Uno straordinario figlio del secolo breve
La nostra sfida è "Servabo"
Valentino Parlato
La morte di Luigi, improvvisa e lunga (nessuno si aspettava una sentenza così radicale da parte dei medici e nessuno dei medici si aspettava la sua lucida e naturale vitalità) è un colpo terribile per tutti noi del manifesto e per i suoi tanti amici e compagni, oggi anche lontani da lui. Non si tratta solo di un colpo agli affetti, ma alla vita di ciascuno di noi, al nostro passato soprattutto, ma anche al nostro difficile futuro. Occorre ripensarsi; ma intanto, anche se qualcuno di noi preferirebbe il silenzio, è d’obbligo, è giusto scrivere; non è opportuno tacere: per noi e per lui.
Ma che cosa dire? Viene da ripetere la frase «non ho parole», usata e pure abusata da Luigi, che le parole le modellava e le manovrava, come il fioretto e l’obice, a seconda delle circostanze. Ho riletto, sul manifesto, la sua lettera a Laura Lombardo Radice-Ingrao. Confesso la mia incapacità: l’essenzialità di quei quattro capoversi non è imitabile. Scriverò più a lungo, sballottato tra pulsioni diverse e tra loro forse contraddittorie.
Certo, senza Luigi il quotidiano ii manifesto non ci sarebbe mai stato. Luigi è stato, pur tra scontri dolorosi, l’architrave di questa casa che tra venti e tempeste ha resistito più di trent’anni, un caso abbastanza unico per un giornale come il nostro. Senza di lui tutto sarà più difficile, vecchi e giovani dobbiamo saperlo e insieme dovremmo ripetere «Serva- bo»; così come Luigi intendeva e intese nella sua vita quel motto.
Luigi è stato un fratello maggiore, un amico, un compagno in senso profondo. Per chi gli è coetaneo, ma anche per i giovani, la sua uscita di scena costituisce un’altra avanzata di quella grigia armata che si chiama solitudine. Noi più vecchi soffriamo terribilmente di solitudine, che è anche sinonimo di debolezza e che, con tutti i sensi di colpa, un po’ mi induce a invidiare Luigi: morire è anche uscire di scena - pare che Augusto, morendo, come sue ultime parole abbia detto «la commedia è finita». La vita è anche una commedia, Augusto, primo imperatore globale, aveva qualche ragione.
Nel momento del distacco, chiedersi chi era veramente Luigi può apparire saccente e presuntuoso. Può apparire solenne e autosolennizzante. Mentre scrivo, sono le 15 di sabato 17 maggio, arriva la notizia della morte annunciata: Luigi è morto. L’annuncio era scontato, ma cambia più di qualcosa.
Chi era Luigi con il quale abbiamo lavorato, anche con scontri e divisioni dolorose, da circa quarant’anni? Luigi era e resta una personalità unica, complessa non per le sue contraddizioni interne come ormai tutti ci diciamo, ma per la ricchezza dei suoi apporti costitutivi. Luigi è stato uno straordinario, direi unico, figlio del secolo breve.
Senza la seconda guerra mondiale Luigi, forse, non sarebbe stato Luigi e neppure molti di noi più anziani. La seconda guerra mondiale - rileggiamo «Servabo» - porta Luigi fuori dell’isola; poi c’è la morte del fratello, la famosa lettera; e Luigi giovanissimo che dai banchi del Tasso passa ai Gap (Gruppi di azione patriottica, che oggi diremmo terroristi). Ma nella dimensione del secolo breve (ho il timore di scivolare nell’insipienza storiografica) ci sono altri tre elementi che formano la personalità di Luigi, o almeno credo io. Ci sono la famiglia e la sardità, l’essere un comunista italiano (nozione ancora non di facile comprensione per i più giovani) l’essere un giornalista politico e un vero giornalista.
Siamo nella prima metà del novecento, quando le famiglie ancora contavano e la famiglia Pintor, come quella dei Lombardo Radice o dei Natoli, aveva un peso. La famiglia Pintor non era riducibile all’ultimo erede, il giovane Giaime, ucciso dall’esplosione di una mina mentre passava il fronte per tornare al Sud. La famiglia Pintor era qualcosa di più: era lo zio Luigi, effettivo governatore della Libia; era lo zio Pietro, il generale del corpo d’armata del fronte occidentale che andò con il giovane nipote Giaime a trattare l’armistizio francese e che poi negli anni quaranta morì in un sospetto incidente aereo. Ed era ancora lo zio Fortunato, deus ex machina dell’Enciclopedia italiana.
Poi, ma forse in primo luogo, Luigi fin da giovanissimo (cominciò con i Gap) fu un comunista italiano. E questa storia non si può spiegare solo con la pensione Jaccarino, le torture, la condanna a morte. Non si tratta solo di resistenza ma, credo io - e posso clamorosamente sbagliare - di fredda razionalità di impegno: il miglior Machiavelli e, pertanto, la massima libertà di giudizio. Nella tragedia ungherese del ’56, Luigi non ebbe tentennamenti e rimase decisamente da questa parte della barricata, non si fece travolgere dal rapporto segreto di Krusciov, non si associò ai nuovi antistalinisti (che poi erano e sono gli stalinisti di ieri), ma capì che il Pci per restare tale doveva rompere con l’Urss, puntando a un’uscita dallo stalinismo, ma da sinistra. Una ventina d’anni dopo, forse troppi, ma assai travagliati (ricordiamoci dell’XI congresso del Pci) si arrivò alla rottura del manifesto e alla radiazione dal Pci. Viste le traversie del Pds e dei Ds forse è difficile comunicare ai più giovani che cosa furono i comunisti italiani, ma i giovani dovrebbero fare qualche sforzo e la vita di Luigi dovrebbe aiutarli a capire.
Questo comunista italiano, lucido erede di una famiglia impegnata, fu anche - ed essenzialmente - giornalista. Giornalista in senso politicamente alto. Per un verso aveva coscienza della precarietà del quotidiano: «A mezzogiorno, con il giornale - ci diceva - si possono avvolgere le patate». E, a mio parere questa coscienza della precarietà è solo l’anticipazione di una profondità. Parafrasando la famosa frase di Gertrude Stein («una rosa è una rosa è una rosa») ci diceva «un giornale è un giornale è un giornale». Coglieva così e metteva in evidenza uno specifico giornalistico, che è assolutamente politico, contro la semplificazione che un giornale debba essere solo l’amplificatore di una linea politica, eludendo così lo specifico del mezzo e la differenza tra propaganda e persuasione. Si tratta di una questione di delicata intelligenza politica e infatti su questo punto tra noi ci siamo anche scontrati: in totale buona fede, ma con scarsa cognizione delle cose del mondo. Luigi, in quanto giornalista, capiva di politica assai più di quelli di noi che si credevano politici. La politica che non può andare sui giornali è, evidentemente, sbagliata.
Sui suoi articoli, quasi tutti assai brevi, sono usciti due volumi: uno, «Parole al vento» di Kaos editori, sugli anni ’80; e un altro di Bollati Boringhieri, «Politicamente scorretto», sugli anni 1996-2001. Valgono più di due manuali di storia d’Italia.
E c’è la nostra storia, de il manifesto, una storia più che trentennale che anche per Luigi è un miracolo mondiale. Il primo numero del quotidiano andò nelle edicole il 28 aprile del 1971; poco dopo si avviò la campagna elettorale del 1972. All’interno del nostro gruppo la discussione non fu totalmente serena, poi però si decise di andare alle elezioni e alla sconfitta: tanta gente in piazza, pochi voti nelle urne.
Poi, con la costituzione del Pdup, nato dall’alleanza tra i compagni anche essi sconfitti del Psiup (Foa, Miniati, Ferrati) si aprì un conflitto tra giornale e partito: il giornale da «quotidiano comunista» era diventato «quotidiano di unità proletaria per il comunismo». Ci fu il tentativo del partito di governare il giornale; Luigi si oppose e se ne andò. Ricordo un saluto d’addio, assai doloroso, davanti alla sede del Pdup in via Cavour. Ma l’unità tra partito e giornale non resse a lungo, ci fu il congresso di Viareggio del Pdup e la rottura tra il gruppo del giornale e il gruppo del partito. Il manifesto riprese la sua autonomia, che conserva ancora oggi, e ci fu il rientro di Luigi nel collettivo del giornale e nella sua direzione. Va però detto che queste rotture, non semplici, prima con Luigi e poi con Lucio e Luciana e altri compagni meno vicini, non incrinarono mai i rapporti di fiducia reciproca: era un modo buono e leale di fare lotta politica.
Ora che Luigi se ne è andato dovremmo concentrarsi sul nostro prossimo che fare, lui un indirizzo ce lo ha dato. Cerchiamo di ripetere «Servabo».
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