FondazioneLuigiPintor
  • Chi siamo
  • Iniziative
  • Contatti
  • Lo statuto
  • Luigi Pintor
    • La vita
    • Pintor visto da Pintor
    • Caro Luigi
    • Amarcord
    • Giaime
    • Editoriali
    • Corsivi
    • Anniversari
    • Libri
    • Il Manifesto Rivista
    • Il Manifesto Quotidiano

LA SEMPLICE DIGNITA’

DELLA PERSONA

IL SUO MANIFESTO

NELLA STORIA

ITALIANA

 

Rossana Rossanda

 

Si è spento ieri Luigi Pintor, il nostro compagno ed amico, quello che ha ideato questo giornale, lo ha fatto con niente, ci  ha insegnato a farlo. Non lo dirigeva più da anni, lasciando spazio ai più giovani, ma ne è rimasto l’anima amata o contestata: sentiamo Luigi, che ne dirà Luigi, oggi Luigi scrive. In marzo e aprile ha scritto quasi ogni giorno contro la guerra in Iraq, era già malato, non lo immaginava  La vita non lo aveva risparmiato e non lo ha risparmiato neppure la malattia che lo ha aggredito repen­tina e feroce, senza lasciargli  il  tempo, divoran­dogli in poche settimane il corpo e non per­mettendo alla mente vigile né di sprofondare nell’incoscienza,  né di «governare il trapasso», come disse con quel  suo misto di ironia ed eleganza  appena letto il risultato della tac, il 22 aprile. E’ stato fino all’ultimo lucido, compo­sto, mentre il corpo se ne andava e la mente restava spalancata davanti all’oscurità immen­sa della morte, non cessando di interrogarla.

L’aveva frequentata fin da ragazzo, la crudeltà  della fine, quando il fratello grande, Giaime, era saltato su una mina tedesca a ventitré anni, nel  tentativo di raggiungere le formazio­ni combattenti del  Nord. E’ terribile per un ra­gazzo perdere un fratello, e Giaime era qualco­sa di più. Era il giovane prodigioso, colto, bril­lante, che sapeva e spiegava tutto al più picco­lo di lui, e a lui infatti lasciava  la lettera nella quale diceva della sua scelta  necessaria assun­zione di responsabilità, senza enfasi e senza li­rismo ma senza possibilità di compromesso. A Luigi parve sempre ingiusto che morisse lui, Giaime, appena oltre i suoi venti anni, prova della crudeltà  e non senso delle cose. Poi ne avrebbe raccolto gli scritti e le carte, avrebbe custodito nella memoria dei posteri quella splendente giovinezza sulla quale qualcuno, l’anno scorso, avrebbe cercato di gettare una manciata  di fango.

Non so se Luigi ne abbia patito, sta nello stile dei tempi, lui, e noi, ne abbiamo viste di tutte. Ma Luigi era stato singolarmente prova­to negli affetti: la madre dei  suoi figli, Marina morta di cancro dopo anni di sofferenza,  il fi­glio Giaime mancato alcuni anni fa, poi d’improvviso, intollerabile, la morte della figlia Ro­berta.  Aveva appena ritrovato una certa pace accanto alla sua meravigliosa Isabella in una casa che gli era cara per essere stata della sua famiglia, quando è stato a sua volta afferrato dal male. Fucilato dalle perdite, gliene era ve­nuto un senso contraddittorio: mai mancare all’impegno («Servabo») e la sensazione di una fatalità negativa dell’esistenza e fin un senso di colpa,  la colpa di essere, di sopravvivere, di aver mancato non si sa come e dove, che filtra dai suoi libri, anch’essi contraddittori fra la profondità del  pessimismo e la perfezione della  forma, ed è l’oggetto dell’ultimo di essi, scritto due anni fa e in uscita  adesso. Leggen­done le bozze in clinica si sarebbe detto, scuo­tendo il capo come di fronte all’ennesimo scherzo del  destino, che nel protagonista cui il medico ha appena annunciato  la malattia mortale, il lettore avrebbe a torto veduto lui stesso, da due anni in attesa della fine, mentre la malattia di cui scriveva era un’altra, la colpa non di avere commesso un delitto,  ma di non averlo saputo impedire.

La colpa di noi tutti, che andava  oltre la vicenda della persona, la colpa del  fallimento delle idee, dei  comunisti. Luigi era stato uno dei  migliori giornalisti dell’Unità - in verità uno dd migliori giornalisti italiani, per il nito­re della scrittura e la fulmineità  della vis pole­mica.  Quando cominciò la televisione, il faccia a faccia  con l’avversario pareva fatto per lui. Non ne perdeva una, andava sempre al segno, colpiva con quella sua infallibile e spiritosa eleganza  senza un colpo basso, ignaro di ogni volgarità, convinto come era che il popolo è nobile e la sua causa va servita con nobiltà. Non capì mai che cosa di rivoluzionario potes­se essere nel  trash o in una sgrammaticatura.  E la gente del  Pci gli era grata anche di quello stile, che nulla concedeva. Luigi è quello di noi cui hanno voluto più bene.

Allora aveva alle spalle un grande partito, del  quale non ignorava limiti e vizi, ma che fi­no agli anni ‘60 gli parve rappresentare la trin­cea della classe operaia italiana.  Classe ope­raia, popolo, gli offesi, i lavoratori dipendenti; non si impicciò  mai troppo di marxismo, Lui­gi, le cose gli apparivano più secche e semplici, e aveva ragione che la vera posta in gioco è e resta la dignità della persona.  Ci volemmo be­ne sempre e ci  azzuffammo sempre, pensava che fossi troppo elucubrante oltre che asinissima nella scrittura.  Ma eravamo sempre dalla stessa parte, intendendoci   negli accordi e di­saccordi da lontano, fra sorriso e furore. Sta di fatto che ci trovammo naturalmente assieme:  Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Ludo Magri, Ludana Castellina quando il Pci tollerò appena il 1968 e ingoiò, seppur a malincuore, l’invasione russa della Cecoslovacchia. Facem­mo assieme il primo manifesto, un mensile, e fummo assieme espulsi  dal partito.

Ma a Luigi non sarebbe mai bastata una ri­vista, voleva un moltiplicatore, una nostra lista alle elezioni, e uno strumento smisurato come è un quotidiano. Un quotidiano era una follia, non avevamo un soldo né un finanziatore, non lo avemmo mai avuto, e la squadra sulla quale egli poteva contare di giornalisti ne aveva due, Michele Melillo e Luca Trevisani. E un grande grafico, Giuseppe Trevisani. Cercammo soldi da questo o quel  compagno, un milione per volta e partimmo quando ne avemmo otto. Per anni avremmo vissuto di sottoscrizioni, tenuti a galla dai lettori, mentre la pubblicità mancò sempre, fu molto al di sotto dell’area sulla quale pesavamo e pesiamo; i padroni non si sbagliano, non ci  dettero mai niente, non ci tentarono  mai virtù fu meno insidiata della nostra. Ma credevamo con Luigi, avevamo con noi tutti i comunisti che ci  credevano an­cora e soprattutto quella intelligente nuova in­sorgenza giovanile. Sarebbe stato un felice in­nesto fra i vecchi - per rapporto al movimento del  1968 eravamo già «padri» e «madri» e non così sciocchi da travestirci - che avevano me­moria dd partito comunista più intelligente d’Europa e i giovani che si sollevavano da tutte le parti, e i nuovi operai dell’autunno caldo. Sarebbe stato I’abbraccio  fra un sapere più freddo e un’audacia  innovatrice spericolata. Non funzionò affatto.

Alle elezioni  del 1972 le nostre piazze furo­no piene quanto quelle dd Pci , ma nella cabi­na elettorale molti cuori che erano con noi preferirono votare per un partito più forte. E diffidò di noi anche il post 1968 più radicale e più frettoloso. Più tardi sarebbe finito disgre­gato o nell’estremismo armato o nel  riflusso. Difendemmo sempre questi figli che non ci avevano badato, e molti dei  quali ci fanno oggi lezione da destra.

Luigi non ne fu gran che turbato, più gli è pesata la seconda sconfitta politica, quella di noi «vecchi», l’incontro mancato fra quel  che pensavamo andasse conservato dei  comunisti italiani e le nuove forze ed idee. Quanto alla mancata eco eletto­rale, egli che era fra coloro che vi avevano pun­tato di più, per primo capì che non ce l’avrem­mo fatta: mentre festeggiavamo, qualche gior­no prima delle elezioni, il primo compleanno del  giornale, Luigi arrivò dicendo con l’abitua­le calma: Non è andata, non ce l’abbiamo fat­ta.

Sarebbero rimasti il giornale e un tentativo, fallito presto, di movimento partito.

Il giornale è il solo sopravvissuto. Il solo quotidiano nato dal 1968 che duri e sia interamente libero, libe­ro financo da un editore. Esile ma rispettato. Ci conoscono in tutta Europa, ci  conosce tutta l'Italia, che ci  compra soltanto nelle emergen­ze, mentre una base fedele  di lettori ci  rende impossibile di vivere con agio e di morire di stenti, il manifesto di Pintor è un pezzo di sto­ria italiana della seconda metà del  secolo.

Non che al suo ideatore sia stato sempre fonte di soddisfazione e di gioia. Nel  1973 già scriveva una lettera disincantata e spiritosa, il giornale non era quello che avrebbe voluto e non per la malvagità del  fato ma per i difetti della nostre inflessibili soggettività. Che il ri­flusso degli anni 70 e poi il crollo del  comuni­smo, reale e non, avrebbe moltiplicato. Erava­mo liberi di riflettere la realtà, e la riflettemmo anche nei  suoi erramenti. Luigi ogni tanto ruggiva cercava di separarsi come altri fra i padri fondatori, ma poi tornava a darci una mano. Tornò sempre, e il giornale lo aspettava più o meno ammaccato, ma vivente grazie a Valentino Parlato, sul quale hanno riposato tutte le nostre collere, perché Valentino non molla mai.

Ma è tanto se abbiamo resistito, se viviamo ancora. Gli anni ‘90 hanno parlato alle viscere della società  e alla parte più frivola della cul­tura. Luigi era stupefatto della stupidità con la quale il mondo consuma e uccide. Non cessò mai di denunciarla. Non accettò mai che fosse obbligatorio liquidare il movimento operaio e comunista e pensò tormentosamente che tut­ti ne portassimo qualche colpa, non fosse che per indifferenza Né accettò di liquidare quell’Urss cui fummo i primi a non dare più credi­to ma che rappresentava almeno il simbolo d’un altro mondo e sistema.

Ancora quest’an­no, nel cinquantesimo della morte, Luigi provo­catoriamente rifiutava di consegnare tutto il terribile Stalin alla semplice damnatio memoriae. Non era di coloro che riescono ad avere pace senza che la ragione glielo  consenta Si è spento irriconciliato.

Ma questo siamo in pochi a capirlo. Con lui muore gran parte della mia generazione: aveva un anno meno di me sono più vicina  a suo fratello che a suo figlio. Mancherà a noi, ai compagni, agli amici  e a quel che resta di rispettabile fra i nemici,  e non è molto.

 

 

 



blog comments powered by Disqus

Numero FAX: 06 97656905

bbb


Per aderire alla fondazione

Modulo in pdf
Modulo in word

© 2013-2017 FondazioneLuigiPintor tutti i diritti riservati
CF: 97744730587  – P.IVA: 12351251009