18 maggio 2003
Il ruolo nel «manifesto» e il ricordo di un membro del Comitato centrale che allora non condivise la linea del Partito.
di Fabio Mussi
Era il novembre 1969, e io votai, nel Comitato Centrale del Pci, contro la radiazione del gruppo delmanifesto. Ero poco più che un ragazzo, eletto in quell’organismo solenne pochi mesi prima, al XII Congresso). Tre voti contro. Il mio, e quelli di due grandi intellettuali, Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice. Tre astenuti: Chiarante, Garavini e Badaloni. Tutti gli altri a favore. I radiati membri del Cc erano Aldo Natoli, Rossana Rossanda e Luigi Pintor.
Per Luigi Pintor c’era una ammirazione particolare. L’ha testimoniata Enrico Berlinguer a rottura consumata, ma era particolarmente forte tra i più giovani.
Tagliava le idee come impugnasse un rasoio, impugnava la penna come uno strumento musicale. Mai banale o conformista o conformista, e scrittore finissimo, si trattasse di articoli di giornale o di libri. Col tempo è diventato magistrale. Il suo Servabo è un capolavoro.
Non facevo parte del gruppo. Ma non potevo condividere le chiusure disciplinari. Mi interessava l’attenzione con cui «quelli del Manifesto» seguivano l’evolversi dei movimenti di massa del ’68, operai e studenteschi, il tentativo di ricollegarli a filoni, magari laterali, del marxismo critico, le conclusioni radicali sull’Urss tratte dopo l’invasione della Cecoslovacchia. Non condividevo la ricerca di nuove costellazioni mitologiche, si trattasse di quella castrista o cinese. Trovavo ad ogni modo intollerabile, difronte alle straordinarie trasformazioni del mondo che segnavano quell’epoca, l’intolleranza per posizioni diverse. O meglio, più che intollerabile, la trovavo antica, datata, pigra.
Nel Pci c’erano le correnti. Si era visto bene nel ’66, all’XI Congresso. Ma erano informalmente accettate perché coperte da particolari maschere convenzionali. Il Manifesto rompeva lo schema, con una esplicita organizzazione di gruppo.
Mi pare di aver argomentato il mio voto - parlando in un assordante silenzio - valorizzando il libero dibattito, e l’interesse, quand’anche non condivise, delle tesi elaborate da quella piccola minoranza organizzata. Era evidente che le regole statuite non lo consentivano, ma avrebbero dovuto essere revocate in dubbio le regole.
C’era dell'altro. La rivoluzione cecoslovacca di Dubcek era stata l’ultima occasione offertasi all’Urss per dimostrare la riformabilità del socialismo dell’Est. Occasione bruciata con l’invasione dell’agosto ’68, e con la successiva sanguinosa repressione. Si era ripetuto il ’56 ungherese. Il Pci aveva espresso «riprovazione» per l’intervento armato. Ma è un fatto che, mentre si accentuavano le tendenze autonomistiche del Pci - portate molto avanti, ma non fino alle estreme conseguenze, da Enrico Berlinguer - in molti partiti comunisti d'Europa, credo sotto la pressione sovietica, venivano liquidate le frange «eretiche». Se non ricordo male, per esempio il gruppo di Garaudy in Francia e quello di Fischer in Austria. La cosa non mi piaceva affatto. Ero l’ultimo arrivato, ma non condividevo.
Ricordo però ora Pintor, piuttosto che per lo strappo di allora, per l’intensità intellettuale e morale con cui negli anni ha continuato a testimoniare una visione critica, spesso aspra e implacabile, dell’Italia e del mondo. Non ha risparmiato la sinistra, della quale pure aveva a cuore passato e futuro. A parte il rimpianto per le strade separate e per i sentieri interrotti, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti, siamo tutti grandemente debitori verso Luigi Pintor.
I Messaggi
"La notizia della scomparsa di Luigi Pintor mi addolora profondamente. Ha dato prova di un impegno forte e convinto per l’affermazione di quegli ideali di libertà, giustizia sociale e di solidarietà che sono alla base della nostra democrazia. È stato un esempio di critica severa e di ferma intransigenza morale". Così il Presidente della Repubblica Ciampi ha scritto alla famiglia Pintor.E al suo cordoglio si unisce anche quello di molti polirici. «Ricorderemo sempre la lucidità intellettuale, il rigore morale, la passione orgogliosa che ne hanno fatto un’ascoltata coscienza critica della sinistra e un grande giornalista italiano», ha commentato Piero Fassino, eprimendo il suo cordoglio a nome dei Ds.Anche il presidente della Camera Casini ha inviato un messaggio alla famiglia, evocando «La voce autonoma e anticonformista su cui il pluralismo del paese ha potuto contare». Massimo D’Alema ha ricordato: «È stato un uomo di grandissimo spessore umano e intellettuale. Maestro di libertà di pensiero e voce critica della sinistra. Sono stato tra i giovani che raccoglievano abbonamenti per il manifesto ma credo che la separazione fosse inevitabile e io preferii rimanere nel partito». «Un intellettuale rigoroso, mai conformista, coraggioso, coscienza critica della sinistra», lo ricorda Walter Veltroni. E Francesco Rutelli si sofferma, nella memoria, a Pintor «dirigente dei Gap, che ebbe il coraggio di rischiare la vita per la libertà».Numerosissimi i messaggi, tra cui quello di Diliberto, Angius, Cossutta, Folena, Vita, Pecoraro Scanio ed Enzo Carra, responsabile culturale della Margherita, che ha dichiarato: «Un grande giornalista e un eretico che non conobbe mai l’opportunismo». Commossa Luciana Castellina: «È come fossi morta io. Luigi era un pezzo importante della storia dei comunisti e dell’Italia». Il commiato di Alessandro Curzi, direttore di Liberazione, è stato: «Sei stato un amico tenero e severo per oltre mezzo secolo: per il tempo intero della nostra vita comune».
Quel ragazzo prodigio del Tasso incalzato
dal bisogno di verità
Le scelte di un "ribelle" che visse la politica come impegno morale
di Alfredo Reichlin
Se penso a Luigi Pintor che l’assalto improvviso del male ha strappato alla vita, io provo - tra tante cose e tanti pensieri - un enorme rimpianto. Era un ragazzo davvero straordinario quello che sedeva accanto a me sui banchi del liceo-ginnasio Torquato Tasso.
Erano gli anni in cui il fascismo si avviava al tramonto, la guerra appariva ormai perduta, e la sensazione fisica della città oscurata e del grande freddo nelle case resta nel mio ricordo. Luigi portava ancora i calzoni corti. Il suo arrivo spalancò i nostri orizzonti, li spostò in territori per noi del tutto sconosciuti e inesplorati.
A casa sua, in via Nizza, attraversava la stanza dei nostri compiti scolastici Giaime, il fratello maggiore, ufficiale addetto alla commissione d’armistizio che ci portava dalla Francia i dischi di Stravinsky, le poesie di Eluard e anche un piccolo libretto intitolato: Lénine, le gauchisme maladie infantine du comunisme. Un suo amico, Scanferla, aveva l’incarico di curare la nostra «educazione sentimentale» e ci faceva leggere la corrispondenza con Romain Rolland. Se con Luigi potessi ancora parlare mi piacerebbe ricordare i libri e i film che cambiarono le nostre menti: la traduzione di Giaime delle poesie di Rilke; il sapore del sangue d’Europa che trasudava dalle pagine dei Coscritti di Ernest Salomon (l’assassinio di Rathenau, la fine di Weimer); l’antologia Americana di Vittorini con la scoperta di una scrittura tesa, vibrante, asciutta, così piena di libertà e di vita e così diversa dal carduccianesimo dei nostri professori di italiano; il Montale degli Ossi di seppia; i film di Gary Cooper e la faccia giovane e bella di Ginger Rogers, che per noi, affamati di realismo, era l'ideale di donna moderna.
Ma dove sta il rimpianto? Dopotutto, la nostra parte l'abbiamo fatta. E Luigi era il nostro capo. Lui ci portò da Lucio Lombardo-Radice per prendere contatto con il Pci clandestino. Lui venne da me una sera tristissima, prima del coprifuoco, per dirmi che Giaime era morto, dilaniato da una mina mentre attraversava le linee sui monti dell'Alto Volturno, e che a noi spettava vendicarlo. Così prendemmo le armi e diventammo partigiani.
Poi vennero gli anni trascorsi insieme all'Unità su cui non dico niente. Parlano i suoi articoli straordinari. A cosa penso allora quando dico rimpianto?
Penso, in realtà, al suo segreto. Rivado con la mente a quel grumo di cose e di contraddizioni che hanno fatto il suo fascino, hanno alimentato la sua intelligenza scintillante, gli hanno dato quel carisma per cui lui era davvero un capo. Ma penso anche a quella sua singolare condizione di sofferenza. Sembrava che i dolori del mondo pesassero in modo insopportabile sul ragazzo che era in lui e dal cui fantasma non riusciva a distaccarsi. Il mondo non gli piaceva. Questo era il fatto. La realtà che viveva non si è mai conciliata con il ricordo e perfino il mito della infanzia felice a Cagliari, con quel sole mediterraneo, con quel mare di Sardegna, con i giochi e i profondissimi affetti familiari.
Io penso che da questo grumo irrisolto venisse anche quel suo bisogno di assoluto che ha anche alimentato il suo moralismo e, volta a volta, i suoi silenzi e le sue ribellioni fino all’invettiva.
Non sono in grado di andare oltre in questo mio ripensarlo, né me la sento di giudicare. Mi chiedo solo quanti hanno attraversato come lui, in un modo così esposto e senza ripari, le tragedie della vita, e parlo della nuda vita del singolo, della sua persona privata, non delle vicissitudine della storia che tutti abbiamo vissuto.
Della sua opera in quanto leader del Manifesto, sia come giornale che come organizzazione politica altri parleranno. Io sollevo solo un problema. La politica fu davvero la sua scelta di vita? Certo, lo dominò, lo strappò dalla musica e dalla vita privata, lo costrinse a impegnarsi nella lotta e a militare. Del resto era questa la nostra condizione esistenziale: eravamo nati tra i massacri di due guerre mondiali, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nel cuore del Novecento. Ma penso che Luigi era troppo intelligente per credere che la fondazione del Manifesto nascesse dal fatto che negli anni 60, niente meno che il comunismo fosse diventato in luoghi come Parigi e come Roma finalmente maturo, attuale. Era un intellettuale. Ma era troppo poco nutrito di testi sacri per dedicarsi alla restaurazione del marxismo teorico.
Egli era piuttosto un ribelle, uno straordinario ribelle, un uomo dominato come pochi dall’anelito per la giustizia e da un bisogno di verità. E qui stava la sua forza e il suo limite. Stava nel fatto che chiedeva alla politica di essere lo strumento di una rivoluzione morale. Ed è sul metro di questo assoluto che egli la giudicava: l’aveva amata e l’aveva odiata. Perciò fu così aspro e così amaro nella polemica contro quello che allora si chiamava «il Partito».
Non accettò l'idea che il compito di questo partito, la sua missione (e anche - se mi è permesso dirlo - la sua morale) stava nell'assolvere al compito storico che era suo, e soltanto suo: costruire in Italia per la prima volta uno Stato democratico e portare le grandi masse povere alla cittadinanza e quindi anche alla partecipazione alla vita istituzionale.
______________________________________________________________________________________________
"I Luoghi del delitto" il suo ultimo libro
A CONFRONTO CON LA FINE DELLA VITA
"I luoghi del delitto" è un breve racconto. È una riflessione sulla morte, tema presente nei libri di Luigi Pintor, ma stavolta fa un effetto molro diverso leggere queste pagine. II protagonista, Martin, dopo aver attraversato e lottato con le avversità della vita, si arrende. Il medico gli annuncia di avere poco tempo da vivere. La scrittura è l'unica salvezza (o maledizione). Dall’ultimo romanzo breve di Luigi Pintor (edito da Bollati Boringhieri e in questi giorni presentato al Salone del libro di Torino) anticipiamo, per ggentile concessione dell 'editore, il primo capitolo.
Il medico curante mi ha detto che ho pochi mesi di vita. Ha detto proprio così, senza giri di parole, eravamo compagni di banco al ginnasio e siamo rimasti in confidenza. Non è un luminare ma ha molta esperienza che vale più della sapienza. Non dubito del suo giudizio e l'ho ringraziato per la sincerità.
Non mi ha detto se morirò placidamente o se entrerò in agonia ma non fa gran differenza. Ho una malattia del sangue a decorso rapido che non lascia scampo e rifiuterò inutili terapie. Per me non è stata una sorpresa, mi aspettavo una comunicazione di questo genere e ho provato un senso di sollievo. Già altre volte il dottor basilio mi aveva visitato scuotendo la testa e allargando le braccia ma lasciandomi nell'incertezza. Adesso so come comportarmi.
Ho poco più di cinquant'anni ma ne dimostro il doppio, peso quarantadue chili, respiro come un pesce fuor d’acqua e perdo facilmente l’equilibrio. Vecchie signore mi cedono il posto in autobus facendomi arrossire. Pochi mesi in queste condizioni mi sembrano anche troppi. Non ho parentele né amicizie, non lascio nessuno in ambasce ed è una ragione in più per accorciare i tempi.
Ma ho un peso sulla coscienza di cui devo assolutamente liberarmi prima di scendere nella tomba. Non posso portarmelo dietro senza una confessione riparatrice. Forse il dottore è stato così esplicito, nella sua diagnosi, per obbligarmi a compiere quest'atto di onestà. In punto di morte si diventa sinceri perché non si ha nulla da perdere e ci si può permettere questo lusso.
Non intendo una confessione come quelle che si rendono ai preti, sapendo che ti assolveranno perché è il loro mestiere. O a un giudice, che non farebbe in tempo a processarmi per scadenza dei termini. O a uno psichiatra, che spiegherebbe tutto con un trauma infantile. Il malfatto di cui devo far conto non è un delitto comune e non riguarda soltanto me stesso e pochi intimi.
Se fossi un filosofo direi che riguarda l’umanità tutt’intera o pressappoco. Ma sono un archivista che ha preso a mala pena la licenza liceale e ha passato
il suo tempo a catalogare ritagli di giornale e non credo che riuscirò a spiegarmi bene e a farmi capire. Temo che non mi basti l'animo e che la morte appollaiata sulle spalle mi metta troppa fretta e mi confonda.
Un piccolo cane accucciato sotto il tavolo mi osserva e mi innervosisce. Se si fissa un cane negli occhi si ha l’impressione, secondo un letterato laureato a Stoccolma, che qualcuno si celi dietro quell’apparenza e si prenda gioco di te e dell'umana presunzione. Più che altro non mi prende sul serio, si limita a scodinzolare debolmente e non si aspetta nulla più che un biscotto o un rimbrotto. Il suo codice primario è lineare e senza peccato, non soffre di complessi di colpa, il suo istinto lo guida senza sbandare come il nostro intelletto, non ha nulla da confessare e perciò quel letterato al suo cospetto si sentiva a disagio.
Ora il piccolo cane dorme e forse sogna come un bambino. Ma sono certo che non ha incubi. Non sogna di essere chiuso in un sacco e affogato in un pozzo anche se ha visto qualche cucciolo subire quella sorte. Non sogna d’essere afferrato da una tromba d’aria, risucchiato in un vortice, in un vento di fumo e cenere che si avvita verso il cielo e si perde nella notte.
Quest'incubo che spesso mi assale non incute paura ma repulsione e nausea. Al risveglio hai un nodo alla gola e in bocca un acre sapore. È un incubo troppo frequente per attribuirlo a un'indigestione e troppo antico per attribuirlo alla malattia. Viene dalla cattiva coscienza e perciò il piccolo cane se ne infischia.
© 2013-2017 FondazioneLuigiPintor
tutti i diritti riservati
CF: 97744730587 – P.IVA: 12351251009