L'INVERNO DEI CONGRESSI
di Roberto Musacchio - Roma 8 ottobre 2013
Capita, in un giorno di pioggia di inizio autunno, che ti venga una strana voglia di leggere i documenti per i congressi dei due partiti in cui hai militato, a lungo o brevemente, prima di provare altre strade. Leggo così di seguito e insieme il primo documento, a firma Amato, per il congresso del Prc e quello, documento unico, a firma Vendola, per Sel. Il tono di queste note sarà volutamente personale, di riflessioni sparse senza il necessario approfondimento che comunque meritano gli sforzi collettivi che ancora si ritrovano nelle forme partito. Sforzi che rispetto sinceramente, anche avendo scelto in questo momento di starne fuori. Per cui invito chi vuole a leggere direttamente i testi che sono facilmente disponibili in rete. Non mi soffermerò neanche sulle articolazioni del dibattito, che pure ci sono. Immediatamente espresse da altri documenti e da emendamenti nel Prc, ma da testi e emendamenti che ho visto circolare anche in Sel e che non so che forma avranno nello svolgersi del dibattito, ma che mi sono sembrati interessanti. Non sono così freddo e professionalizzato per affrontare in modo organico le discussioni che attraversano i due soggetti. Dunque, per chi ha voglia di leggerle, qualche nota sparsa.
Se si vogliono marcare le differenze, di penna e politiche, basta vedere il ventaglio così diverso delle citazioni a partire dalle prime che si incontrano, Marx ed Engels per il Prc, Camus ed Holderlin per Sel. Ma poi, a ben vedere, l’incipit è assai più comune di quel che sembri, o si voglia far sembrare. Lo sfondo è sempre la globalizzazione liberista, la sua crisi, i rischi di imbarbarimento, le potenzialità di cambiamento. Guerra, barbarie, fine dei modelli sociali progressivi, come quello europeo, sono in entrambi i testi. La strada concreta di questo cambiamento è per il Prc il socialismo del ventunesimo secolo mentre Vendola ricorre all’Amleto del “mondo è fuori sesto” per indicare nella politica lo strumento attuale per far fronte alla degenerazione del liberismo e alla sconfitta del sistema socialista. Qui, naturalmente, la strada appare divaricarsi, e non poco. Ma poi in realtà trovi ancora riferimenti comuni alle esperienze dei movimenti come a quelle dell’America Latina. E torna a divenire largamente comune l’aspettativa di cambiamento, pieno di un sistema valoriale assolutamente oltre l’orizzonte del presente e anche di punti programmatici condivisi, sebbene indicati più a grandi linee in Sel e fin troppo dettagliati in Prc.
Ma ciò che resta nell’interregno, per citare il Gramsci citato da Sel proprio su questo punto, ma anche da Prc sul senso dei partiti politici, rischia di vanificare e non poco le potenzialità di letture comuni della crisi e degli obiettivi. Dico, per correttezza, che su questo “che fare”, se è evidente la crisi drammatica della sinistra radicale, pure la lettura di Vendola mi appare molto “falsificata”, in termini popperiani, dalla realtà. E falsificata proprio nelle forme di quella politica cui si affida il compito di colmare lo iato tra crisi e alternativa, evitando la barbarie, senza ricorrere a costruzioni, come quella del socialismo del ventunesimo secolo appunto, che probabilmente gli appaiono “ideologiche”.
Questa politica infatti viene fatta poggiare su due elementi, il governo e il campo largo, che coincide con l’appartenenza a quello del socialismo europeo, che entrambi, alla luce dei fatti, fanno assai più parte dei problemi che della loro soluzione. Sembra così non vedere la trasformazione del governo in governance che non ammette esistenza di alternative, da un lato. E, dall’altro, la trasformazione del campo socialista europeo in una parte sistemica di questa governance. Sono, questi, due aspetti strutturali di quella modificazione radicale del modello europeo, della crisi democratica che viviamo e del cambio di natura della politica stessa da soggetto partecipato che si fonda su conflitti e alternative di modelli di società a strumento dell’attuale potere unico. Eppure la realtà di oggi, dalla Germania all’Italia, ci dice di una sostanziale omologazione della politica ad equipaggio di accompagno del pilota automatico. Rendendola impermeabile a critiche dall’interno che risultano inascoltabili a prescindere, direbbe Totò, perché ne va della natura dei soggetti stessi. Cosa altro ci dicono le storie del Pasok, che si autodistrugge ma sta nel governo della Troika, di Hollande, ricondotto alla gestione dell’austerità costi quel che costi, della Spd, che vota tutto ciò che la Merkel fa, la “aiuta” a vincere e poi ci va, probabilmente, al governo insieme? Come può essere questa una base credibile di alternativa in Europa e non finire, come in Germania e in Italia, sconfitta alle elezioni europee e poi in cogestione ancora più subalterna? Questa è la forza della politica delle larghe intese, formali o sostanziali, che sostiene l’edificazione dell’Europa liberale, e lo stravolgimento costituzionale. E in questo quadro la parabola italiana è chiarissima, nel suo andare dalla sconfitta della coalizione Italia Bene Comune, che aveva puntato sulla affidabilità data dalla fedeltà alle politiche europee, al governo Letta. E che arriva alla attuale dialettica, nel Pd, tra lo stesso Letta e Renzi, con la marginalizzazione di ciò che rimane, in termini di persone e idee della cultura che fu del Pci. Per citare anch’io Gramsci, c’è un equilibrio da tenere tra il pessimismo dell’intelletto e l’ottimismo della volontà.
Purtroppo si sta chiudendo in negativo proprio la lunga parabola che coincide con lo scioglimento del Pci e che corrisponde all’edificazione dell’Europa liberale. E’ questo che vorrei chiedere ad entrambi i congressi che alla fin fine riuniscono, anche se solo in parte perché molte forze sono ormai fuori, ciò che rimane dei tentativi di resistenza di questi anni: perché siamo a questo punto? C’è nei testi uno sforzo di analisi che pure non mi dà conto fino in fondo dell’inquietudine che provo. Quando ho scritto che lettura delle cose e quadro di prospettiva sono in realtà assai più vicini di quello che si può pensare, l’ho fatto avendo in mente che questo è ancora un portato di quella storia nostra, largamente comune, che pure per tanto tempo ha saputo agire in controtendenza e stare in campo.
La lettura della globalizzazione fu un nostro, parlo della Rifondazione in cui ho militato, tratto originale ed originario. Così come quella dimensione fondante dei movimenti che cambiava le gerarchie stesse della politica; o almeno provava a farlo. E l’idea di una trasformazione che fosse l’inverarsi di una diversità sociale e non di un potere statuale. Tutto ciò dà ancora oggi corpo e linfa ai due testi. Quello che ancora non trovo è una risposta, per me, soddisfacente, alle ragioni di una sconfitta.
Vi dedica molto spazio il testo del Prc ma, sempre per me, con ancora troppi ricorsi a elenchi dettagliati di motivazioni oggettive e soggettive che tutte insieme però non rassicurano. C’è un voler essere partito, che si nutre quasi di un dover essere, che francamente fatica a rispondere al perché questa “generosità” stenti a trovar riscontro in una realtà sociale che sembra non curarsene, che cerca altre strade e che dunque pone domande di fondo, esistenziali. Qualcosa che va oltre il binomio identità e efficacia e che riguarda direttamente forme e sostanza del proprio essere.
Certo, non è facile. E noi ci siamo resi più difficile la vita con quel congresso di Chianciano, di cui porto le mie responsabilità, ma che credo dovrebbe interrogare tutte e tutti noi ancora oggi. Non solo per le scelte fatte, ma per le cose non affrontate, tagliate via, tagliando in realtà noi stessi. Sento invece ancora una rimozione, per alcuni quasi totale. Che non aiuta nessuno, né chi pensa in continuità, né chi mostra di vivere il passato come fardello.
E l’interrogarsi è tanto più sensato se pensiamo che ci sono cose che indicano qualche possibile risposta alla storia fatta con i se. Mi capita ancora spesso ad esempio di incontrare compagne e compagni di Syriza che mi dicono come siano colpiti dalla nostra vicenda anche perché, sostengono, hanno tanto imparato dalla Rifondazione Comunista, in particolare quella di Genova. E cose analoghe, sia pure su terreni diversi, dicono i miei amici della Linke. Tra l’altro sono queste esperienze che non hanno solo un valore in sé, perché lasciano aperto uno spazio di identità, ma tengono aperta anche una prospettiva in termini generali. Anche per questo trovo, non solo per ragioni di appartenenza ma per ragioni politiche, non convincente e non utile alla ricostruzione di un soggetto della sinistra, cui pure fa riferimento il documento di Sel, la scelta di Vendola di aderire al partito socialista europeo sia pure per dialogare con la sinistra europea. Io farei esattamente il contrario per le stesse ragioni che avevo di critica all’idea del gorgo e che oggi sono, come ho provato a scrivere, addirittura aumentate.
Proprio non aver dato corso fino in fondo, come scelta che ridefinisse l’intera Rifondazione Comunista, al progetto di Sinistra Europea mi pare una delle ragioni delle nostre difficoltà e delle nostre sconfitte.
Ecco, ho finito con una cosa mia che vorrebbe essere un contributo. Intanto è tornato un po’ di sole e, forse, è un buon segno. Buoni congressi!
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