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18 maggio 2003


Luigi, un grande polemista, 

comunista e disilluso

 

di Oreste Pivetta

 

 

Èmorto ieri a Roma Luigi Pintor,

giorna­lista, scrittore, voce storica della sinistra,

dissidente nel Pci di fine anni sessanta e

fondatore de «il manifesto». Aveva 78 anni

 

 

Leggendo della morte di Luigi Pin­tor, accanto alla commozione per la scomparsa di uno di noi, di uno che ha lavorato all’Unità quasi vent’anni (fino al 1965), verrebbe la curiosità di sapere come ne avrebbe scritto lui. Non in un libro, perché nei suoi libri, brevi rapidi, densi, la morte compare sempre, ma con il gusto di sviare attraverso «terze persone» la sensazione di un’autobiogra­fia, nell'ultimo in particolare, appena pub­blicato, un testamento, un addio, un'estre­ma riflessione rivolta a se stesso oltre che ai suoi lettori e/o amici, dopo che «il me­dico curante mi ha detto che ho pochi mesi di vita» (proprio questo l’inizio del racconto).

Verrebbe la curiosità di sapere come ne avrebbe scritto invece in uno di quei fondi, di quegli articoli che una infinità di volte hanno «aperto» la prima pagina del Manifesto, poche righe sempre, per svelare il retroscena, il pregiudizio, l'in­ganno di tante storie e per ricostruire e sommare piccoli indizi di verità, con iro­nia e sarcasmo e l’amarezza in sottotono. In una pagina di Servabo, il primo quasi romanzo nella sua carriera di particolaris­simo narratore, memoria del fratello Giaime (morto ventiquattrenne nell’esplosio­ne di una mina, mentre tentava di attra­versare la linea di guerra, per organizzare la Resistenza nel Lazio), raccomandava: «Abbondare nei particolari, visto che l’in­sieme è inafferrabile...». Non è facile, per­chè suggerire non un qualsiasi particola­re, ma i particolari che contano, gli indizi di verità, pretende attenzione, osservazio­ne, pazienza e modestia, raffinatezza e in­ventiva. Lo sguardo giusto che è il contra­rio della banalità, la banalità che ha il vezzo dei sistemi astratti e delle frasi co­muni.

Luigi Pintor avrebbe risolto il nostro imbarazzo. Avrebbe detto di sé qualcosa di meglio del nostro, banale appunto, «grande giornalista», oppure «grande giornalista comunista», forse citando una cronaca, un episodio, un pensiero, usan­do un’immagine, cogliendo una voce. Faccio un esempio, approfittando appun­to di uno dei suoi fondi, dove ovviamente non parla di sé ma di uno dei più «scanda­losi» eventi di questo millennio, l'attenta­to alle torri gemelle: «Ho sentito un tele­spettatore mormorare, mentre guardava Manhattan bruciare e crollare quelle torri e un grande viale carico di macerie: sem­bra Beirut». Un video acceso, il film che corre, lo stupore dello spettatore e quella parola in fondo: Beirut. Il «grande paese» consegnato a un universo di rovine, di morti quotidiane, di lutti senza fine, che è il mondo in cui viviamo. Non poteva sce­gliere «parola» più efficace di Beirut per risalire dal «particolare» alla condizione comune, al male che arriva ovunque, che non risparmia nessuno: «E adesso scopria­mo che non ci sono né confini né isole».

A caso torno molto indietro negli an­ni, a un articolo che si intitola Bottiglie, datato 1 novembre 1972. Riferisce alcune statistiche a proposito di incidenti sul la­voro: ogni giorno dodici operai muoiono sul lavoro. Si chiede: «Ma se ogni giorno dodici operai muoiono sul lavoro, com'è che non se ne ha notizia ogni giorno? Questo è il particolare più interessante di tutti. Non sono solo i “grandi numeri”, il bilancio annuale del macello industriale a lasciare indifferenti (come il tonnellaggio delle bombe Usa in Vietnam). È anche la morte quotidiana. Qualche volta filtra, ma in generale non se ne sa niente: la morte fisica di un operaio fa meno notizia, sui giornali, di un alterco in una osteria.

I suoi resti finiscono come una botti­glia vuota nel secchio della spazzatura. Il giornale di Agnelli, poi, non dà neanche le statistiche...». La «parola» in questo ca­so è «spazzatura», un corpo offeso, ferito, spezzato. Le sconfitte di una classe si tra­ducono nel volo della bottiglia.

Pintor era comunista, aveva partecipa­to giovanissimo alla lotta di Liberazione (era nato nel 1925 a Roma), era stato nel partito comunista, era diventato giornali­sta all’ Unità dal 1946, era stato un dissen­ziente, aveva contribuito alla nascita della prima «corrente» del Pci, aveva creato nel 1968 una rivista, il Manifesto, colta all’ini­zio dai più giovani come l'esibizione mo­mentanea di un gruppo di intellettuali molto critici e apocalittici e assai attraen­ti, perché sembrarono comunque nuova forza per la sinistra di lotta. La rivista che era poi diventata un quotidiano (che Pin­tor aveva diretto dal primo numero nel 1971 fino al 1995, salvo alcuni intervalli).

Pintor era rimasto comunista, osser­vando la fine del comunismo, il crollo del muro di Berlino, la ristrutturazione del mondo all'ombra della potenza unica, le infinite guerre dopo la pace di cinquant'anni fa, quella che pose fine al fasci­smo e al nazismo. Per capire qualcosa del suo comunismo bisognerebbe probabil­mente ripensare a quegli anni di guerra: «Tutto quello che io so, per poco che sia, l’ho imparato in quei due o tre anni...». Lo scrive, in un altro «fondo» sul Manife­sto, nel 1999. Aveva visto in tv un docu­mentario sull'invasione nazista dell'Unio­ne Sovietica e sulla tragedia del corpo di spedizione italiano sul Don e lo racconta: «Tutto era perduto in quei giorni ed anni, le democrazie europee erano crollate sul campo come carta pesta, le armate coraz­zate del terzo Reich e le croci uncinate dilagavano sul continente e oltre senza colpo ferire, il fascismo e il terrore non conoscevano più ostacoli... Meno uno, il solo al di qua dell'Atlantico e dei mari del del nord e del Sud...». L’Unione Sovietica di Stalin, di cui qualche anno più tardi un esponente del governo d'allora, nel Parla­mento italiano, dirà: «...di certo è stato un uomo su cui Dio ha impresso la sua im­pronta...». 

Era un modo, tra il paradosso e la provocazione, per cercare «metafisica a parte» (si chiedeva Pintor, metafisica a parte: come saranno usciti dalle acciaierie oltre gli Urali quei cannoni e quei carri pesanti capaci di respingere e di frantuma­re la macchina da guerra tedesca?) le ra­gioni di una storia che si chiamava comu­nismo o comunismi, Lenin e Stalin e tan­te altre cose insieme molto più vicine a noi, riconoscendo almeno il dubbio tra le presunte «certezze» di chi vince: «Totalita­rismo e democrazia sono due parole senza qualità. Avrebbero bisogno di molti aggettivi per l'appunto qualificativi. Un dispotismo può essere illuminato e una democrazia putrefatta e non è semplice districarsi tra queste antinomie...». Que­sta è una svelta lezione per gli ex, gli anti e i postcomunisti d’oggi, un aforisma, di Giano, il vecchio Giano centenario, che osserva il mondo da sotto il Nespolo. 

Sia­mo arrivati a uno dei libri di Pintor, quel­lo che forse più apertamente si propone, appunto, come osservazione della vita, delle sue cose, lasciando i pensieri correre liberi «come nuvole oltre il fogliame», sen­za vincoli di trame.

Il primo romanzo di Pintor era stato Servabo (1991). Dopo venne La signora Kirkggessner (1998), seguito dal Nespolo (2001). Per ultimo, è arrivato Iluoghi del delitto (appena in libreria). Il sottotitolo di Servabo è «Memoria di fine secolo». Spiega lo stesso Pintor: «Scritta sotto il ritratto di un antenato mi colpì, quan- d'ero piccolissimo, una misteriosa parola latina: servabo. Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile». Raccontare diventa il modo per sé e per gli altri dunque di «riordinare nella fantasia dei conti che non tornano nella realtà», dai ricordi della prima giovi­nezza all'esperienza della guerra, che ha deciso del suo futuro e formato il suo modo di agire «politico»; dagli entusia­smi alle prove più dure anche della vita privata, la sorvegliatissima confessione dell'autore, particolarmente difesa col pu­dore e quasi col silenzio proprio là dove ci aspetteremmo la rivelazione di fatti che hanno avuto una grande incidenza pub­blica, ci offre il ritratto di un uomo sem­pre fedele a se stesso, disilluso e portato a coniugare i successi e le sconfitte, quasi più le sconfitte come è costretto a ricono­scere chiunque abbia occhi per misurare la debolezza della cultura più che il tra­monto delle ideologie.

Le pagine che seguono, della Signora Kirchgessner o del Nespolo, soprattutto, tengono fede allo stesso impegno e alla stessa disciplina, se pure con una diversi­tà di toni, nella varietà delle emozioni, nella maggiore aderenza tra pensiero e ricordo, nella capacità di affrontare diret­tamente i temi della morte, della malattia, del dolore, del lutto, della vecchiaia, nel­l'intreccio, meno contrappositivo, di pri­vato e pubblico. Pintor, dopo anni o de­cenni di militanza politica e di giornali­smo militante, di stretta concomitanza con il presente, provava a tornare sui pro­pri passi, rifare il cammino all'incontra- rio, ricominciare da capo, per rivivere qualcosa che si è già vissuto o dargli una via d'uscita.                                                                                                                                                                                                      

Altro ancora si dovrebbe dire dell'ulti­mo libro, i Luoghi del delitto, che, come si diceva all'inizio, è il più aperto e dichiara­to confronto con la morte. Più che con la morte, con la fine della vita, perché è sempre lì, a ritroso, che si guarda, a una umanità colpita dai «delitti non commes­si ma non impediti». Proprio ne I luoghi del delitto, Pintor confessa: «Diventare un idiota era la mia aspirazione di adolescen­te, che per i greci voleva dire stare in disparte con innocenza. Se proprio dove­vo crescere mi sembrava il miglior modo. Invece uno stupido si impiccia di tutto senza capire nulla e mio malgrado ho pre­so questa strada». Che non sarebbe poi una strada troppo gloriosa, perché lo spie­ga Pintor stesso ancora nel Nespolo, rega­landoci per assurdo e per autoironia la sintesi dei suoi mestieri, giornalista e scrit­tore: «Per scrivere un libro nel terzo mil­lennio ci vuole una smisurata superbia. Basta entrare in una biblioteca comunale e guardare le vetrine di un cartolaio per capire che il mondo non ha bisogno di un volume in più... Per scrivere sui giornali basta invece un’ottusa tenacia. Se un pro­fessionista scrive di media tre fogli a mac­china due volte la settimana per cinquant’anni (media bassa) fanno quindici­mila pagine stampate, pari a trenta volu­mi di cinquecento pagine, una enciclope­dia che richiede uno stipo tutto per sé, un’opera monumentale di cartapesta». Dove finiranno tutte quelle pagine?

 

 

 

 

 

 

 

 



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