di Gianni Riotta
Il dibattito era stato ferocissimo, tema «Come si scrive con chiarezza?». Il poeta Franco Fortini aveva preparato un testo classico, ancora oggi studiato nelle università, di assai ardua lettura. Alla fine era intervenuto Luigi Pintor, gli occhiali sulla fronte, la voce un' ottava più alta: «Dovete preparare il giornale come se scriveste una poesia. Per la chiarezza ricordatevi dei Vangeli. Chicco di grano, buon seminatore, la parabola dei talenti. Niente di più semplice nella scrittura, eppure di una profondità immensa».
L' Unità prima ed il manifesto dopo erano per Luigi Pintor giornali che «la politica deve tenere in mano come si tiene un passero. Se schiudi le dita vola via, se le stringi muore». La sua storia era semplice e tragica. Il fratello maggiore Jaime, che scriveva a quattro mani con Mikhail Kamenetzki usando lo pseudonimo «Ugo Stille», fu un genio precoce della letteratura. Saltò su una mina nel 1943, in una delle prime azioni della Resistenza. Aveva indirizzato a Luigi un testamento diventato manifesto per una generazione: sarebbe bello impigrirsi, studiare, corteggiare ragazze, ma la guerra è richiamo morale alla politica. Luigi Pintor raccontava allora di essersi infilato un impermeabile chiaro, in tasca una rivoltella, e di essere finito nelle stanze della tortura nazifascista. Salvato in extremis dal plotone di esecuzione, aveva speso la vita per estinguere il debito etico che sentiva di avere con il leggendario fratello.
Scriveva guardando il foglio per ore, la sigaretta stretta in bocca, colpiva i tasti, svogliato, uno alla volta, un giornale come una poesia. Nel Partito Comunista ebbe vita difficile. «Quando mi cacciarono dal Pci, pensai: il Pci se ne va dal Pci», diceva. Aveva sostenuto le tesi della sinistra di Pietro Ingrao, all' XI Congresso del 1966, e finito in minoranza era stato rispedito nella Sardegna natia, «a occuparmi del carciofeto irriguo». Per distrarsi suonava il pianoforte.
Fu lui, con l' articolo «Praga è sola», a esporre gli intellettuali del manifesto contro l' invasione della Cecoslovacchia. L' Unità, che adorava, lo bollò come «anticomunista di disturbo... al soldo degli agrari». Ingrao, il cui nome aveva dato battaglia, non protestò. Più tardi Pintor volle riappacificarsi con il Pci, eretico che riconosce la forza della Chiesa d' origine.
Oggi tutti ne ricorderanno la penna aguzza, quando definiva «Spirocheta pallida» i baffi del segretario Dc Flaminio Piccoli. Ma Pintor era anche l' autore di un omaggio a Ugo La Malfa, avversario politico onorato in punto di morte, e dell' editoriale filo-socialista «Chi ha paura di Bettino Craxi?», che fece scandalo.
«Componete i titoli come musica, senza contare le battute», oppure: «Se avete un buon articolo di spalla, mettetelo in apertura». Non insegnava, sperava soltanto di essere imitato. Il suo orizzonte politico restò la lotta alla Dc e, scomparso quel partito, la vena si immalinconì. I libri per Bollati Boringhieri, da «Servabo» a «Luoghi del delitto», lo confermano scrittore, ma restò giornalista per fedeltà al destino indicatogli dal fratello. Questa fu la pena della vita di Luigi Pintor, composta dalle morti acerbe dei figli Jaime e Roberta. L' uomo dentro il giornalista comunista era fine e ombroso. Più grande, nelle luci e negli scuri, della sola firma. Chi lo vuole cercare, lo troverà nella narrativa, paradosso estremo per un uomo che si voleva invece risolto nella politica, ma accettato, forse, come ultima gioia.
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