LA SEMPLICE DIGNITA’
DELLA PERSONA
IL SUO MANIFESTO
NELLA STORIA
ITALIANA
Rossana Rossanda
L’aveva frequentata fin da ragazzo, la crudeltà della fine, quando il fratello grande, Giaime, era saltato su una mina tedesca a ventitré anni, nel tentativo di raggiungere le formazioni combattenti del Nord. E’ terribile per un ragazzo perdere un fratello, e Giaime era qualcosa di più. Era il giovane prodigioso, colto, brillante, che sapeva e spiegava tutto al più piccolo di lui, e a lui infatti lasciava la lettera nella quale diceva della sua scelta necessaria assunzione di responsabilità, senza enfasi e senza lirismo ma senza possibilità di compromesso. A Luigi parve sempre ingiusto che morisse lui, Giaime, appena oltre i suoi venti anni, prova della crudeltà e non senso delle cose. Poi ne avrebbe raccolto gli scritti e le carte, avrebbe custodito nella memoria dei posteri quella splendente giovinezza sulla quale qualcuno, l’anno scorso, avrebbe cercato di gettare una manciata di fango.
Non so se Luigi ne abbia patito, sta nello stile dei tempi, lui, e noi, ne abbiamo viste di tutte. Ma Luigi era stato singolarmente provato negli affetti: la madre dei suoi figli, Marina morta di cancro dopo anni di sofferenza, il figlio Giaime mancato alcuni anni fa, poi d’improvviso, intollerabile, la morte della figlia Roberta. Aveva appena ritrovato una certa pace accanto alla sua meravigliosa Isabella in una casa che gli era cara per essere stata della sua famiglia, quando è stato a sua volta afferrato dal male. Fucilato dalle perdite, gliene era venuto un senso contraddittorio: mai mancare all’impegno («Servabo») e la sensazione di una fatalità negativa dell’esistenza e fin un senso di colpa, la colpa di essere, di sopravvivere, di aver mancato non si sa come e dove, che filtra dai suoi libri, anch’essi contraddittori fra la profondità del pessimismo e la perfezione della forma, ed è l’oggetto dell’ultimo di essi, scritto due anni fa e in uscita adesso. Leggendone le bozze in clinica si sarebbe detto, scuotendo il capo come di fronte all’ennesimo scherzo del destino, che nel protagonista cui il medico ha appena annunciato la malattia mortale, il lettore avrebbe a torto veduto lui stesso, da due anni in attesa della fine, mentre la malattia di cui scriveva era un’altra, la colpa non di avere commesso un delitto, ma di non averlo saputo impedire.
La colpa di noi tutti, che andava oltre la vicenda della persona, la colpa del fallimento delle idee, dei comunisti. Luigi era stato uno dei migliori giornalisti dell’Unità - in verità uno dd migliori giornalisti italiani, per il nitore della scrittura e la fulmineità della vis polemica. Quando cominciò la televisione, il faccia a faccia con l’avversario pareva fatto per lui. Non ne perdeva una, andava sempre al segno, colpiva con quella sua infallibile e spiritosa eleganza senza un colpo basso, ignaro di ogni volgarità, convinto come era che il popolo è nobile e la sua causa va servita con nobiltà. Non capì mai che cosa di rivoluzionario potesse essere nel trash o in una sgrammaticatura. E la gente del Pci gli era grata anche di quello stile, che nulla concedeva. Luigi è quello di noi cui hanno voluto più bene.
Allora aveva alle spalle un grande partito, del quale non ignorava limiti e vizi, ma che fino agli anni ‘60 gli parve rappresentare la trincea della classe operaia italiana. Classe operaia, popolo, gli offesi, i lavoratori dipendenti; non si impicciò mai troppo di marxismo, Luigi, le cose gli apparivano più secche e semplici, e aveva ragione che la vera posta in gioco è e resta la dignità della persona. Ci volemmo bene sempre e ci azzuffammo sempre, pensava che fossi troppo elucubrante oltre che asinissima nella scrittura. Ma eravamo sempre dalla stessa parte, intendendoci negli accordi e disaccordi da lontano, fra sorriso e furore. Sta di fatto che ci trovammo naturalmente assieme: Pintor, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Ludo Magri, Ludana Castellina quando il Pci tollerò appena il 1968 e ingoiò, seppur a malincuore, l’invasione russa della Cecoslovacchia. Facemmo assieme il primo manifesto, un mensile, e fummo assieme espulsi dal partito.
Ma a Luigi non sarebbe mai bastata una rivista, voleva un moltiplicatore, una nostra lista alle elezioni, e uno strumento smisurato come è un quotidiano. Un quotidiano era una follia, non avevamo un soldo né un finanziatore, non lo avemmo mai avuto, e la squadra sulla quale egli poteva contare di giornalisti ne aveva due, Michele Melillo e Luca Trevisani. E un grande grafico, Giuseppe Trevisani. Cercammo soldi da questo o quel compagno, un milione per volta e partimmo quando ne avemmo otto. Per anni avremmo vissuto di sottoscrizioni, tenuti a galla dai lettori, mentre la pubblicità mancò sempre, fu molto al di sotto dell’area sulla quale pesavamo e pesiamo; i padroni non si sbagliano, non ci dettero mai niente, non ci tentarono mai virtù fu meno insidiata della nostra. Ma credevamo con Luigi, avevamo con noi tutti i comunisti che ci credevano ancora e soprattutto quella intelligente nuova insorgenza giovanile. Sarebbe stato un felice innesto fra i vecchi - per rapporto al movimento del 1968 eravamo già «padri» e «madri» e non così sciocchi da travestirci - che avevano memoria dd partito comunista più intelligente d’Europa e i giovani che si sollevavano da tutte le parti, e i nuovi operai dell’autunno caldo. Sarebbe stato I’abbraccio fra un sapere più freddo e un’audacia innovatrice spericolata. Non funzionò affatto.
Alle elezioni del 1972 le nostre piazze furono piene quanto quelle dd Pci , ma nella cabina elettorale molti cuori che erano con noi preferirono votare per un partito più forte. E diffidò di noi anche il post 1968 più radicale e più frettoloso. Più tardi sarebbe finito disgregato o nell’estremismo armato o nel riflusso. Difendemmo sempre questi figli che non ci avevano badato, e molti dei quali ci fanno oggi lezione da destra.
Luigi non ne fu gran che turbato, più gli è pesata la seconda sconfitta politica, quella di noi «vecchi», l’incontro mancato fra quel che pensavamo andasse conservato dei comunisti italiani e le nuove forze ed idee. Quanto alla mancata eco elettorale, egli che era fra coloro che vi avevano puntato di più, per primo capì che non ce l’avremmo fatta: mentre festeggiavamo, qualche giorno prima delle elezioni, il primo compleanno del giornale, Luigi arrivò dicendo con l’abituale calma: Non è andata, non ce l’abbiamo fatta.
Sarebbero rimasti il giornale e un tentativo, fallito presto, di movimento partito.
Il giornale è il solo sopravvissuto. Il solo quotidiano nato dal 1968 che duri e sia interamente libero, libero financo da un editore. Esile ma rispettato. Ci conoscono in tutta Europa, ci conosce tutta l'Italia, che ci compra soltanto nelle emergenze, mentre una base fedele di lettori ci rende impossibile di vivere con agio e di morire di stenti, il manifesto di Pintor è un pezzo di storia italiana della seconda metà del secolo.
Non che al suo ideatore sia stato sempre fonte di soddisfazione e di gioia. Nel 1973 già scriveva una lettera disincantata e spiritosa, il giornale non era quello che avrebbe voluto e non per la malvagità del fato ma per i difetti della nostre inflessibili soggettività. Che il riflusso degli anni 70 e poi il crollo del comunismo, reale e non, avrebbe moltiplicato. Eravamo liberi di riflettere la realtà, e la riflettemmo anche nei suoi erramenti. Luigi ogni tanto ruggiva cercava di separarsi come altri fra i padri fondatori, ma poi tornava a darci una mano. Tornò sempre, e il giornale lo aspettava più o meno ammaccato, ma vivente grazie a Valentino Parlato, sul quale hanno riposato tutte le nostre collere, perché Valentino non molla mai.
Ma è tanto se abbiamo resistito, se viviamo ancora. Gli anni ‘90 hanno parlato alle viscere della società e alla parte più frivola della cultura. Luigi era stupefatto della stupidità con la quale il mondo consuma e uccide. Non cessò mai di denunciarla. Non accettò mai che fosse obbligatorio liquidare il movimento operaio e comunista e pensò tormentosamente che tutti ne portassimo qualche colpa, non fosse che per indifferenza Né accettò di liquidare quell’Urss cui fummo i primi a non dare più credito ma che rappresentava almeno il simbolo d’un altro mondo e sistema.
Ancora quest’anno, nel cinquantesimo della morte, Luigi provocatoriamente rifiutava di consegnare tutto il terribile Stalin alla semplice damnatio memoriae. Non era di coloro che riescono ad avere pace senza che la ragione glielo consenta Si è spento irriconciliato.
Ma questo siamo in pochi a capirlo. Con lui muore gran parte della mia generazione: aveva un anno meno di me sono più vicina a suo fratello che a suo figlio. Mancherà a noi, ai compagni, agli amici e a quel che resta di rispettabile fra i nemici, e non è molto.
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