Luigi Pintor
Giornalista − Italia
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Adesso Pintor — che è stato nel comitato centrale del Pci e nell’ufficio di segreteria prima dell’avventura del “Manifesto” — esce da una esistenza impastata di crepuscolo e di orgoglio cocciuto. Apparteneva a quei sardi tristi con un fondo aristocratico (il titolo del suo libro Servabo è l’epigrafe di un fregio araldico). Era per certi tratti simile, ma avversario, di Enrico Berlinguer: ambedue sardi, ambedue malinconici, ambedue elegiaci. I suoi articoli erano a volte perfino metafisici nella loro violenza. E la loro forza sta, fra l’altro, nella brevità, oltre che nell’arte di Pintor di fare titoli folgoranti, del tipo: «La Cina è vicina». Insieme a Montanelli da cui lo divideva tutto, tranne un’analoga grandezza è stato un maestro dell’editoriale di trenta righe. Se avesse avuto l’inclinazione per le battute un po' andanti, avrebbe potuto condividere il motto di Indro: «Gli articoli che “girano” (ossia dalla prima seguono nelle pagine interne, ndr) mi fanno girare le scatole». Aveva la soave ironia, un po’ maliziosa, delle persone di razza. L’attuale direttore del “Manifesto”, Riocardo Barenghi, lo chiamava così: «Maestro». E Pintor: «Involontario».
Venne eletto deputato, nel ‘68, per il Pci, nel quale non si riconosceva quasi più. E fu rieletto nell’87 come indipendente in quello stesso partito, che stava per diventare un’altra cosa. Pintor rifiutò decisamente la “svolta” occhettiana (“Il papocchio”). Così come mai avrebbe digerito la vicenda del post-comunismo e la classe dirigente che se n’è fatta interprete. In un D’Alema, Pintor scorgeva ineleganza. Ma non perché questo sardo antico fosse uno snob. Semplicemente, trovava scadente, in politica, la leggerezza tattica dell’oblio: «Senza memoria del passato storico e personale, non c’è futuro». Anche per questo, tormentarsi con la propria autobiografia è stato per Pintor un esercizio, in qualche maniera, militante. Nell’ultimo volumetto in uscita, "I luoghi del delitto", egli ricerca per esempio quel «peso sulla coscienza» che sente gravargli addosso e non sa cos’è questo «delitto» o forse gli sembra di identificarlo nel fatto che l’umanità e lui stesso non sono stati capaci di impedire altri delitti commessi in questo mondo. E comunque, «contano più che mai le intenzioni. Se fosse per i risultati, non rifarei nulla di quello che ho fatto e che non ho fatto». Lui era fatto così.
(Fonte Mario Ajello, Il Messaggero, 18/05/2003)