ti scrivo ....e siccome sei lontano
più forte ti scriverò
"Un uomo diverso nel privato. Migliore"
Era una fredda mattina del gennaio di otto anni fa, a Mosca, quando scoprii davvero Luigi Pintor: un uomo diverso da quello che credevo di conoscere e che ammiravo. Migliore.
Stava suonando il piano, nella stanza dove era venuto alcuni giorni, con Isabella, per una breve vacanza. Pensava di esser solo in casa; e smise, irrevocabilmente, quando si rese conto che c’ero anch’io e lo stavo ascoltando. Più tardi andammo insieme fuori città, a visitare quello che era stato uno dei sancta sanctorum del socialismo reale, per decenni meta di pellegrinaggio obbligato per scolaresche, comitive di lavoratori meritevoli e delegazioni straniere: la villa dove Lenin trascorse i suoi ultimi giorni e mori. Un luogo che ormai, Eltsin regnante, non era più che una dimenticata curiosità per rari amatori.
Luigi si entusiasmò come non avevo mai visto, per la stranezza e l’irrealtà di quel luogo, bellissimo e innevato santuario di una religione scomparsa d’un colpo; e continuò poi per molto tempo a ricordare con noi quella visita.
Lo stesso entusiasmo che gli vidi anni dopo quando, ormai già nel nuovo millennio, adottò una cagnetta randagia e bastardissima capitatagli nel giardino della bella casa di Saturnia, dove amava tanto vivere.
Conoscevo già da una vita Luigi, al manifesto, ma solo nella sua veste «pubblica» di giornalista e politico - dunque maestro, per quelli come me. Non mi ero mai reso conto fino a quel mattino di gennaio di quanto in realtà fosse pudico e schivo quando si trattava del privato, dei sentimenti - e la musica per lui era la manifestazione di un sentimento privatissimo - né di quanto fosse ancora pronto, a settantanni e nonostante i disastri e i dolori riservatigli dal mondo, a conoscere e imparare. E meravigliarsi.
ASTRIT DAKLI
“Consapevole delle difficoltà, ma, nonostante tutto, non era un pessimista”
È con profonda tristezza che parlo di Luigi Pintor: la sua morte avvenuta così rapidamente mi fa pensare a un ennesimo accanimento della sorte, l’ultimo dopo quelli subiti recentemente. Ho conosciuto Pintor nel 1966, subito dopo l’undicesimo congresso del Pci che segnò la sconfitta della sinistra ingraiana. Fu mandato in Sardegna perché la sua formazione politica diventasse meno astratta attraverso un rapporto diretto con la base del partito e con la società isolana! Così gli venne dato l’incarico di occuparsi dei pastori e dei con-tadini sardi e di orientarsi tra le maglie intricate della rendita fondiaria e delle speculazioni delle grandi aziende casearie che falcidiavano i redditi dei pastori fissando in condizioni di monopolio il prezzo del latte.
In quegli anni ero segretario regionale della Fgci e ho avuto modo di avere con lui un rapporto di quotidianità: ci incontravamo nella sede del partito comunista, ma anche fuori dove non fu difficile sviluppare un rapporto di amicizia durato sino ad oggi e che risultò importantissimo per la mia formazione e per quella di tanti altri compagni.
Il compito che gli fu assegnato non era agevole. La struttura della proprietà fondiaria sarda e i rapporti di produzione non favorivano l’individuazione di una posizione antagonista univoca. Seppure talvolta a disagio a causa della complessità di questi problemi, Pintor affrontò il suo lavoro con un forte senso del dovere. Naturalmente, pur vivendo in Sardegna, i suoi interessi non si esaurirono sulle questioni relative alla vita dei pastori e dei contadini sardi o intorno ai temi dell’autonomia regionale e del piano di rinascita. Pur coinvolto nelle attività dell’isola, continuò ad occuparsi dei temi generali della politica e a manifestare le sue posizioni critiche nei confronti dell’organizzazione del partito.
Non aveva alcuna intenzione di creare frazioni, cosa che gli è stata spesso rimproverata dal gruppo di-rigente nazionale; tuttavia attorno alle sue posizioni si incontrarono diversi compagni; la prospettiva era quella di mantenere aperto anche in Sardegna un confronto serrato all’interno del partito comunista. Le cose purtroppo non andarono così: il gruppo dirigente del Pci valutò meno pericolosa, ai fini della sua unità, l’esclusione del manifesto dal partito e così ci fu la radiazione.
Il rapporto con Pintor era molto naturale e intenso: la sua immediatezza, il suo parlare senza veline, l’informarci sul dibattito esistente su scala nazionale furono tutte cose che non solo ci incuriosirono ma che ci coinvolsero nel lavoro politico di quegli anni. Avevamo così l’immagine di un partito non più vestito solo con gli abiti della domenica, ma nella sua dimensione più autentica. Tutto ciò, ripeto, esercitò un forte stimolo in noi. Non a caso il gruppo del manifesto in Sardegna crebbe moltissimo e, soprattutto a Cagliari, divenne molto numeroso. Ma l’incontro con Pintor è stato importante anche per un’altra ragione che spesso noi stessi sottovalutiamo: con lui veniva meno la separatezza tra il rapporto politico e quello per-sonale; la condivisione di relazioni nuove tra gli uomini significava non disgiungere i sentimenti dalle idee.
Ancora oggi mi capita di sentire da compagni sardi che alle grandi capacità giornalistiche di Pintor non corrispondevano capacità politiche di altrettanto valore. C’è in questa affermazione il convincimento che la politica debba all’occorrenza adattarsi alla realtà, anche con atteggiamenti subalterni, senza preoccuparsi di sconfinare nel trasformismo.
In realtà l’essere poco politico di Pintor corrisponde ad una coerenza forte in base alla quale ha sempre rifiutato la scelta di chi non potendo cambiare la realtà ha cambiato sé stesso. Credo che Pintor nel sostenere le sue idee fosse consapevole delle difficoltà di cambiare il mondo. Questa consapevolezza spesso induceva anche i suoi amici a considerarlo una persona pessimista. Non credo che lo fosse, forse nel suo modo di affrontare la vita c’era un po’ di sardità che talvolta viene assimilata al pessimismo.
Avvertiremo molto la sua mancanza e non credo che il ricordo potrà sostituirlo.
MARCO LIGAS
“E’ qui in ogni parola indignata e felice, priva di buon senso, solitaria e apocalittica, l’unica a vincere e a volare via senza mai arrendersi”
Potremmo dire che ci ha abbandonato se non fosse che Luigi ha «reinventato la vita», quella che nel suo ultimo editoriale ci affidava come compito, a noi, microcosmo senza confini, per ridisegnarla più bella, più giusta. Lo spirito di Luigi è lo spirito del manifesto, siamo noi, che per 32 anni abbiamo resistito alle seduzioni dell’abbandono perché non c’è mai stato niente di meglio che stare qui, con lui.
Luigi non era il pessimista cosmico che si diceva, era il poeta della violenza creatrice, la forza che mi ha spinto nella leggerezza di questa avventura a sfidare il mondo, per quanto fosse inconciliabile, estraneo.
Stare senza di lui è impossibile, ma io sono lui, e poi altri lo saranno. Non si perde Luigi. Non è perduto. E’ qui in ogni parola indignata e felice, priva di buon senso, solitaria e apocalittica, l’unica a vincere e a volare via senza mai arrendersi. Per farlo restare qui su questa terra, basta guardare con i suoi occhi come il nespolo, che ha deciso di crescere davanti alla sua finestra per rendergli omaggio, fiorisce in questi giorni di primavera.
MARIUCCIA CIOTTA
“La grammatica di un quotidiano è importante quanto le verità che pretendi di scriverci dentro”
La sintesi e la completezza. Il distacco e la passione. La diversità e l’appartenenza. La cattiveria e la lucidità. Soprattutto, la politica e il giornalismo. Come fare di un foglio di carta stampata - «domani sarà buono per incartare il pesce» - innanzitutto un buon giornale, e per questo un duro strumento di battaglia.
Tante cose ha insegnato Luigi a tre generazioni di Via Tornaceli! A me, quasi tutto quello che so fare. Ci ha insegnato a non accontentarci mai di quello che ci propinano, di quello che pensiamo di avere capito, di quello che ci rassegniamo a credere. E ci ha insegnato che la grammatica di un quotidiano è importante quanto le verità che pretendi di scriverci dentro. Aveva diritto, lui, a vedere nero nella vita, nella politica, nel presente e nel futuro della sinistra e della lotta per liberare gli oppressi. Aveva diritto, e troppo spesso la realtà gli ha dato ragione. Ma ci sarà stato un motivo, se non ha mai smesso di lanciare la sua scrittura contro l’ingiustizia. A noi, in Via To macelli o negli altri indirizzi della nostra vita, rimane il dovere di provare a sconfiggerla, questa ingiustizia.
Poi adorava scrivere breve, e allora basta così. Ciao Luigi, grazie.
STEFANO MENICHINI
“Servabo”
MANUELA CARTOSIO
“Reinventare la vita”
Se fosse misurabile l’energia del giudizio critico, Luigi Pintor dovrebbe essere considerato come una fonte, la fonte, inesauribile, rinnovabile, pulita. Era questo suo emanare idee la sua maggiore dote, la sua ricchezza e forse il suo fardello, diffondere agitazione critica, filtrare la normalità per trovare metalli preziosi, sottoporre la realtà alle istanze personali, misurare il potere, i potenti e insieme il non potere e i deboli. Capace poi di rimanere a guardare, distante, con la precisione di un nespolo, e in disparte sottolineare il grottesco dell’arroganza dei potenti, il tragicomico della violenza e della diseguaglianza. Capace di far ridere, perché delle guerre si può perfino ridere - come farebbero altrimenti gli oppressi e i dannati della terra?
Del resto, non era stato nel 1965 uno «scoop» del Secolo XIX a mettere proprio Luigi Pintor alla presunta guida dei volontari italiani pronti a combattere in Vietnam contro gli americani? Lui invece apriva, con i compagni che poi sarebbero stati il gruppo fondatore de il manifesto, a partire dalle viscere dei congressi del Pci, una battaglia politica senza risparmio perché quella storia imparasse a scoprire, una volta per tutte, il nuovo dei movimenti, sociali, italiani e internazionali, perché ancora una prospettiva comunista potesse consistere. Radiato - radiati tutti noi per avere individuato e denunciato sulla rivista la «solitudine di Praga» nel 1969, un anno dopo l’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia, cacciato sotto indicazione del Pcus di Breznev, ci ritrovò con una rivista straordinaria dentro le pieghe delle propaggini del ’68 e nell’esplodere dell’autunno caldo, il primo sommovimento operaio italiano. Il Vietnam combatteva e chiedeva trattative di pace, il Che Guevara era stato ucciso, ma il Terzo mondo - troppo condizionato dalle esperienze del socialismo reale che poi sarebbe crollato rovinosamente - mostrava di volere prendere in mano il proprio destino.
Furono ore, giorni, mesi, anni appassionati. Ricordo Luigi, con Aldo Natoli e tutti i compagni rimasti per poco parlamentari anche dopo la radiazione, boicottare con l’ostruzionismo alla camera il decretane economico dell’allora governo democristiano. Pintor intervenne per giorni sulla stona della musica, sulla non eccezionale musicalità di Bandiera rossa, raccontò spregiudicatamente dell’origine religiosa del canto - del multiforme Mozart.
Allora scoprii che era un eccezionale pianista, il manifesto era anche questa sorpresa generazionale, inspiegabile altrimenti: come era possibile che donne e uomini fatti, politicamente consumati, con grandi capacità professionali, di fronte ad un movimento del quale noi giovani eravamo protagonisti, ma con troppe inconsapevolezze, rimettessero in discussione tutta la loro vita per venirci accanto, starci vicini, imparare insieme quasi da zero. Già alla fine del 1970 Luigi chiese ai lettori della rivista e a tutti i compagni, a quello che era un movimento, il manifesto, non un partito, di prepararsi al salto del «quotidiano comunista» - il 28 aprile del 1971 avrebbero detto che eravamo finanziati dai padroni.
E giravano i primi numeri zero. Ricordo a Pomponazzi, un ex deposito della federazione comunista romana rimasto a noi, le assemblee per approvare l’elaborato. Un numero fu particolarmente importante: apriva con una notizia vera quella di un’industria farmaceutica che vendeva medicine contraffate Ma come - sbottò la riunione contro Luigi - ce la guerra in Vietnam, lo scontro politico in Cina e qui apriamo un giornale che si dice comunista con le medicine avariate'' Pintor puntigliosamente insisteva che quella era la notizia, quello era il fatto più politico di tutti perché sollecitava, qui e subito, il punto di vista politico proprio dei fruitori della pericolosa truffa, e che il nostro mestiere quotidiano di scrittura «per vedere se avremo fortuna, il manifesto il giorno dopo dovrà servire per incartare il pesce» ncordava senza scherzare - doveva essere proprio quello di portare in evidenza la «normalità» del potere.
Quant’era giovane, Luigi. Non si fermava, instillando amore in quello che faceva, amore per il manifesto che diventava amore generale nel quotidiano rischio della solitudine. Ma anche furore e rabbia di chi non si accontenta, di chi sente l’inadeguatezza degli strumenti. Come fu dopo la partecipazione fallimentare alle elezioni del 1972 con l’abbandono del giornale. Poi il ritorno faticoso.
Impossibile ora pensare che non starà nella sua stanza a scrivere, che la macchina da scrivere - sì, ancora macchina da scrivere - rimarrà zitta, che non verrà con quella faccia da meraviglia di ragazzino impunito che scopre il mondo come fosse per la prima volta, a farci leggere il suo manoscritto. Ci resta, e difficilmente qualcuno ce la toglierà, la sua parola essenziale ma di fuoco. Come nell’ultimo suo editoriale, ancora uno straordinario atto d’amore per noi, per i lettori, per questo paese devastato, quando chiedeva che una nuova umanità «senza confine» scendesse in campo, lo invadesse per reinventare la vita ormai «privata» dalle forme della merce, della guerra, del potere.
TOMMASO DI FRANCESCO
“Grazie”
Grazie di tutto Luigi. Grazie. Non riesco a scrivere altro. Grazie per essere esistito. Vicina a Isabella. Vicina a Valentino e Rossana, a tutta la redazione e i collaboratori del manifesto. Resterò vicina a Giaime anche per te, qui a Trieste, te lo prometto. Con tutta l’indicibile tristezza e con tanta gratitudine.
FRANCESCA LONGO
“Leggevo le sue parole come se avessero il peso delle pietre”
Quando lo incontravo nello stretto corridoio de il manifesto, proprio agli albori, commettevo l’errore di parlargli di letteratura. Mi guardava di sguincio. Aveva l’aria distratta di chi sembrava sopportare tutto il peso del mondo sulle sue gracili spalle. La pagina culturale che a me premeva non era proprio nei suoi pensieri.
Aveva il fisico minuto e scattante dell’intellettuale politico, una razza che già allora era in estinzione. Sono diventato nel tempo un lettore accanito di tutto quello che ha pubblicato. Mi piaceva la sua musichetta dissonante, aspra, vera. Quando morì Pasolini nel 1975 proprio non riuscii a condividere il suo giudizio sull’uomo. Più tardi però mi sono chiesto se non avesse avuto ragione lui a darne un ritratto da grande moralista.
Letto il suo ultimo articolo sulle ceneri della sinistra (i Ds, ma non solo) mi sono sentito male e ho telefonato ai miei pochi amici per commentarlo. Quel requiem caldo, sconvolto, ma anche lungimirante, come di chi la nostra cronaca politica la legge sub specie aetemitatis, mi è andato per le ossa. Finalmente parole chiare, definitive, riassuntive, di un uomo che nella sinistra ha sempre vissuto controvoglia. Il suo «io» non era mai pimpante, narcisistico, gridato, come tanti altri anche nel suo giornale. Era un io che bruciava.
Le sue parole le leggevo come avessero il peso delle pietre. Quello stile autentico, senza fronzoli, che andava diritto all’osso, mi aveva suggestionato fin dall’inizio . Era sempre oggettivo Pintor, sia pure ammantato di esperienza, sia pure in diretta con le cose vissute quotidianamente. Scriveva sì sull’oggi, sui mutamenti epocali che abbiamo attraversato dal secondo dopoguerra al nuovo millennio, ma le parole bucavano il tempo, proprio come si addice a uno scrittore.
«Servabo» era il libro di uno scrittore di una razza diversa. E se non aveva voglia di intrattenersi a parlare di letteratura, se a noi giovani recensori del suo giornale ci trattava come degli sciagurati era perchè della letteratura aveva un’idea diversa, alta, personale, ma legata a filo doppio con la memoria e la storia di tutto un popolo. Quando ho letto l’annuncio del suo ultimo libro sulla morte, mi sono ripromesso di andarlo a comperare, ma sono entrato in allerta. In quel libro ci avrei ritrovato le parole di un maestro sempre presente.
Ora la radio, in questo pomeriggio vuoto, mi comunica la sua morte. Ho subito pensato, dopo una stretta al cuore, alla perdita incalcolabile per il nostro giornale, per tutti noi. Era solo, schivo, Pintor, di un altro pianeta, per lasciare eredi.
RENZO PARIS
“Nel silenzio che ti somiglia”
“Se affondo nel silenzio, mi sento pieno; appena apro bocca, ecco il vuoto” scrive Lu Xun. Allo stesso modo, oggi, non c’è parola che non affondi in questo vuoto improvviso, che non sia travolta da questa morte impensata. Domani, forse. Tanto non te ne andrai, Luigi. Anche se non potrò più abbracciarti come talvolta facevo, vincendo la mia timidezza e la tua ritrosia. Oggi, nel silenzio che tanto ti rassomiglia, riunisco i ricordi. Vorrei che diventassero semi vivi, per sconfiggere la morte.
ANGELA PASCUCCI
“I suoi articoli migliori erano come colpi di ortica sul viso”
leri la telefonata con la notizia ormai purtroppo attesa, ma che non avrei voluto sentire: «E’ morto». Conobbi Luigi poco più di trent’anni fa, quando venni a lavorare in via Tomacelli. L’ho incontrato l’ultima volta che non è molto, alla camera.
Una vita. Una vita in cui l’ho sempre «tenuto d’occhio», anche quando mi è capitato di fare scelte professionali e politiche diverse. Una vita di forti comunanze e anche di allontanamenti: lavoro, politica, passioni, lutti, successi, delusioni, fatiche, gioie, dissensi, incomprensioni. Un’esperienza forte dal punto di vista umano, culturale e politico. Questo è stato il manifesto e in esso la figura del «fondatore» del giornale è sempre stata decisiva.
La dote maggiore di Luigi - lo di-ranno in molti - era la straordinaria capacità di scrittura, un’esplosiva forza di comunicazione: la si apprezzava nel racconto, nel commento, nel corsivo, nei titoli (i suoi capolavori), nei libri. Ma non voglio insistere su questo suo filone d’oro, perché è fin troppo evidente nella sua produzione e perché troppo spesso la sottolineatura dello scriver bene è stato un modo per mettere tra parentesi quel che voleva comunicare. Nel mondo politico e giornalistico la frase tipica è: «Pintor? Una penna eccezionale». Un complimento che nasconde una presa di distanza.
No, Luigi è stato importante soprattutto per quel che ha fatto e quel che ha detto.
Senza di lui questo giornale ormai storico non ci sarebbe stato. Con due lire, una banda di ragazzi volonterosi e (è un dovere ricordarlo anche oggi) alcune altre presenze coetanee di qualità, ha lanciato, tenuto in vita e praticamente sempre diretto una testata che ha, pare incredibile, più di trentadue anni. Un’impresa editoriale tuttora vitale proprio perché Luigi - e lo dico con un pizzico di riserva, avendo pensato talvolta diversamente - l’ha mantenuta «dalla parte del torto». L’ha fatto con una grande forza ideale e con gli strumenti del giornalismo: proponendo titoli, priorità tra gli argomenti, campagne, e scrivendo.
I suoi articoli migliori erano come colpi di ortica sul viso. Ne hanno fatto le spese alcuni protagonisti di questo trentennio. Terribili le sue invettive contro quella che vedeva come la fine della sinistra, e forse an-cor più urticanti le sue critiche a certi comportamenti diffusi nella società.
La raccolta dei suoi pezzi non rendono l’insieme del suo messaggio. A lui piaceva confezionare il giornale. La discussione serale sull’apertura della prima pagina era spesso un gran ripasso di politica e di giornalismo.
Dovremo tornare in altro modo e con altro spessore sulla figura di Luigi, riflettendo anche sul suo atteggiamento verso le innovazioni di questi decenni. Ma voglio concludere questo piccolo ricordo personale con una notazione sul suo stile di vita. Luigi sapeva indubbiamente scrivere, ma scriveva misurando la quantità e la lunghezza degli articoli; Luigi sapeva parlare, ma non amava comizi e discorsi; Luigi sapeva polemizzare, ma non ha mai voluto diventare un frequentatore della tv; Luigi era un gran conversatore, ma disdegnava i salotti e le ufficialità. Una lezione, anche da questo punto di vista.
MAURO PAISSAN
LUIGI PINTOR SOTTO LA GIACARANDA
Un ricordo di Luisa Cavaliere dei brevi soggiorni di Luigi in Cilento
Grazie Pintor. Un abbraccio gigantesco a tutto il collettivo.
Paolo Griseri
La sua firma sotto un titolo era sempre una promessa mantenuta Non la troveremo più, se ne è andata una persona straordinaria.
Vanna e Sergio Barenghi
Senza Luigi sarà più difficile ma con Luigi è stato un grande privilegio. Un abbraccio a tutti.
Eliana Bouchard
Ciao Luigi, riesco soltanto a dirti grazie per avermi insegnato a rispettare le parole (e a non mettere la virgola prima di un ma).
Francesco Malgaroli
Muore Luigi Pintor e ci sembra sia morto un nonno saggio, coerente ma inascoltato. Auguriamoci tanta fortuna con le alleanze Confindustria, Ascom e Ulivo che vogliono seppellire quanto anche Pintor conquistò. Non dimentichiamo che fu vittima di quegli aguzzini fascisti della banda Koch.
Fabio e Cristina
Luigi Pintor mi metteva soggezione. Tanto lo rispettavo che non riuscivo a sostenere il suo sguardo, anche se poi erano sempre i suoi arti¬coli che leggevo per primi. Se sono come sono, nel bene e nel male, lo devo a compagni come lui. Ora siamo tutti più soli.
Mario Boccia
Pintor, quanto ti ho dovuto leggere prima di imparare a scrivere. E ora ci lasci soli e senza nessuna speranza Non si fa così... Permettimelo, allora questa volta ti sgrido io. Ma con dolore.
Michele Ciavarella
Carissimi tutti, quando cominciai a collaborare con il quotidiano comunista, a Milano, mi inse¬gnarono una frase storica attribuita a Pintor. «Ricordatevi che il giorno dopo il giornale è buono per incartare il pesce. Non ho mai sapu¬to se Luigi l’ha mai detta o se è leggenda Serve, però, come insegnamento. Non so come fare¬mo a non trovare più la sua firma vicino alla foto. M mancherà, mi mancate. Un abbraccio.
Donatella Francesconi
«Non puoi stare vicino a chi muore perché è assente e non puoi stargli lontano perché è presente». Lo ha scritto Luigi Pintor, sempre capace di dire e far capire, senza un aggettivo di più o uno di meno. Ci mancherà ma continuerà a essere presente
Laura Incartona
Esprimiamo il nostro dolore per la scomparsa del compagno Luigi Pintor. Ci mancheranno il dono quotidiano della sua lucidissima spietata intelligenza e la testimonianza di un impegno instancabile, nonostante l’amarezza delle delu¬sioni.
Anna Puglisi e Umberto Santino Centro Impastato di Palermo
Ciao, maestro esigente e generoso.
Guido Moltedo
Luigi Pintor ci ha lasciati. E’ proprio il segno dei tempi (se i tempi hanno un segno). Condoglianze a tutta la redazione del manifesto
Andrea & Sandra
Caro Luigi, perdo un maestro e un amico carissimo. Sono vicino a Isabella ai suoi cari e a voi tutti.
Carmine Fotia
Un saluto e tutti i imiei pensieri per un compagno che lascia un vuoto incolmabile. Ho solo 27 anni e tante volte ho trovato in lui un riferimento per continuare a pensare che un mondo diverso è possibile e necessario. Non ti ho mai incontrato ma mi permetto di salutarti così: ciao Luigi
Fabio, Bari
M hai regalato la passione delle idee, l’amore per il giornalismo, la forza del dubbio. Che ora almeno il riposo ti sia lieve. Ciao, Luigi.
Carlo Bonini
Cari amici e cari colleghi, vengo a sapere ora, dalle agenzie, della scomparsa di Luigi Pintor che tanto ha dato a voi e a noi tutti. Vi sono vicina in questo triste momento e vi prego di trasmettere le mie più vive condoglianze alla sua famiglia tutta. Ci vedremo presto per salu¬tarlo l’ultima volta e so che è quanto vorranno fare anche altri colleghi, del sindacato e non. Un abbraccio.
Tiziana Boari
Carissimo Luigi Pintor, ci mancheranno sempre le tue parole lucide e furibonde contro la guerra e contro il potere
Nella Ginatempo e Melo Franchina
Quel 25 aprile il nostro 25 aprile, Luigi veniva letteralmente tirato fuori dal corteo per essere salutato e baciato dai compagni. Poi zuppo e silenzioso nel sottoscala della redazione milanese de il manifesto l’abbiamo visto battere a macchina un pezzo che ha fatto bello anche il giorno dopo 26 aprile Ai compagni del giornale che per anni hanno visto quotidianamente questo miracolo che ha permesso a tutti noi di essere certi che riusciremo a dare sostanza un giorno a ciò che speriamo, unendoci al loro pianto e dolore un forte abbraccio.
Rossella Marchini e Antonello Sotgia, Roma
Ci mancherà per sempre. Mio marito stava comprando l’ultimo libro al Salone del libro di Torino negli attimi in cui d ha lasciato. Ha comprato anche Politicamente scorretto pensando tra sè e sè «M mancava rimediamo...». Non sapevamo della malattia. Ricordo quando in un articolo ti spiegava che mentre Fini aveva una provenienza di destra, Berlusconi era strutturalmente così. Aveva ragione e come. Un grande abbracdo a tutti coloro che gli hanno voluto bene.
Sheila e Sherren Hobson
Sono addoloratissima per la morte di Luigi Pintor. Lui non lo sapeva ma io gli volevo bene Erano diverse settimane che pensavo di scrivergli. I suoi ultimi scritti mi avevano fatto nascere questo desiderio. Ma mi sono ridotta troppo tardi. Non posso venire al funerale, mi sposto con difficoltà a causa di una stupida carrozzina che mi impedisce un sacco di cose. Salutatelo anche per me, ditegli che mi mancherà tanto! Ciao,
Mariangela Romano, Rimini
Sarà molto duro tirare avanti senza Luigi Pin¬tor ma dovete-dobbiamo trovare il modo di riusdrd: che cosa d direbbe lui se soltanto per un momento temeste-temessimo di non farce¬la? Un abbracdo.
Giorgio Pecorini
Mi dispiace è dir poco. M mancherà, questo è certo. I suoi interventi su il numifesto hanno fatto chiarezza nella mia testa confusa dal bombardamento di dedne di media allineati. Provo dolore per la scomparsa di così rara intelligenza Dovevo dirvelo. Ps: spero che pubblichiate un’altra raccolta dd suoi interventi.
Angelo Meli, Palermo
Un caro saluto a Luigi, anche noi gli abbiamo sempre voluto bene Un grande uomo, non si dimenticherà mai. Condoglianze
Gian Franco Onnis
Ho saputo della morte di un grande compagno. Luigi Pintor ha aiutato e motivato tre quarti della mia vita da quando l’ho conosciuto, all’inizio de il manifesto, all’ultimo articolo apparso sul quotidiano e che ho incornidato dentro di me a futura memoria Con il cuore in tumulto e le lacrime che mi sgorgano mentre mi dico che anche la morte è un evento naturale e che la sua grande storia non può che rigermogliare e propagarsi, sento troppo forte che mi mancherà, soprattutto quando la mattina ricomprando il manifesto aspetterò invano il suo articolo di fondo. Un grande abbracdo a tutti voi
Ettore Croccila
Da lettore de il manifesta quale sono da anni, invio le mie più sentite condoglianze alla redazione e ai familiari di Luigi Pintor. Non sono mai stato comunista lo premetto. E tuttavia apprezzo la libertà di opinione e la tensione morale che si legge quotidianamente in molte delle vostre pagine Questa tensione morale si mescolava a una ironia suprema negli editoriali di Pintor, che erano spesso per me nelle mattine di ogni giorno un soffio di aria e di coraggio. Muore oggi un grande intellettuale, e io lo saluto con cordoglio e con rimpianto.
Corrado Roversi
Apprendo ora la triste notizia della morte di Luigi Pintor e per prima cosa mi viene alla mente il suo libro Servabo, ovvero «..terrò in serbo, servirò, sarò utile». Credo che il miglior ricordo sia proprio tenere in serbo la grande le zione politica e umana di questo uomo, che d è stato davvero utile a capire i tempi in cui vivia¬mo e le cui parole ancora serviranno per com¬prendere i futuri difficili scenari. Ciao Luigi. Forza e coraggio a tutti voi che avete condiviso la sua passione e la sua luddità.
Paolo Tosi, Bologna
Care compagne e cari compagni, ho appreso ora la notizia della morte di Pintor. E’ una perdita incolmabile senza retorica Una persona che sapeva scrivere in un modo meraviglioso quelle cose che sentivamo tutti. Quelle cose che sentono tutti. Era un modo di scrivere che, si direbbe in gergo tevisivo, bucava il video. Da Servabo a E nespolo, con tutti i suoi scritti su il manifesto, mi ha offerto, dato, tantissimo. «Pochi resistono alla tentazione di voltarsi indietro nel desiderio di restituire alle cose una durata che di per sé non hanno» (Luigi Pintor, Servabo, aprile 1991). Fraterni saluti.
Alberto Diaspro
Volevo semplicemente esprimere sincero dolore per la scomparsa di Luigi Pintor, da tanti anni per me vero e proprio riferimento politico, oltre che persona dotata di grande acume e di una splendida ironia che mi mancherà dawero.
Marco Franchini, Milano
"Un buon amico. E’ così che oggi vogliamo pensarti”
Davvero è difficile dire, scegliere fra le parole e trovare un modo per essere ancora con te. Ma mentre i pensieri scivolano e si mescolano vorremmo cercare di farlo. In queste ultime mattine non è stato facile svegliarsi. E alzarsi. Aspettavamo sempre tue notizie. E per questo facevamo tutto lentamente (anche la doccia, per te essenziale per entrare nel mondo ogni giorno). Era, forse, un modo per rallentare ogni cosa, per fare in modo che non arrivasse, per togliere al tempo il suo potere di agire. Poi, però, alla fine sei andato via.
E ripensarti diventa naturale, quasi istintivo. Perché è, purtroppo, l’unica cosa da fare. Ricordarti. E ricordare i tuoi gesti. Per noi, più di tutto, c’è un luogo in campagna dove ci invitavi con Isabella. Un bel modo per stare insieme. Senza fretta. Un po’ più a lungo che al giornale. Un rifugio con l’acqua da dividere con voi. E con gli alberi e un piccolo cane. Una casa luminosa e accogliente, con il pianoforte che a volte, di sera, suonavi, intestardito su Bach e le Variazioni Goldberg che mai - dicevamo - avresti potuto eseguire come Glenn Gould (nientemeno). Ma lo ascoltavi e ci provavi, attento alla sua velocità impossibile da imitare.
Qualche giorno fa ci hai parlato della morte Ti ascoltavamo in tre (uno eri tu), intorno al letto, silenziosi e come impietriti, tentennanti sul che dire e che fare. Tu, alla fine, correggevi parole, trasformando il continuum in un unicum, ancora alla ricerca di un senso in ciò che stavi diventando. E di questo, adesso, vogliamo ringraziarti. Del tuo modo di dare (che sbagliando non volevi vedere) e comunicare. Del tuo modo di esserci e insegnare. E, persino, del tuo modo di sdrammatizzare. Un buon amico. Forse è questo, più di tutto, che eri per noi. E così, oggi, vogliamo pensarti.
GIOVANNA BOURSIER E GABRIELE POLO
“….Notte sempre in viaggio”
Questa notte così/umana/naviga l’orizzonte/sulla tua fronte/distende/ non un lamento/ma un fiume lento/ di silenziosi sbocchi./ Notte sempre in viaggio,/alla luce/dei tuoi occhi
MATTEO MODER
"Siamo un miracolo - diceva - e chi ci vuole è giusto che ci aiuti"
Di una persona che muore, quel che resta più a lungo è quanto ci ha insegnato. Luigi Pintor non ha mai saputo cos’è il disincanto, da lui abbiamo imparato a starne lontani. Si teneva attaccato ai fatti della vita esortandoci a non confondere i desideri con la realtà, anche questo ha insegnato alle nostre esuberanze. E se della realtà rendeva conto riferendosi a fatti e persone con una data e un nome riconoscibili, è perché questo era il compito al quale si sentiva di dovere corrispondere; ma i suoi pensieri restavano ancorati a chi quei fatti e quelle date le subiva. E ci chiedeva di renderne conto.
A chi ha un senso fragile della propria identità, e mal riposti pudori, ha trasmesso l’orgoglio di sentirsi parte di un lusso, il lusso di contribuire a un piccolo giornale, resistente a tutte le correnti che promettevano di inghiottirlo. «Siamo un miracolo - diceva - e chi ci vuole è giusto che ci aiuti»: lo diceva quando le nostre economie rischiavano di cancellarci e c’era, tra noi, chi si vergognava di fare appello al contributo dei lettori. E’ stata sua l’idea di vendere il giornale, un giorno di sei anni fa, a cinquantamila lire; perciò lo abbiamo preparato con entusiasmo e con entusiasmo è stato comprato dal doppio delle persone che normalmente ci seguono. In quella occasione, come in tante altre, è stata la sua dignità a darci il coraggio di esporci, di sfondare il luogo comune per potere garantire che ci fosse ancora, per noi e per chi ci attribuiva significati da rivendicare, un luogo che ci accomunasse.
Per andare oltre i propri mezzi, oltre le proprie forze, al di là del buon senso condiviso, è necessario alimentarsi a un motore di energie, consapevolezza e rigore morale abbastanza forte da impartire al vortice depressivo un moto contrario, così che si converta in effervescenza ascensionale. Altro che pessimismo: Luigi Pintor aveva di che essere realista, e da questo realismo ci ha insegnato a spostare, più volte, i confini del possibile.
Di fronte al pubblico della libreria palermitana dove presentò “La signora Kirchgessner” , il suo secondo libro letterario, disse che più di tutto gli era piaciuto l’averlo sentito definire un libro «augurale». Si prestava, è vero, a essere letto, come il precedente Servabo, in forma di un concentrato di negatività e provocazione. «Ma chi non ha la percezione sincera della somma di orrori e fallimenti accumulati intorno a noi, o non vede o si imbroglia» - diceva. E poi, guardandoci reagire, sorrideva.
FRANCESCA BORRELLI
"So dire solo una cosa chiara: grazie, Luigi"
Per Luigi Pintor e di Luigi Pintor parlano i suoi scritti, le migliaia di migliaia di parole che ha distillato in anni e anni di giornale e le essenziali e meno numerose parole che ha lasciato nei suoi libri. Pure qualche parola qui voglio lasciare come gli altri, come un fiore sul suo tavolo nella stanza qui di fronte. Qualche parola per condividere non solo l’assenza e il dolore - che tra tanti in queste ore sarà sparso - ma gli anni della presenza. Ho avuto il privilegio di fare il giornale con Luigi negli ultimi quattordici anni. Dare le notizie, parlare, guardare le fotografie, leggere gli eventi, fare i titoli, discutere i commenti, correggere (o non vedere) i refusi, contare i capoversi. Discutere, litigare. A volte anche non capirsi, voler sfuggire al peso di tanta autorevolezza. Anni di storia comune, della piccola comunità del manifesto ma anche di storia, storia e basta. Storia vissuta e come costretta nel ritmo del quotidiano, nel ritmo quotidiano. Che ti costringe ogni giorno comunque a «uscire», a dire una cosa chiara, a comunicare qualcosa (sennò, perché fare un giornale politico?). Ecco, dobbiamo «uscire» anche oggi. E io so dire solo una cosa chiara: grazie, Luigi.
ROBERTA CARLINI
"Le parole ... soffi nel vento"
Ciao Luigi, a te non piaceva si scrivesse troppo, dicevi che le parole sono solo soffi nel vento: tanto presuntuose quanto ingannevoli. Posso immaginare quindi la tua istintiva diffidenza verso tutte queste nostre colonne stampate. Oggi però ti chiedo un po’ d’indulgenza, lasciaci scrivere e pazienza se affioreranno qua e là retoriche e ridondanze. Ricordarti è per noi una piccola consolazione, di fronte a questa tua morte che ci fa tremare le mani.
Per «morire di maggio» bisogna es-sere molto coraggiosi, diceva Fabrizio De Andrè. La primavera è un tempo di promesse, e spinge a proseguire cammini e riflessioni, chissà mai le speranze prendano forma e le aspirazioni si realizzino. E questa volta andremo avanti senza di te, un po’ ammaccati, un po’ sperduti, ma andremo avanti: mi piace pensare che ne saresti contento. Del resto, hai passato la vita a trasmetterci sapienza e fiducia, a insegnarci come si possa far politica in un mondo senza politica; e dunque è del tutto naturale che per noi continuare a batterci sia la cosa giusta. Una volta, tanti anni fa, ci hai accusato di ammutinamento: tanto che qualche tempo dopo ti abbiamo rinominato comandante. Ora agli ammutinati non resta che cavarsela da soli, in un mare che continua a essere tempestoso.
Certo, lungo questa navigazione non avremo più i tuoi sorrisi, il tuo sguardo. Non avremo più la tua ironia, quell’ironia che a volte riusciva a trasformare in un’irriverente risata collettiva quelle riunioni serie in cui bisogna stare attenti e non perdere neanche una battuta. E queste cose, queste e tante altre che ci hai regalato, non potranno rivivere, le abbiamo perdute per sempre. Non resterà che accarezzarle nei nostri ricordi.
SANDRO MEDICI
Da amante della musica qual era, il rapporto di Pintor con la politica degli ultimi anni mi ha spesso ricordato quello di Rossini con le scene: «Non tutto quel che è nuovo è bello, non tutto quel che è bello è nuovo», diceva dal suo ritiro parigino il maestro pesarese che non volle mai risalire sul treno dopo aver provato.
Ma quell’intransigenza testarda è forse in gran parte la nostra ragion d’essere tutti qui, ciascuno a suo modo. E quel che ne faceva Luigi con la sua Lettera 25 era una nitida e passionale trascrizione musicale: dal suono «dolce e malinconico», talvolta stridente, come quello dell’armonica di vetro - uno strumento, fatto anche di bicchieri, in voga tra il Settecento e il primo Ottocento - di cui una volta andava cercando l’illustrazione per un suo libro.
Tra i musicolgi c’è chi fa una distinzione tra la musica geometrica e quella matematica: quella che scuote in primo luogo i sentimenti e quella che sollecita le architetture del pensiero; il cuore e la mente; Mozart e Bach, per intendersi. Non so chi preferisse Luigi: in quel che ha scritto e in come lo ha scritto, in questo caso io non mi sento in grado di distinguere.
COSIMO ROSSI
"Lottare, sempre e comunque, per un mondo migliore". La morte di Luigi mi addolora nel profondo del cuore. L’avevo conosciuto quasi 50 anni fa, era subito divenuto per me - ricordo i giorni difficili del 20mo congresso dei comunisti sovietici - non solo un amico carissimo, ma un esempio di rigore, di lucidità intellettuale e morale, soprattutto della volontà di non rinunciare mai, anche nelle situazioni più ardue, alla convinzione che, comunque, era possibile e doveroso lottare per un mondo migliore.
Lo sosteneva l’indignazione, profonda, contro l’oppressione e l’ingiustizia. Qui era la radice del suo essere un comunista. La vita politica ci ha, nelle varie circostanze, allontanato e riunito. Ma il legame che si era stabilito allora è sempre rimasto fortissimo. Tanto più mi sono sentito vicino a lui nella tragicità delle prove che la morte gli ha riservato. Lo ricorderò sempre non solo come un amico e un compagno di lotta politica, ma come uno dei più grandi scrittori - soprattutto nei suoi libri, lucidi, asciutti, rigorosi - della fine del Novecento italiano.
BEPPE CHIARANTE
"Volare alto e restare con i piedi a terra". Non è un paradosso, anche se i paradossi esistono, pensa al volo del calabrone. E’ una delle tante cose che ho imparato da Luigi. Volare alto vuol dire che ci sono convinzioni, valori così importanti che non tollerano mediazione o compromesso, non c’è ragionevolezza che tenga. Non si possono tagliare le ali ai sogni perché i sogni se ne fottono della legge di gravità. Fare un giornale con queste follie in testa è complicato perché costringe a scegliere le poche cose su cui non si discute, se non vuoi fare un giornale stupido e settario. Ma ancor più difficile è fare un giornale con le sue intransigenze e al tempo stesso con la convinzione che quattro paginette quotidiane - quando eravamo capaci di farne solo quattro - durano un giorno e poi si buttano. Possono servire al massimo a incartare il pesce. Anzi, mi è sempre rimasta in testa come un chiodo fisso una frase di Luigi: quando il manifesto servirà per incartare il pesce potremo dire di aver fatto una cosa utile.
Nel ’91, lavorando a una serie di fascicoli pensati per riflettere sui nostri primi vent’anni di vita, per illustrare la copertina dell’ultimo fascicolo chiesi alla nostra compagna fotografa Gabriella Mercadini di andare a Campo dei fiori, comprare un chilo di acciughe, incartarle con una prima pagina del giornale e poi fare quel che sa fare lei. Quando Luigi vide quella copertina mi guardò con un sorrisetto ironico, come a dirmi «imbroglione». Era un bel sorriso il suo.
Volare alto e restare con i piedi a terra non serve solo a fare un giornale come il nostro. E’ un modo di vivere la vita. Senza Luigi saranno più difficili l’una cosa e l’altra.
LORIS CAMPETTI
"La mattina era il primo che andavo a cercare per leggerlo". Non solo perché era il migliore, in assoluto, degli editorialisti e dei commentatori italiani. Non solo perché i suoi articoli, sempre così essenziali, fornivano le «spiegazioni» più giuste.
Sapeva dire con poche parole tutto ciò che era necessario per capire, e molto di più per provare sentimenti di sdegno e di battaglia. Anche quando, essendo realista e malinconico, non vedeva troppe ragioni di speranza. Leggendolo sentivi, nelle parole, nelle virgole, la tensione morale che non lo ha mai abbandonato, e che trasmetteva con generosità mai domata. Abbiamo perduto un maestro di giornalismo e di vita.
GIULIETTOCHIESA
Un totem, per noi più giovani. Tanto bravo da non diventare mai tabù.
IAIA VANTAGGIATO
«La sinistra italiana che conosciamo è morta». Sono le prime parole dell’ultimo editoriale di Luigi, pubblicato dal manifesto il 24 aprile. Quando qualcuno muore, se ne dice tutto il bene possibile. E’ naturale. Se si tratta di uno di noi, è prima di tutto per se stessi che lo si fa. E io, che ho lavorato con lui per un paio di decenni e oltre, ho questa necessità.
Luigi scolpiva una prosa asciutta come le rocce della Sardegna. Luigi aveva l’istinto, prima ancora dell’intelligenza, di colpire là dove i sentimenti della gente di sinistra si aggrovigliavano. Luigi produceva calembour sorprendenti, sintesi che erano come il flash di una macchina fotografica, perciò era un titolista insuperabile. Luigi non concedeva nulla alla complicità, ma sapeva quand’era il momento della solidarietà, e concedeva allora goffe pacche sulle spalle. Luigi era assente, in apparenza, ma i suoi occhi seguivano tutto, e coglieva, come un saltatore con l’asta, il momento in cui una discussione, una riunione di redazione, un complicato slalom politico, avrebbe potuto prendere la piega che doveva prendere.
Luigi rivendicava il sangue di Stalingrado con cui è scritta la democrazia europea, ma annotava le amnesie perché fosse possibile fare un passo oltre. Quante sono le virtù, le abilità, di cui dovremo fare a meno, adesso? Sono queste, e molte, molte altre. Ma Luigi era anche un egocentrico, un uomo chiuso e ostico, i suoi mutismi erano angosciosi, la sua impazienza talvolta intollerabile, la sua incapacità di scegliere quando, come e se insegnare qualcosa a qualcuno esasperante, il suo fastidio per le relazioni e le frequentazioni confinava con l’autismo. Così appariva, spesso. Ma standogli di fronte giorno dopo giorno, in anni e anni, si intuiva infine che Luigi conviveva con il dolore, che, a volerlo tenere a bada, costringe a una vita cauta, nel rapporto con gli altri. Conviveva con i suoi lutti, che erano iniziati quando suo fratello, Giaime, saltò su una mina in un certo giorno della guerra partigiana, e che si allungarono all’infinito, in seguito. E si intravvedeva infine, con molta fatica tra le cortine delle sue assenze, che il dolore aveva reso umana la sua convinzione, e storia, di comunista. Luigi contraddiceva, per quel che era, la ricerca storica sul militante separato da sé, annullato nel collettivo, spietato nel cercare il bene.
Luigi coltivava quel sentimento, quella condizione dell’esistenza anzi, che ha citato in quell’ultimo articolo: l’estraneità. Luigi era estraneo al potere e ai suoi riti, alla sua banalità e al suo bisogno di divorare la vita. Perciò è stato così amato da ogni persona di sinistra, o semplicemente sollecita verso l’umanità altrui, o ancora in grado di stupirsi, di meravigliarsi e di indignarsi di fronte a ciò che dovrebbe sembrare ovvio, una guerra o un muratore caduto dal ponteggio.Quando nel 2001, per il trentesimo del manifesto, andai a intervistarlo per Carta, due anni dopo che avevo lasciato il giornale senza che lui mi rimproverasse, gli chiesi alla fine per che genere di lettore scrivesse, quando si metteva alla sua macchina ticchettante, per ore, chiuso nella sua stanza, e lui rispose: «Ho in mente le persone. Chiunque abbia avuto diciotto anni». Se essere di sinistra è ricordarsi di avere avuto diciotto anni, sabato 17 maggio, verso metà giornata, la sinistra che conosciamo è morta. Ma qualcos’altro conosceremo, che magari non si chiamerà sinistra, se avremo il coraggio di affrontare il dolore di essere estranei. Questo ha scritto Luigi quell’ultima volta, alla vigilia del 25 aprile. E’ una necessità, e una speranza, quel che ci lascia.
PIERLUIGI SULLO
"Un calabrone" Da oltre tre anni non sono più al manifesto, ma in un certo senso, e per molte ragioni, non me ne sono mai andata. Per esempio, quando mi succede di dover spiegare perché faccio il giornale che ora faccio, non trovo altre parole, se non quelle che per anni Luigi ci ha detto, per spiegarci tutto il bene e tutto il male del giornale che facevamo: che il manifesto è come un calabrone, una specie di scherzo di natura che non potrebbe volare perché ha il corpo grande e le ali troppo piccole. E invece vola. Sono sempre stata orgogliosa di essere un calabrone, ma oggi non ho più le mie ali e non so se riuscirò ancora a volare.
ANNA PIZZO
"Insieme a Luigi se ne vanno le belle sere dei vent’anni". Ore e ore a discutere con lui, godendo dell’arma segreta della sua ironia opposta ai ragionamenti quadrati di chi, negli anni ‘70, in fondo pensava che fare un giornale era quasi un lusso, come togliere tempo alla rivoluzione.
La rivoluzione non l’abbiamo fatta, ma il manifesto è ancora qui, a dimostrare che Luigi aveva la vista lunga. Il conformismo, il luogo comune, l’opportunismo nella vita, i suoi editoriali (più spesso corsivi) con quel suo modo di parlare tutti i giorni come in politica, erano i suoi bersagli preferiti, dentro e fuori la grande famiglia comunista.
Luigi scriveva, ma prima, nelle riunioni di redazione del quinto piano di via Tomacelli, presentava i suoi editoriali con quel suo modo di parlare che già alludeva alla scrittura tagliente e cristallina, semplice e inequivocabile. Solitario nelle sue battaglie, Luigi non ci ha mai spiegato come si dovesse fare il giornale, bastava ascoltarlo, leggerlo, per capire quanto valesse la pena rompersi la testa sulle maledette venti righe di una notizia secca, sulle avare battute di un titolo. Così diventare pintoriani, per noi ragazzi con la testa piena di progetti, era un felice destino, innamorati di quell’aristocratico intellettuale che riusciva ad essere grande comunicatore di emozioni. E forte di quelle, il giornale è riuscito ogni volta a ricaricare le pile, a farsi vanto di essere sempre dalla parte del torto, minoranza ma non minoritario.
Luigi è stato l’anima del manifesto, che aveva voluto, creato, difeso sempre. Essere pintoriani è un vizio mentale difficile da estirpare, perciò in questo momento provo smarrimento e dolore. Ciao Luigi, grazie di queste venti righe.
NORMA RANGERI
"Costringeva a pensare ... a dare il meglio". Luigi Pintor passava per un uomo senza pazienza. Invece ha sopportato per tanti anni, lui che aveva idee chiare e precise - quelle che poi metteva negli editoriali sul manifesto - le nostre esitazioni e il nostro dividere i capelli in quattro.
A riguardare indietro, invece come direttore era molto tollerante, forse troppo. Ci chiedeva: ma non si potrebbe attaccare il governo sul sistema fiscale, indicare pochi punti chiari, spiegarli bene, defininendo, una volta per tutte, l’aspetto insieme classista e torbido delle tasse in Italia? Lo sapete anche voi che è la questione decisiva... E sempre rispondevamo che non si poteva farla troppo facile, che era una questione complessa, da studiare con attenzione...
Lo stesso avveniva frequentemente su altri argomenti, su altri contenuti, dell’economia e della politica, della società e della vita. Era difficile Pintor. Costringeva a pensare, a dare il meglio, un lavoro faticoso, che non riusciva quasi mai. Così a Pintor toccava di vedere un giornale diverso da quello bellisssimo, rapido, combattivo che sarebbe potuto essere, quello che lui inventava ogni giorno, con idee fulminanti, con moralità acutissime. Il giorno dopo, però da quell’uomo paziente che era, tornava in redazione, diceva la sua, si appassionava ai problemi, consigliava e proponeva, suggeriva, con ironico pessimismo, sulla capacità nostra di dargli retta.
GUGLIELMO RAGOZZINO
"Sei riuscito ad attraversare incorrotto le avversità personali e le sconfitte politiche". Caro Luigi, non sono certa di riuscire a dirti tutto quello che, adesso, vorrei dirti: perdonami le lacrime, le parole ridondanti, la sofferenza non repressa.
Ho avuto lo straordinario privilegio di lavorare con te, giorno per giorno, fianco a fianco, per tanti anni e di costruire con te un rapporto vero, umano, politico, affettivo, intellettuale: un incontro e un’esperienza che hanno segnato in profondità la mia idea della vita, della politica, del giornalismo. Non sei stato solo un maestro, che consapevolmente del resto non volevi essere, ma molto di più: una Persona di riferimento. Un uomo al quale si continua a pensare per sempre, anche quando non lo si incontra, anche quando fisicamente è lontano.
Un uomo che è stato capace di vivere fino in fondo, nonostante i troppi dolori che il destino gli ha scaricato addosso. Un uomo così intelligente da riuscire ad attraversare incorrotto le avversità personali e le sconfitte politiche. Ora voglio solo ringraziarti di tutto quello che mi hai dato, che mi hai insegnato, che mi hai detto, in tanti momenti di complicità e di amicizia. Dovunque tu sia, Luigi, in questo momento, pensa a me e a noi con indulgenza.
RINA GAGLIARDI
Grandi Strade di Silenzio portavano lontano/Ad Adiacenze di Pausa/Non v’era Annunzio né Dissenso/ Non Universo né Legge/ Secondo l’Orologio, era Mattino, e la Notte/ Invocavano da Lungi le Campane / Ma il tempo non aveva fondamento qui/ Era svanita la Durata. (Emily Dickinson).
A Luigi, un abbraccio forte, ti vogliamo molto bene.
LE COMPAGNE DELLA SEGRETERIA E DEI DIMAFONI
"In tanti abbiamo ricordi di vita legati a Luigi. Ricordi forti, dolorosi, emozionanti, divertenti. Mai comunque mediocri".
Prendo dalla memoria: 28 aprile 1971, diffusione straordinaria del primo numero del manifesto davanti all’università di Roma: 3600 copie vendute a 50 lire a copia. Un successo incredibile. Confermato dalle oltre centomila copie vendute in tutta Italia. Luigi si entusiasmò ma, come era nel suo carattere, non più di tanto: «Non facciamoci illusioni, è solo il primo giorno».
Aveva, naturalmente, ragione. Un altro ricordo è legato alla professione giornalistica, a quel suo stile asciutto, concreto, rigoroso e tuttavia di grande impatto. Poche righe di commento, scritte con la testa e con il cuore, che sapevano colpire sempre. Quale era il suo segreto?
Uno me lo raccontò nel ‘76, ai primi tempi del mio lavoro giornalistico. «Scrivo il corsivo, poi leggo e correggo, leggo e correggo. Dopo sei volte, di solito, ho finito». Ma se questo è metodo, quel modo di scrivere era suo e soltanto suo. Perciò Luigi è stato anche un maestro di giornalismo.
Ecco, proprio perché ha dato molto al giornalismo italiano (e ai tanti lettori che l’hanno amato), vorrei proporre al manifesto di promuovere un premio giornalistico in suo nome, che si ispiri al suo stile, alla sua indipendenza di giudizio, alla sua autonomia, alla sua libertà di pensiero. A Luigi, schivo com’era, forse questa idea non piacerebbe. Ma Luigi è una persona che merita di essere ricordata, non solo in queste ore di tristezza.
GUGLIELMO PEPE
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