È l'anticamera della politica dell'Eur. E dello scombussolamento del sindacato durante il contrattacco di una feroce ristrutturazione capitalistica. Quando Berlinguer va ai cancelli della Fiat occupata è tardi.
Nell'esito del progetto cui più aveva creduto sta la tragedia vera di Berlinguer. Nell'avere pensato che un accordo politico fra due forze storiche non subalterne alla logica pura del capitale ne avrebbe frenato l'avanzata, sarebbe stato il terreno di una `terza via' italiana originale, radicata nella storia specifica del paese, capace di reggere alla spinta mondiale del modo di produzione. È un certo gramscismo degli anni sessanta, e successivi, che concepisce il primato della politica non come governo della costituzione materiale del paese ma come primato degli accordi ed equilibri sulla scena politica e istituzionale. E su questa strada che il Pci, diventato Pds e poi Ds, giungerà ad approdi non molto diversi da quelli auspicati dal `modernizzatore' Craxi.
Ma qui il discorso si allarga. Quel che qui mi premeva osservare è che difendere la figura morale di Berlinguer dall'attacco volgare della destra socialista ed ex comunista non dovrebbe precludere il giudizio su quel che il berlinguerismo è stato.
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