di Maurizio Caprara
ROMA - Il colletto della camicia sbottonato. Il pacchetto delle sigarette sul tavolo, una tra le dita. Nella stanza, il girare a vuoto delle frasi di alcune persone che inseguono una formula magica da trovare ogni sera, e ogni sera diversa, senza riuscire ancora ad afferrarla. Poi, il più delle volte, Luigi Pintor, quello con quella camicia e quelle sigarette, che tira fuori due, tre parole, o anche una sola, ed ecco la soluzione. Operazione compiuta. Preda afferrata. La si consegni in tipografia.
Sono nati così, per anni, tanti titoli del manifesto, quotidiano comunista figlio di un' eresia. Schizzi di sarcasmo, zaffate di critica, sfottò urticanti o puramente divertenti senza essere, però, né bonari né ingenui. Titoli come «Istituzioni a delinquere», nel 1973, su un voto del Senato che negava l' autorizzazione a procedere contro sei parlamentari per lo scandalo Ingic, un antenato di Tangentopoli.
Oppure «Il mitile ignoto», sulla tendenza di certa stampa a non individuare colpevoli nella diffusione del colera in una Napoli malgovernata e con le cozze a far da capro espiatorio.
Per aver decantato sull' organo del Psdi le qualità di Giuseppe Saragat, che lo aveva nominato senatore a vita, il poeta Eugenio Montale ricavò un corsivo intitolato così: «Ossi di presidente». Non più di seppia. Rispondeva ad un metodo, la libera inventiva di Pintor: la scelta di andare al dunque, evitare il superfluo. «Limavo i miei scritti stampati sul giornale... scoprendo che c' è sempre una riga su tre di troppo», ha raccontato sui suoi esordi da giornalista che poi lo portarono ad essere condirettore dell' Unità, prima della radiazione dal Pci nel 1969, e direttore del manifesto. «Ho applicato alla scrittura le tecniche meticolose che si usano su una tastiera», ha ammesso riferendosi al pianoforte.
Il risultato è stato l' opposto di un virtuosismo barocco, del dilettarsi in inutili giochi di parole. E l' ammissione conteneva la confessione di un intimo desiderio: una vita diversa da quella che si era sentito in dovere di vivere. Forse avrebbe preferito che qui si fosse descritto un musicista o un uomo di cinema, Luigi. Come ha spiegato in Servabo, libro amaro e profondo, gli piaceva credere che se non ci fosse stata la Seconda guerra mondiale la politica sarebbe rimasta per lui «una curiosità secondaria». Ma la guerra, ricordava Pintor, «si è sovrapposta alla mia adolescenza con la precisione di una calcomania». Invece che artista tenuto a fantasticare, il diciottenne Luigi si ritrovò un ragazzo costretto a cercare il corpo del fratello nei pressi di un campo minato. Giaime, più grande di sei anni, era morto per combattere i nazifascisti nel dicembre 1943.
«Quelle vicende hanno deciso interamente del mio futuro, formando tutto il mio modo di pensare», riconosceva Luigi, chiamato in una lettera del fratello a continuarne la lotta. Gappista, venne catturato dalla lugubre «banda Koch», picchiato per ore. Fu la sorte a salvarlo dall' esecuzione. Il resto dell' esistenza, più tardi, non gli risparmiò insidie. La malattia che gli sottrasse la prima moglie. Le perdite ravvicinate dei due figli, Giaime e Roberta. Verso Pasqua, su di sé, la scoperta di un tumore. Troppo tardi.
Venerdì, per Bollati Boringhieri, di Pintor uscirà un nuovo libro, I luoghi del delitto: racconta di un uomo al quale un medico dà pochi mesi di vita. Un' idea nata quando l' autore ignorava che lo aspettava una prospettiva del genere, con meno tempo. Di certo, il pessimismo della ragione e l' ottimismo della volontà evocati da Gramsci, sardo come la sua infanzia, Pintor li aveva sperimentati per reggere agli urti della vita. E li usava non soltanto per quello. Era uno che nel 1975, aprendo un dibattito sul manifesto, chiariva da subito: «Il giornale non ci pare all' altezza dei compiti».
La testata rimaneva ancora legata a una forza politica, il Partito d' unità proletaria. Alla concezione togliattiana secondo la quale un giornale è «la politica del partito che si fa quotidiana», Pintor preferiva il paragone con «una rondine che la mano del partito non deve stringer troppo per non soffocarla, né troppo poco perché non voli via». C' era un residuo della diplomazia acquisita nel Pci, in quella tesi. In realtà Pintor affermava anche che «un giornale ha bisogno di una direzione o impronta personale», e dicendolo pensava alla sua. Teorizzarlo lo autorizzava a suonare con più autonomia, sui tasti di una Olivetti, come avrebbe preferito fare da musicista su un piano.
Da due pericoli metteva in guardia: il manifesto non deve essere «nè una salsiccia di articolesse né un tritato di informazioni». L' imperativo: «Non ci serve assomigliare di più agli altri, bensì il contrario». Qualcuno oggi faticherà e credere che un giornalista di partito, e del Pci degli anni 50, sia potuto essere uno spirito libero, non votato all' obbedienza. Ma la varietà antropologica dei comunisti italiani ha prodotto anche questo. Che poi Pintor si sia battuto contro una propensione della sinistra a pigri compromessi non significa che non sia stato, in parte, conservatore.
Non gli piacque quando il Pci cambiò nome. Il suo però era un conservatorismo laico, sottile. A Silvano Miniati, che già nel 1974 non voleva chiamare «Pdup per il comunismo» il Pdup, aveva obiettato: «L' idea di esser frainteso nel senso che comunista significhi brezneviano, mi terrorizza. Ma ci terrorizza molto di più lasciare a Breznev la bandiera del comunismo».
Fu «Non moriremo democristiani» un suo titolo celebre. Risale al 28 giugno 1983, dopo un tonfo elettorale della Dc di De Mita. Pintor riteneva che per ottenere governi senza scudo crociato non bisognasse aver paura di Craxi. In seguito, a Craxi addebitò di non aver puntato a un vero ricambio del potere. Nell' ultimo editoriale, il 24 aprile, ha riconosciuto una delusione per sé ben peggiore: «La sinistra italiana che conosciamo è morta», corrosa dalla voglia di governare comunque. Secondo quel testamento destra e sinistra sono formule «svanite», meglio un' internazionale dei movimenti e «estraneità» rispetto all' avversario. Sembrò «una terribile ingiustizia», al ragazzo Luigi, l' assenza di musica al funerale del padre, amante di opera e sinfonie. A subire il silenzio, da ieri, c' è anche lui. Che questo gli porti almeno pace e riposo.
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