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Luigi Pintor
la lezione di un eretico
di NELLO AJELLO
È morto ieri a Roma, dov'era nato settantotto anni fa, Luigi Pintor. Di famiglia sarda, è stato giornalista, scrittore, deputato del Pci, poi comunista eretico, fondatore e direttore del manifesto (rivista, partito e giornale). Sulla fine degli anni Ottanta s'era riavvicinato agli antichi correligionari del Pci, per separarsi in seguito, definitivamente, dalla nuova formazione post-comunista.
Una vita spesa comunque a sinistra, la sua. Con dedizione. Con caparbietà. Con inquietudine. Quest'ultima qualità, o dono - una trepidazione venata di arguta malinconia - vale più d'ogni altra a spiegarne la personalità e il destino. E ad imporlo al ricordo di molti.
Arrivando diciottenne all'impegno politico, Pintor aveva appena subìto quel trauma che lo avrebbe segnato nel profondo: la scomparsa del fratello Giaime, scrittore, critico, studioso di letteratura tedesca, editor (si direbbe oggi) della Einaudi, uno dei più promettenti ingegni dell'Italia sul crinale tra fascismo e libertà. Giaime era morto a poco più di vent'anni, nel '43, saltando su una mina mentre cercava di passare il fronte laziale per organizzare la lotta partigiana.
La presenza delicatamente mitica di Giaime s'indovinerà per sempre in Luigi, al di sotto delle sue apparenze più divulgate d'uomo-contro, di moralista, d'intellettuale votato alla polemica, mezzo illuminista e mezzo giacobino. Era stato Giaime, di sei anni maggiore di lui, il mèntore della formazione di Luigi e poi anche l'arbitro - postumo e invisibile - di tante sue scelte.
In Servabo, un breve libro del 1991, Luigi parla delle scoperte culturali che andava facendo da ragazzo: fra l'altro, i romanzi di Vittorini e di Pavese e la spinta, che ne derivava, verso la narrativa americana. Una vetta della letteratura yankee, Herman Melville, resterà fra i suoi autori di culto. Del cinema parlava come di una rivelazione preziosa. C'era infine la musica, malattia di famiglia. Suo padre Giuseppe, funzionario al Provveditorato delle Opere Pubbliche di Cagliari, si sentiva un musicista mancato e ne soffriva. Luigi stesso suonava, con la passione d'un dilettante colto. "Per tutta la vita", confessava, "mi sono tirato dietro, di casa in casa, un pianoforte".
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I Pintor erano antifascisti: uno zio paterno, Fortunato, un bibliofilo erudito che aveva collaborato alla Treccani, dové dimettersi per motivi politici dalla Biblioteca del Senato di cui era un dirigente. Un altro zio (o forse lo stesso) accompagnerà Luigi a cercare le spoglie di Giaime in quel paesino, Castelnuovo al Volturno, dove aveva trovato la morte.
La partecipazione di Luigi alla Resistenza durante l'occupazione nazista di Roma, nei Gruppi di Azione Partigiana (Gap), cui seguirono l'arresto da parte della "banda Koch" e la condanna a morte sventata dalla Liberazione di Roma, s'inseriscono in questo quadro etico-politico. Ma anche qui ecco risuonare una di quelle note elegiache che a Pintor molto somigliano. Nei mesi della lotta antifascista nella capitale - egli raccontava - gli fu vicino un amico d'infanzia, Silvio Serra, che sarebbe poi stato ucciso in combattimento.
Quando, assai più tardi, Pintor vide i giovani del Sessantotto, gli sembrò di averli sempre conosciuti: Serra, il suo antico compagno, vestiva esattamente come loro "anche se allora l'eskimo non c'era". Partigiana era anche la sua prima moglie, Marina Girelli (che sarebbe morta alla fine degli anni Settanta). L'aveva sposata a vent'anni. A ventidue avevano già due figli. Nei quindici anni successivi l'attività di Pintor non si discosterà da quella tipica degli intellettuali "organici" all'interno del Pci. Luigi portava un cognome mitologico, ma non era incline a farsene un'aureola. Come giornalista - all'Unità, prima come redattore politico, poi come condirettore dell'edizione di Roma - era colto e attento, anche se le sue vere doti di editorialista le avrebbe dimostrate più tardi, in contesti assai più liberi.
Membro dell'Ufficio di Segreteria del partito, consigliere provinciale a Roma, il suo "cursus honorum" prosegue e quasi si conclude (il quasi lo si chiarirà più avanti) nel 1968 con l'elezione alla Camera in un collegio sardo. Del suo spirito caustico e autonomo non si ebbero prove decisive in quella fase. Ricordo anzi che in un momento cruciale, dopo quel XX congresso del Pcus che segnò l'addio al Pci di molti fiancheggiatori, fu proprio Pintor a rimbrottare sul settimanale Il Contemporaneo uno dei dissenzienti, Carlo Cassola, per avere scelto "il divorzio dall'azione politica, e quindi dall'azione civile e sociale". E' perciò difficile dire se già in quel '56 covino in Pintor germi di insubordinazione partitica.
I dodici anni che separarono la tragica rivolta di Budapest dalla primavera (repressa) di Praga sono per tanti intellettuali inquadrati nel Pci una parentesi d'insofferenza mascherata. Sulla metà degli anni Sessanta, tuttavia, nel mondo comunista l'aria si fa pesante. La crisi all'interno dei satelliti europei si somma con l'eresia cinese, in Urss il dissenso fa sentire la sua voce, albeggia il Sessantotto, nel mondo del lavoro si preannunziano tempi "caldi".
Nel Pci, l'ala sinistra rappresentata dai seguaci di Pietro Ingrao - il leader sconfitto all'undicesimo congresso, nel 1966 - si pone di fatto come un nucleo di opposizione interna. Tre suoi esponenti, Luigi Pintor, Rossana Rossanda ed Aldo Natoli, vengono eletti nel Comitato centrale per iniziativa di Enrico Berlinguer, nominalmente ancora vicesegretario (con Luigi Longo). Ma quel gruppo di dissenzienti fornirà una prova tangibile di indipendenza: la fondazione della rivista il manifesto, diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, ma promossa anche da Pintor, Natoli, Caprara e altri intellettuali.
Quella rivista osava l'eresia. Il numero 4, settembre 1969, conteneva una lettera di Pintor che la stampa ufficiale del Pci s'era rifiutata di pubblicare per il suo tono apertamente polemico nei riguardi di Giorgio Amendola, che aveva sostenuto sull'Unità la necessità, per il Pci, di entrare nel governo a breve scadenza. Era, questa reazione critica, una delle tante mosse temerarie che il gruppo si concedeva. La replica del vertice comunista era nell'aria. La procedura repressiva adottata dal partito fu di una suprema macchinosità burocratica. Prima venne soppressa la rivista. Poi il Comitato centrale deliberò la "radiazione" di Pintor, Rossanda e Natoli e infine emise provvedimenti a carico di altri esponenti: Magri, Caprara, Parlato, Luciana Castellina.
Volle essere un esempio. Non per questo il manifesto interruppe la propria corsa. Nel giro di due anni, la rivista si trasformò in quotidiano. Capitò ad Umberto Eco ed a me, nel febbraio 1971, scrutare gli intendimenti editoriali degli eretici del Pci alla vigilia dell'uscita del quotidiano (che avrebbe esordito in aprile).
Avemmo con Pintor uno scambio d'idee che riempì un paginone dell'Espresso. Si tentava di dar vita, egli dichiarò, a "un giornale povero" con un "minimo vitale" di trentamila copie. "Uno strumento di intervento continuo, di informazione continua, di presenza e battaglia continue". Pintor ripensava "alla grande esperienza dell'Unità dell'immediato dopoguerra, che ebbe un afflusso di giovani quadri venuti dalla Resistenza. Essi inventarono il giornale, impararono a farlo e lo fecero bene, sostituendo i gruppi dirigenti originari". E' difficile dire se questo programma si sia compiuto. In parte, certamente sì.
Pintor ha conosciuto durante gli ultimi decenni traversie politiche - come l'avvicinamento al Pci, che lo fece eleggere deputato "indipendente" nel 1987, e il successivo distacco dal Pds nascente - e smisurate tragedie personali: la morte dei suoi due figli, Giaime junior e Roberta. Per lui il manifesto rappresentava, più che mai, un'oasi. "Era solo un giornale", avrebbe raccontato, "ma per noi era molto di più, ed entrarci non era una scelta di mestiere ma un arruolamento volontario".
Gli editoriali che egli andava scrivendo - ne ha raccolto nel 2001 un gruppo, in un volume intitolato Politicamente scorretto - erano spesso ironici fino al surreale. Somigliavano ad epigrammi, a parabole laiche. Emanavano una luce da "anno zero". Parlavano, a volte, fuori dai denti.
Ma contenevano "in nuce" la stessa felicità di scrittura, lo stesso distacco raffinato e dolente che Pintor mostrava nei suoi libri di ricordi, dal già citato Servabo (1991) alla Signora Kirchgessner (1998) al Nespolo (2001), tutti editi da Bollati Boringhieri. Produrre brevi articoli o esili autobiografie era l'unica cosa che gli restava. "Come da un osservatorio astronomico si guarda il cielo", ha raccontato, "così dalla mia postazione mi affacciavo sul grande scenario e credevo di partecipare al moto degli astri mentre sedevo a una macchina da scrivere".
L'ultimo libro, I luoghi del delitto, accompagna la scomparsa del suo autore, e la preannunzia con la solita levità elegiaca. "Penso con sollievo che la morte mi ricondurrà dov'ero, cioè da nessuna parte. Ma questo cielo notturno mi seduce e mi fa credere per un momento in un aldilà dove si possono capire le cose incomprensibili dell'aldiqua". Una laica scommessa.
(18 maggio 2003)
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