FondazioneLuigiPintor
  • Chi siamo
  • Iniziative
  • Contatti
  • Lo statuto
  • Luigi Pintor
    • La vita
    • Pintor visto da Pintor
    • Caro Luigi
    • Amarcord
    • Giaime
    • Editoriali
    • Corsivi
    • Anniversari
    • Libri
    • Il Manifesto Rivista
    • Il Manifesto Quotidiano

 

                                         18 maggio 2003

 

Foto

 

 

Il ruolo nel «manifesto» e il ricordo di un membro del Comitato centrale che allora non condivise la linea del Partito. 

Radiarlo dal Pci fu intollerabile e io votai contro

di Fabio Mussi 

 

Era il novembre 1969, e io votai, nel Comitato Centrale del Pci, contro la radiazione del gruppo delmanifesto. Ero poco più  che un ragazzo, eletto in quell’organismo solenne pochi mesi prima, al XII Congresso). Tre voti contro. Il mio, e quelli di due grandi intellettuali, Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice. Tre astenuti: Chiarante, Garavini e Badaloni. Tutti gli altri a favore. I radiati membri del Cc erano Aldo Natoli, Rossana Rossanda e Luigi Pintor.

Per Luigi Pintor c’era una ammirazione particolare. L’ha testimoniata Enrico Berlinguer  a rottura consumata, ma era particolarmente forte tra i più giovani. 

Tagliava le idee come impugnasse un rasoio, impugnava la penna come uno strumento musicale. Mai banale o conformista o conformista, e scrittore finissimo, si trat­tasse di articoli di giornale o di libri. Col tempo è diventato magistrale. Il suo Servabo è un capolavoro.

Non facevo parte del gruppo. Ma non pote­vo condividere le chiusure disciplinari. Mi interessava l’attenzione con cui «quelli del Manifesto» seguivano l’evolversi dei movi­menti di massa del ’68, operai e studente­schi, il tentativo di ricollegarli a filoni, ma­gari laterali, del marxismo critico, le conclu­sioni radicali sull’Urss tratte dopo l’invasio­ne della Cecoslovacchia. Non condividevo la ricerca di nuove costellazioni mitologi­che, si trattasse di quella castrista o cinese. Trovavo ad ogni modo intollerabile, difron­te alle straordinarie trasformazioni del mon­do che segnavano quell’epoca, l’intolleran­za per posizioni diverse. O meglio, più che intollerabile, la trovavo antica, datata, pi­gra.

Nel Pci c’erano le correnti. Si era visto bene nel ’66, all’XI Congresso. Ma erano infor­malmente accettate perché coperte da parti­colari maschere convenzionali. Il Manifesto rompeva lo schema, con una esplicita orga­nizzazione di gruppo.

Mi pare di aver argomentato il mio voto - parlando in un assordante silenzio - valoriz­zando il libero dibattito, e l’interesse, quan­d’anche non condivise, delle tesi elaborate da quella piccola minoranza organizzata. Era evidente che le regole statuite non lo consentivano, ma avrebbero dovuto essere revocate in dubbio le regole.

C’era dell'altro. La rivoluzione cecoslovacca di Dubcek era stata l’ultima occasione offer­tasi all’Urss per dimostrare la riformabilità del socialismo dell’Est. Occasione bruciata con l’invasione dell’agosto ’68, e con la suc­cessiva sanguinosa repressione. Si era ripe­tuto il ’56 ungherese. Il Pci aveva espresso «riprovazione» per l’intervento armato. Ma è un fatto che, mentre si accentuavano le tendenze autonomistiche del Pci - portate molto avanti, ma non fino alle estreme con­seguenze, da Enrico Berlinguer - in molti partiti comunisti d'Europa, credo sotto la pressione sovietica, venivano liquidate le frange «eretiche». Se non ricordo male, per esempio il gruppo di Garaudy in Francia e quello di Fischer in Austria. La cosa non mi piaceva affatto. Ero l’ultimo arrivato, ma non condividevo. 

Ricordo però ora Pintor, piuttosto che per lo  strappo di allora, per l’intensità intellet­tuale e morale con cui negli anni ha conti­nuato a testimoniare una visione critica, spesso aspra e implacabile, dell’Italia e del mondo. Non ha risparmiato la sinistra, del­la quale pure aveva a cuore passato e futu­ro. A parte il rimpianto per le strade separa­te e per i sentieri interrotti, dopo che tanta acqua è passata sotto i ponti, siamo tutti grandemente debitori verso Luigi Pintor.

 

 

I Messaggi

"La notizia della scomparsa di Luigi Pintor  mi addolora profondamente. Ha dato prova di un impegno forte e convinto per l’affermazione di quegli ideali di libertà, giustizia sociale e di solidarietà che sono alla base della nostra democrazia. È stato un esempio di critica severa e di ferma intransigenza morale". Così il Presidente della Repubblica Ciampi ha scritto alla famiglia Pintor.E al suo cordoglio si unisce anche quello di molti polirici. «Ricorderemo sempre la lucidità intellettuale, il rigore morale, la passione orgogliosa che ne hanno fatto un’ascoltata coscienza critica della sinistra e un grande giornalista italiano», ha commentato Piero Fassino, eprimendo il suo cordoglio a nome dei Ds.Anche il presidente della Camera Casini ha inviato un messaggio alla famiglia, evocando «La voce autonoma e anticonformista su cui il pluralismo del paese ha potuto contare». Massimo D’Alema ha ricordato: «È stato un uomo di grandissimo spessore umano e intellettuale. Maestro di libertà di pensiero e voce critica della sinistra. Sono stato tra i giovani che raccoglievano abbonamenti per il manifesto ma credo che la separazione fosse inevitabile e io preferii rimanere nel partito». «Un intellettuale rigoroso, mai conformista, coraggioso, coscienza critica della sini­stra», lo ricorda Walter Veltroni. E Francesco Rutelli si sofferma, nella memoria, a Pintor «dirigente dei Gap, che ebbe il coraggio di rischiare la vita per la libertà».Numerosissimi i messaggi, tra cui quello di Diliberto, Angius, Cossutta, Folena, Vita, Pecoraro Sca­nio ed Enzo Carra, responsabile culturale della Margherita, che ha dichiarato: «Un grande giornalista e un eretico che non conobbe mai l’opportunismo». Commossa Luciana Castellina: «È come fossi morta io. Luigi era un pezzo importante della storia dei comunisti e dell’Italia». Il commiato di Alessandro Curzi, direttore di Liberazione, è stato: «Sei stato un amico tenero e severo per oltre mezzo secolo: per il tempo intero della nostra vita comune».

 

 

 

Quel ragazzo prodigio del Tasso incalzato

dal bisogno di verità

Le scelte di un "ribelle" che visse la politica come impegno morale

 

di Alfredo Reichlin 

 

Se penso a Luigi Pintor che l’assalto improvviso del male ha strappato alla vita, io provo - tra tante cose e tanti pensieri - un enorme rimpianto. Era un ragazzo davvero straordinario quello che sedeva accanto a me sui banchi del liceo-ginnasio Torquato Tasso. 

Erano gli anni in cui il fascismo si avviava al tramonto, la guerra appariva ormai perduta, e la sensazione fisica della città oscurata e del grande freddo nelle case resta nel mio ricordo. Luigi portava ancora i calzoni corti. Il suo arrivo spalancò i nostri orizzonti, li spostò in territori per noi del tutto sconosciuti e inesplorati.

 

A casa sua, in via Nizza, attraver­sava la stanza dei nostri compi­ti scolastici Giaime, il fratello maggiore, ufficiale addetto alla com­missione d’armistizio che ci portava dalla Francia i dischi di Stravinsky, le poesie di Eluard e anche un piccolo libretto intitolato: Lénine, le gauchi­sme maladie infantine du comunisme. Un suo amico, Scanferla, aveva l’inca­rico di curare la nostra «educazione sentimentale» e ci faceva leggere la cor­rispondenza con Romain Rolland. Se con Luigi potessi ancora parlare mi piacerebbe ricordare i libri e i film che cambiarono le nostre menti: la tradu­zione di Giaime delle poesie di Rilke; il sapore del sangue d’Europa che tra­sudava dalle pagine dei Coscritti di Er­nest Salomon (l’assassinio di Rathe­nau, la fine di Weimer); l’antologia Americana di Vittorini con la scoperta di una scrittura tesa, vibrante, asciut­ta, così piena di libertà e di vita e così diversa dal carduccianesimo dei no­stri professori di italiano; il Montale degli Ossi di seppia; i film di Gary Coo­per e la faccia giovane e bella di Gin­ger Rogers, che per noi, affamati di realismo, era l'ideale di donna moder­na.

Ma dove sta il rimpianto? Dopotutto, la nostra parte l'abbiamo fatta. E Luigi era il nostro capo. Lui ci portò da Lucio Lombardo-Radice per prendere contatto con il Pci clandestino. Lui venne da me una sera tristissima, pri­ma del coprifuoco, per dirmi che Giai­me era morto, dilaniato da una mina mentre attraversava le linee sui monti dell'Alto Volturno, e che a noi spetta­va vendicarlo. Così prendemmo le ar­mi e diventammo partigiani.

Poi ven­nero gli anni trascorsi insieme all'Uni­tà su cui non dico niente. Parlano i suoi articoli straordinari. A cosa pen­so allora quando dico rimpianto?

Pen­so, in realtà, al suo segreto. Rivado con la mente a quel grumo di cose e di contraddizioni che hanno fatto il suo fascino, hanno alimentato la sua intel­ligenza scintillante, gli hanno dato quel carisma per cui lui era davvero un capo. Ma penso anche a quella sua singolare condizione di sofferenza. Sembrava che i dolori del mondo pe­sassero in modo insopportabile sul ra­gazzo che era in lui e dal cui fantasma non riusciva a distaccarsi. Il mondo non gli piaceva. Questo era il fatto. La realtà che viveva non si è mai concilia­ta con il ricordo e perfino il mito della infanzia felice a Cagliari, con quel sole mediterraneo, con quel mare di Sarde­gna, con i giochi e i profondissimi affetti familiari.

Io penso che da que­sto grumo irrisolto venisse anche quel suo bisogno di assoluto che ha anche alimentato il suo moralismo e, volta a volta, i suoi silenzi e le sue ribellioni fino all’invettiva.

Non sono in grado di andare oltre in questo mio ripensarlo, né me la sento di giudicare. Mi chiedo solo quanti hanno attraversato come lui, in un modo così esposto e senza ripari, le tragedie della vita, e parlo della nuda vita del singolo, della sua persona pri­vata, non delle vicissitudine della sto­ria che tutti abbiamo vissuto.

Della sua opera in quanto leader del Manifesto, sia come giornale che come organizzazione politica altri parleran­no. Io sollevo solo un problema. La politica fu davvero la sua scelta di vi­ta? Certo, lo dominò, lo strappò dalla musica e dalla vita privata, lo costrin­se a impegnarsi nella lotta e a militare. Del resto era questa la nostra condizio­ne esistenziale: eravamo nati tra i mas­sacri di due guerre mondiali, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nel cuore del Novecento. Ma penso che Luigi era troppo intelligente per credere che la fondazione del Manifesto nascesse dal fatto che negli anni 60, niente meno che il comunismo fosse diventato in luoghi come Parigi e come Roma final­mente maturo, attuale. Era un intellet­tuale. Ma era troppo poco nutrito di testi sacri per dedicarsi alla restaura­zione del marxismo teorico.

Egli era piuttosto un ribelle, uno stra­ordinario ribelle, un uomo dominato come pochi dall’anelito per la giusti­zia e da un bisogno di verità. E qui stava la sua forza e il suo limite. Stava nel fatto che chiedeva alla politica di essere lo strumento di una rivoluzione morale. Ed è sul metro di questo asso­luto che egli la giudicava: l’aveva ama­ta e l’aveva odiata. Perciò fu così aspro e così amaro nella polemica contro quello che allora si chiamava «il Parti­to».

Non accettò l'idea che il compito di questo partito, la sua missione (e an­che - se mi è permesso dirlo - la sua morale) stava nell'assolvere al compi­to storico che era suo, e soltanto suo: costruire in Italia per la prima volta uno Stato democratico e portare le grandi masse povere alla cittadinanza e quindi anche alla partecipazione alla vita istituzionale.

______________________________________________________________________________________________

 

"I Luoghi del delitto" il suo ultimo libro

 

A CONFRONTO CON LA FINE DELLA VITA

 

"I luoghi del delitto" è un breve racconto. È una riflessione sulla morte, tema presente nei libri di Luigi Pintor, ma stavolta fa un effetto molro diverso leggere queste pagine. II  protagonista, Martin, dopo aver attraver­sato e lottato  con le avversità della vita, si arrende. Il medico gli annuncia di avere poco tempo da vivere. La scrittura è l'unica salvezza (o maledizione). Dall’ultimo ro­manzo breve di Luigi Pintor (edito da Bol­lati Boringhieri e in questi giorni presenta­to al Salone del libro di Torino) anticipia­mo, per ggentile concessione dell 'editore, il primo capitolo.

 

Il medico curante mi ha detto che ho pochi mesi di vita. Ha detto proprio così, senza giri di parole, eravamo compagni di banco al ginna­sio e siamo rimasti in confidenza. Non è un luminare ma ha molta esperienza che vale più della sapienza. Non dubito del suo giudizio e l'ho ringraziato per la sincerità. 

Non mi ha detto se morirò placidamente o se entrerò in agonia ma non fa gran differenza. Ho una malattia del sangue a decorso rapido che non lascia scampo e rifiuterò inutili terapie. Per me non è stata una sorpresa, mi aspetta­vo una comunicazione di questo gene­re e ho provato un senso di sollievo. Già altre volte il dottor basilio mi aveva visitato scuotendo la testa e allargando le braccia ma lasciandomi nell'incertez­za. Adesso so come comportarmi.

Ho poco più di cinquant'anni ma ne dimostro il doppio, peso quaranta­due chili, respiro come un pesce fuor d’acqua e perdo facilmente l’equilibrio. Vecchie signore mi cedono il posto in autobus facendomi arrossire. Pochi me­si in queste condizioni mi sembrano anche troppi. Non ho parentele né ami­cizie, non lascio nessuno in ambasce ed è una ragione in più per accorciare i tempi.

Ma ho un peso sulla coscienza di cui devo assolutamente liberarmi pri­ma di scendere nella tomba. Non pos­so portarmelo dietro senza una confes­sione riparatrice. Forse il dottore è sta­to così esplicito, nella sua diagnosi, per obbligarmi a compiere quest'atto di onestà. In punto di morte si diventa sinceri perché non si ha nulla da perde­re e ci si può permettere questo lusso.

Non intendo una confessione co­me quelle che si rendono ai preti, sa­pendo che ti assolveranno perché è il loro mestiere. O a un giudice, che non farebbe in tempo a processarmi per sca­denza dei termini. O a uno psichiatra, che spiegherebbe tutto con un trauma infantile. Il malfatto di cui devo far con­to non è un delitto comune e non ri­guarda soltanto me stesso e pochi inti­mi.

Se fossi un filosofo direi che riguar­da l’umanità tutt’intera o pressappoco. Ma sono un archivista che ha preso a mala pena la licenza liceale e ha passato

il suo tempo a catalogare ritagli di gior­nale e non credo che riuscirò a spiegar­mi bene e a farmi capire. Temo che non mi basti l'animo e che la morte appollaiata sulle spalle mi metta troppa fretta e mi confonda.

Un piccolo cane accucciato sotto il tavolo mi osserva e mi innervosisce. Se si fissa un cane negli occhi si ha l’im­pressione, secondo un letterato laurea­to a Stoccolma, che qualcuno si celi dietro quell’apparenza e si prenda gio­co di te e dell'umana presunzione. Più che altro non mi prende sul serio, si limita a scodinzolare debolmente e non si aspetta nulla più che un biscotto o un rimbrotto. Il suo codice primario è lineare e senza peccato, non soffre di complessi di colpa, il suo istinto lo gui­da senza sbandare come il nostro intel­letto, non ha nulla da confessare e per­ciò quel letterato al suo cospetto si sen­tiva a disagio.

Ora il piccolo cane dorme e forse sogna come un bambino. Ma sono cer­to che non ha incubi. Non sogna di essere chiuso in un sacco e affogato in un pozzo anche se ha visto qualche cucciolo subire quella sorte. Non sogna d’essere afferrato da una tromba d’aria, risucchiato in un vortice, in un vento di fumo e cenere che si avvita verso il cielo e si perde nella notte.

Quest'incubo che spesso mi assale non incute paura ma repulsione e nau­sea. Al risveglio hai un nodo alla gola e in bocca un acre sapore. È un incubo troppo frequente per attribuirlo a un'indigestione e troppo antico per at­tribuirlo alla malattia. Viene dalla catti­va coscienza e perciò il piccolo cane se ne infischia.

 

 

 

 

 



blog comments powered by Disqus

Numero FAX: 06 97656905

bbb


Per aderire alla fondazione

Modulo in pdf
Modulo in word

© 2013-2017 FondazioneLuigiPintor tutti i diritti riservati
CF: 97744730587  – P.IVA: 12351251009