UN’IPERSENSIBILITA’ CHE
TRASFORMAVA IL CAPIRE
IN TROPPO LUCIDO
PESSIMISMO
Luciana Castellina
Non avrei mai pensato che un giorno mi sarebbe toccato scrivere in morte di Luigi. Non solo perché alla perdita definitiva di un amico e compagno non si pensa, ma anche perché non si immagina mai di scrivere sulla propria morte e, sebbene più diversi non avremmo potuto essere, un grande pezzo della sua vita è stata anche la mia e ora oltre la sua persona piango anche questa nostra storia comune che si sfalda in decessi e vecchiaie. La storia di un modo di intendere il Pci e più in generale il comunismo, i doveri che da questa speciale appartenenza sono derivati, i doni, Luigi sorriderebbe ironico di fronte a questa parola, ma sarebbe d’accordo anche lui che esser stato comunista è stato uno straordinario privilegio, anche se sempre più difficile è restarlo in modo sensato.
Ma Luigi Pintor era molto di più di questo pezzo di storia comune che ora, con lui, ci muore dentro. Era Luigi Pintor, un uomo dotato di qualità eccezionali che spesso, e forse proprio per questo, sono diventate difficoltà nel vivere, per lui stesso e per chi gli era caro e vicino: perché la sua intelligenza non era solo acume ma ipersensibilità, sicché il capire si rovesciava in lucido, troppo lucido, pessimismo; la sua sottile ironia in distruzione, auto e etero. E però mai in paralisi nel fare, ché il suo scetticismo profondo, i suoi sacrosanti dubbi, che hanno anche percorso tutta la storia del manifesto, non lo hanno mai indotto a lasciare l’impegno. Tutto questo, del resto, l’ha scritto lui stesso, mirabilmente, in «Servabo».
Fra tutti coloro con cui abbiamo fatto 35 anni fa il manifesta, Luigi era quello che io avevo conosduto prima. Anzi, prima ancora di concretamente incontrarlo, perché al liceo Tasso, che ho frequentato pochi anni dopo di lui, il suo nome, con quello di qualche altro, era mitico: erano diventati comunisti su quei banchi e durante l’occupazione nazista, diventati Gap, erano entrati nella scuola a sfidare, armati, il preside fasdsta. Al ginnasio, che pure era incorporato nella stessa scuola, queste cose non le avevamo sapute, ma le scoprimmo dopo la Liberazione, quando anche noi comindammo ad avvicinarci al Pci. E ne ho saputo assai di più successivamente, quando per anni ci frequentammo tutti i giorni, alla mensa dell'Unità a via IV Novembre e nella nostra o nella sua casa al quartiere Mazzini, dove ho visto crescere Roberta e Giaime.
Avevo sposato il suo amico più stretto, Alfredo Rdchlin, che con lui era stato Gap e sempre con lui, era diventato redattore dd giornale, ragazzini assunti e subito promossi dalla lungimirante politica di Togliatti che aveva voluto un rinnovamento generazionale immediato e radicale Assieme mi raccontavano, come fosse stato un gioco di ragazzi, delle passeggiate per Roma nell’invemo del ‘43-’44, in tasca la pistola che gli era stata fornita per esser pronti a colpire, la tentazione di usarla nelle pasticcerie quando si fermavano affamati di fronte alle vetrine allettanti, e poi però anche della paura, della difficoltà umana di sparare ad altri uomini, sia pure odiosi nemici; della drammatica cattura di Luigi, rinchiuso nella terribile pensione Jaccarino e condannato a morire, salvato, come diceva lui, "dal calendario" l’arrivo della V Armata americana.
Di queste cose io ho sentito parlare sempre con voluta leggerezza mai come racconto epico, sebbene di epopea si trattasse. Ma in quelle conversazioni serali c'era un intrecdo fra le vicende politiche del passato e del presente e la letteratura, la musica la cultura, ingredienti preziosi per una militante di base così rozza come me, e i miei coetanei solo di qualche anno più giovani della generazione della Resistenza. Veniva dalla memoria di Giaime Pintor e dalla eccezionale influenza che aveva lasdato questo fratello, ventitreenne eroe saltato su una mina nella valle di Venafro dove era stato paracadutato per rientrare nell’Italia occupata a combattere. E però già precoce, raffinato intellettuale che nei suoi così brevi anni di vita aveva marcato di un segno profondo il comunismo di Luigi e dei suoi compagni: aveva insegnato a leggere Rilke, da lui mirabilmente tradotto, oltre a Lenin.
Poi, nd ‘66, ci fu l’XI congresso del Pci - quello di quando Pietro Ingrao, cui noi tutti eravamo vicini, disse, rivolto alla direzione del partito, infrangendo una prassi che sembrava infrangibile, «non direi che mi abbiate convinto». Per noi tutti fu uno snodo politico e di vita. Per Luigi l’esilio da Botteghe Oscure fu più estremo e però anche in qualche modo più dolce, fu spedito in Sardegna come vicesegretario regionale, lontano, ma in un’isola che era la sua. A Cagliari aveva tutti i ricordi dell’infanzia e forse quello è stato il periodo in cui, sebbene politicamente molto arrabbiato, mi era parso umanamente più sereno. Aveva preso casa a Quartu S. Elena vicino al mare, e a tutti noi fece scoprire le coste ancora selvagge e le «taccule», gli uccelletti impalati e profumati di erbe il cui assassinio la cosdenza ecologica ancora lontana non aveva condannato.
L’andavamo a trovare perché ci capitava per lavoro ma anche perché lì, proprio in quella casa di Quartu, vennero tessute le prime trame dd progetto che anni dopo divenne il manifesto; e subito un bel pezzo di Pci sardo, che poi non a caso divenne una costola importante del gruppo, vi fu coinvolto.
La storia del manifesto, e dunque per tanta parte della vita di Luigi, non si può raccontare così, in questo momento. La dovremo scrivere tutti assieme, un giorno. Voglio solo ricordare Luigi direttore del quotidiano, di come si arrabbiava quando il giornale ripeteva sempre gli stessi rituali titoli dell’epoca tanto che «La Zanussi riparte» restò a lungo il simbolo delle nostre colpe giornalistiche. Si arrabbiava con gli allora giovanissimi redattori venuti a lavorare al quotidiano senza aver mai prima messo piede in un giornale, perché non sopportava soprattutto lo scrivere sciatto, la banalità dell’immagine, la casualità delle parole usate, lui che ha poi scritto libri più che esigui perché ogni aggettivo gli sembrava eccessivo, ogni fatto non essenziale, superfluo. La sua severità di maestro ha dato lustro e rinomanza alla «scuola del manifesta», diventata col tempo un «pedigree» prestigioso.
Ma dire che Luigi Pintor è stato un grande giornalista, un editorialista come non ce ne altri in Italia, un polemista bruciante non rende la persona, Luigi avrebbe in realtà voluto essere pianista (e sarebbe stato un grande pianista), ed ha rimpianto sempre che le vicende della vita l’abbiano moralmente obbligato all’impegno politico. Quando poteva suonava ancora, perché è nella musica che si trovava più a suo agio.
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