LA ROTTAMAZIONE UNIVERSALE
di Alberto Asor Rosa, 18 luglio 2014
Vorrei cominciare questa volta da lontano. All’inizio, più o meno del 2013, nell’imminenza delle elezioni politiche nazionali, presi l’iniziativa di stendere un appello a favore del voto al Pd e lo feci rapidamente circolare (anche il testo di quell’appello sarebbe forse da rileggere, per capire di cosa allora si ragionava). Nello spazio di una decina di giorni, lo “ritirai”, per così dire, e lo ritrovai firmato, oltre che da me, ovviamente, dalle seguenti personalità intellettuali: Guido Rossi, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Claudio Magris, Barbara Spinelli, Tullio De Mauro, Vittorio Gregotti, Andrea Camilleri, Natalia Aspesi, Umberto Eco, Luigi Ferrajoli, Piero Bevilacqua, Alberto Melloni, Giorgio Parisi, Filippo Gentiloni, Nadia Urbinati.
Sorprende, no? L’incredibile vastità e varietà dello schieramento intellettuale qui rappresentato stava a significare, mi pare, due cose: l’insopportabilità del protrarsi del lercio dominio berlusconiano e la fiducia, evidente, anche se in taluni intimamente condizionata, nell’esperimento bersaniano. Cos’era l’esperimento bersaniano? Era il tentativo di creare in Italia un governo di autentico centro-sinistra, non eversivo né antagonistico (figuriamoci), ma al tempo stesso non soggetto al predominio straripante del grande capitalismo finanziario e dell’Europa bruxellensis, che in sostanza con esso coincideva.
Di quel complesso di fattori, politici e intellettuali, ma anche psicologici ed emotivi, che aveva spinto quel gruppo di personalità a prendere siffatta posizione, ora, dopo appena un anno e mezzo, non resta nulla.
Non resta la coesione, sia pure provvisoria, certo, ma proprio perciò ancora più significativa, che le aveva spinte a stare insieme per conseguire il medesimo obiettivo. Non resta neanche la minima traccia dell’obiettivo per il quale avevano ritenuto in quel momento di esporsi. Perché sia accaduto questo, bisogna che in questo anno e mezzo sia precipitato sull’Italia un diluvio, cui bisogna ora porre un argine, e ancor più un rimedio.
Già allora osservai che impedire all’inequivocabile vincitore delle elezioni, Pierluigi Bersani, di esperire in Parlamento, cioè nella sede propria, la ricerca della propria maggioranza, avrebbe posto le premesse di uno svolgimento anomalo del gioco politico in Italia. Siamo infatti passati da allora, e in misura crescente, da un’anomalia all’altra, senza che, a un certo punto, qualcuno dicesse: basta, così non si può andare avanti. L’esito finale di questo cumulo di anomalie è ciò che ci sta davanti e nel quale noi viviamo (o, per meglio dire, corriamo il rischio di annegare).
Matteo Renzi è il frutto di questo cumulo di anomalie, di cui più che essere il politico che ne ha approfittato abilmente, rappresenta una manifestazione esemplare, il personaggio tipico e tipizzante più significativo.
Mi limiterò a indicare quelli che per me sono i quattro blocchi di problemi, con i quali ci si misura ogni qualvolta s’intraprende una disanima delle sue personalità e delle sue azioni.
Renzi è un politico plebiscitario. E’, di conseguenza, un tipico politico post-democratico, se la post-democrazia, come sempre più spesso si sente ripetere, consiste nell’appello diretto al “popolo” e nella svalutazione degli strumenti tradizionali del voto e della rappresentanza. Tutto quello che propone o dispone — la riforma del Senato, la legge elettorale detta Italicum, l’aumento straordinario delle firme necessarie per la presentazione dei referendum, ecc, ecc, — procede in questa direzione. Questa vera e propria rimodellazione delle strutture istituzionali esistenti, contempla però un altro aspetto forse più importante del primo: e cioè il tentativo di ridurre anche le forme più rilevanti del “pubblico” (e cioè strutture e prerogative dello stato, autonomie istituzionali e funzionali dei diversi settori) dentro questo quadro. La struttura dello Stato, rifondata faticosamente (e non senza, a dir la verità, aporie e insufficienze) dopo la parentesi autoritaria del fascismo, allo scopo, fondamentalmente, d’impedire che la politica se ne impadronisse e la governasse senza resistenze ai propri fini, viene attaccata quotidianamente e prospetticamente da tutte le parti.
Se questa è la direzione di marcia, ne consegue che la politica formal-istituzionale di Renzi non ha più nulla del tradizionale “animus” di centro-sinistra, che ha caratterizzato la nostra esperienza democratica nel corso degli ultimi settant’anni. Non è, a dir la verità, neanche una politica di centro-destra intesa anch’essa in senso tradizionale. E’ un tentativo, di tipo nuovo, di mettere l’intero sistema al servizio di una prospettiva di pseudo-razionalizzazione e pseudo-finzionamento del meccanismo statuale e istituzionale, che elimini quanto più possibile gli inconvenienti della discussione, della trattativa parlamentare e, Dio mio che noia!, del conflitto. Ripeto: del conflitto in tutte le sue forme. I corpi separati (e in qualche modo autonomi) dello Stato, le rappresentanze sindacali, la pretesa delle forze politiche (del resto, quali, ormai?) di rappresentare interessi fuori della norma, ecc. ecc., costituiscono in questa visione altrettante anomalie, che ostacolano l’illuminata attività del Sovrano, che dispone invece, come dicevo, di tutte le funzioni preliminarmente considerate e razionalizzate.
Siccome non esistono più interessi da rappresentare né “valori” da preservare, allora si può, cammin facendo, fare accordi con i più sudici degli interlocutori, sempre in nome della razionalizzazione del sistema (e questo, poi, è solo quanto emerge alla superficie: che dire, o, meglio, cosa immaginare di cosa ci può essere sotto banco?). Questo vuol dire, mi pare, almeno una cosa. La politica non si misura più, bene o male, con l’ethos.
Quali differenze sostanziali, di comportamento e di obiettivi, passano ormai fra il cosiddetto centro-sinistra (Pd?) e il cosiddetto centro-destra? La verità è che si sta formando in Italia, sulla base delle procedure di razionalizzazione e centralizzazione perseguite da Matteo Renzi, un polo brutalmente unificante, totalmente inedito, e orientato costituzionalmente a portare, come dicevo, alla cancellazione del conflitto e a un governo saggio, unitario, benevolente, ormai fuori dal gioco delle azioni e reazioni che una volta si dicevano “democratiche”. Non più il modello europeo dell’alternanza (per quanto anche l’ì…): è il modello italiano, che introietta la possibile alternanza dentro la pacificata sintesi degli (pretesi, certo, ormai solo pretesi) opposti. Per conseguirne senza il pericolo di ritorni di fiamma la definitiva leadership, Matteo Renzi ha bisogno di dimostrare presto, molto presto, di esserne capace. Per questo si è inventato due o tre riforme istituzionali della cui esigenza e coerenza è lecito fortemente dubitare, per poter andare subito al sodo. Il resto verrà più avanti: per ora lascia che i suoi fedelissimi comincino a parlare (in perfetta sintonia con il “vecchio” centro-destra) dell’abolizione dell’articolo 18, del presidenzialismo… .
Se le cose stanno così, ne discendono alcune conseguenze.
La prima è che la versione corretta della proposta renziana di rottamazione è quella di portata universale, che investe e travolge alle radici l’intero sistema. Questa è anche — penso non contraddittoriamente — la sua versione più nobile. Renzi vuole rottamare l’intero sistema democratico italiano. E’ un’idea inaccettabile, ma è un’idea. Chi non è d’accordo deve decidere subito di battere un’altra strada.
Per trovare, rapidamente ed efficacemente, un’altra strada (o “ritrovarla”, come scrive Rangeri), bisogna presto concludere che il Pd a questo fine è perduto. Il Pd non è recuperabile, l’esperienza plebiscitaria di Renzi ne ha cambiato la natura. Siccome l’Uomo è uno che non fa né superstiti né prigionieri, la situazione non può che peggiorare. Dunque, non è da lì dentro che può venire anche solo un primo abbozzo di risposta.
E da dove, allora? Ho già scritto che nulla, in questa fase politica (forse sempre) è possibile senza un partito. Un partito può essere, sulla base di esperienze nel merito ormai secolari, anche cose molto diverse l’una dall’altra. Sulle forme, dunque, si potrebbero fare, soprattutto oggi, ragionamenti diversificati, anche se, alla fine, per tenerli insieme, complementari. Ma una è irrinunciabile. Bisogna essere d’accordo sugli elementi fondamentali di una strategia: obiettivi positivi e obiettivi negativi. Se ne potrebbe discutere per un po’, serenamente.
Ma uno di questi — prevalentemente negativo, ahimé, ma solo per ora — è chiarissimo (e non è poco): sbarrare la strada all’esperimento renziano. A questo fine — come dire — bisognerebbe rinunciare da subito, e se possibile per sempre, a quella caratteristica permanente della sinistra insofferenza, che è la puzza sotto il naso.
E cioè. Se si parte dalle cronache politiche di tutti i giorni, direi che esiste una vasta zona, che va da forze di sinistra ancora presenti nel Pd al nucleo più resistente di Sel a settori consistenti dell’opinione pubblica e intellettuale, in cui si pensano cose analoghe, se non addirittura coincidenti. E come mai? ma perché, secondo me, esiste oggi un enorme spazio in cui un antagonismo di sistema finisce per coincidere con un riformismo radicale enormemente ricco di contenuti e di potenziali trasformazioni (mi chiedo se, alla prova dei fatti non vi siamo comprese anche organizzazioni che si richiamano ancora all’idea comunista).
E Tsipras? Ho un enorme rispetto per l’esperimento, ma non credo che da solo sia destinato a crescere fino a rappresentare un ostacolo serio, in Italia e in Europa, ai rischi incombenti. Del resto, anche da questo punto di vista, molti intrecci e convergenze sono ipotizzabili. Se infatti nel conflitto sono attualmente in gioco forme diverse della democrazia o della post-democrazia, il nostro punto di riferimento è indubbiamente quello di una democrazia partecipativa, che nasce dal basso e si diffonde a rete sull’intera società. Perché allora non tentare di sperimentare questa linea non in separata sede, bensì all’interno di una situazione organizzativa di più vaste dimensioni e di comprovata esperienza, che lo inglobi e ne faccia il perno di tutta l’azione di opposizione?
Appunto: opposizione. C’è un’opposizione in Italia? Se c’è, con i miei modesti strumenti di osservazione, non riesco ad accorgermene. Del resto, è logico. Se non c’è sinistra, come può esserci opposizione? Allora si capisce perché l’atto politico destinato a innescare un processo di questa natura sarebbe di per sé di enorme importanza. In Italia, ripeto, non esiste per ora una sinistra organizzata in grado di rappresentarsi in tutte le situazioni, istituzionali e sociali, come elemento decisivo del confronto e del conflitto. Se proveremo a crearla, imboccheremo la nuova strada. Se no, no. E saranno dolori.
da il manifesto del 19 luglio 2014
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