«Aveva fatto della chiarezza e della coerenza uno stile di vita e ci ha lasciato l’inquietudine della ricerca e la responsabilità verso le proprie idee...». Commozione inevitabile in Valentino Parlato, nel ricordare l’amico e il compagno di lotta della cui morte ricorre il decennale. L’amico, Luigi Pintor (1925-2003) è di quelli che non si dimenticano. Comunista atipico, testardo e inattuale. Elegante nel vivere le idee, le lotte e le sconfitte. E anche il dolore personale, prima di andarsene per un male scoperto all’improvviso.
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dall'archivio storico l'Unità
Stoico e appassionato, dalla scrittura icastica che lasciava il segno. E comunista mai pentito. Che uomo era Pintor visto da vicino? «Figura straordinaria. E direttore di giornale fuori dal comune, per passione e generosità. Con il dono di una vena critica che non spegneva la sua voglia di combattere. Ne La signora Kirchgessner , annota: “Sì, va tutto male e il mondo va a rotoli, ma non bisogna smettere di credere negli uomini”. Impasto di disincanto e passione razionale».
Fin dal 1962 nel Pci era schierato contro Amendola. Quali erano le radici del suo comunismo di sinistra? «Sinistra gramsciana, impregnata di “sardità”. La critica ad Amendola verte sul modello di sviluppo alternativo al capitalismo, sull’onda del neocapitalismo di allora. Ma per capire le “radici”, occorre andare all’epilogo, al suo ultimo articolo, sul Mani festo del 24 aprile del 2003. Dopo la sconfitta del 2001 e in pieno berlusconismo, sosteneva che la sinistra da noi conosciuta era finita, non aveva più fondamento...».
Per colpe soggettive, o perché il mondo non era più alla portata della sinistra? «Per entrambi i motivi, a suo avviso. C’era stata una deriva soggettiva, dal Pci, al Pds ai Ds, fino al Pd. E insieme un ammodernamento reale del capitalismo, che la sinistra non aveva capito né fronteggiato. Ma la sconfitta per Pintor veniva da lontano. Veniva dalla scelta compromissoria del Pci fin dagli anni 60, che culmina nella solidarietà nazionale. Il Manifesto nasce proprio su questa critica. Allora però un’alternativa era possibile, e anche un grande partito lo era, benché ingabbiati dalla vocazione a trattare su tutto. Con la svolta del secolo e con il neoliberismo, il quadro salta e il treno è perduto. Ma per Pintor la sconfitta finale dipendeva dall’aver voluto uscire (col governo) dalla crisi piuttosto che uscire dal capitalismo in crisi, come diceva Rosa Luxembourg».
1971, nasce il Manifesto quotidiano, figlio del Manifesto mensile di due anni prima. Scontro col Pci e radiazione inevitabili? «All’inizio, nel 1969, il Pci affrontò la cosa seriamente, con due comitati centrali. Poi la radiazione, in stile cattolico e con possibilità di emendarsi per i reprobi. Ma fu il Pci a rompere con noi e non viceversa, e l’acme del dissidio fu sull’Urss. Capimmo che un Pci non più compromesso con i sovietici, malgrado i dissensi, sarebbe stata una forza altamente spendibile in quegli anni, e invece...».
Veramente voi eravate a sinistra dell’Urss, eravate maoisti... «Fummo attratti dalla Rivoluzione culturale che ci pareva potesse rilanciare socialismo e internazionalismo. Anche Pintor era d’accordo ma ci ripensò e si corresse: tentativo generoso ma fallimentare».
Che direttore fu Pintor, giorno per giorno? «Ottimo, sempre presente e capace di stimolare il collettivo giornalistico. Era attentissimo nella correzione dei pezzi e io stesso mi presentavo a lui, immancabilmente, per discutere e farmi correggere. A un certo punto sostenne la necessità della lista nel 1972 e ne rimase deluso: tentativo prematuro, disse. Ma il suo chiodo fisso restava questo: creare un soggetto di sinistra diverso, e alternativo al Pci. E che fosse in grado di rifarlo daccapo quel Pci».
Ma che idea aveva Pintor del capitalismo vecchio e nuovo? «Totalmente critica, e forse un po’ schematica. Quanto al capitalismo informale e finanziario lo capiva e lo avversava, senza moralismo, ma senza indulgenze. Era un sistema di truffe, a suo giudizio, che non poteva essere umanizzato né corretto».
Anni fa Giaime, leggendario fratello, è stato oggetto di una polemica revisionista: compromesso con il fascismo. Ne soffrì? «Polemica bugiarda e assurda. Giaime scriveva su Primato di Bottai, ma poi scelse e si schierò. Luigi soffrì il tutto come una calunnia vissuta sulla pelle. Da gappista fu torturato alla pensione Jaccarino e stava per essere fucilato!».
Pintor scrittore. Quali autori hanno fatto il suo stile? «Grande scrittore, secco e aforismatico. La sua scrittura è fatta di piccoli “narrativi” fulminanti, che scolpiscono una verità. Tra i suoi “maestri” vedo Gramsci, Marx, forse Fortini, e poi i grandi autori classici latini. Era un moralista classico, votato all’onestà della chiarezza. Inattuale e moderno».
Che direbbe davanti alla bufera politica di oggi? «Avevo ragione».
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