di Massimo Serafini - 1 novembre - Convegno di Ancona.
Per inquadrare bene cosa sia stato il Pdup per il Comunismo, la cultura politica che lo caratterizzò, è utile ripartire dall'idea di partito che abbiamo tentato di costruire, prima come Manifesto e poi, nelle sue due versioni, come Pdup. Molti interventi hanno sottolineato ciò che ci differenziò dagli altri gruppi, nati dalle lotte studentesche e operaie del 68 e 69: non abbiamo mai pensato e agito per costruire “il partito dell'insurrezione”, come recitava l'inno di potere operaio. Non ci interessava provocare una scissione del PCI, denunciando il suo tradimento, quasi che la sua linea moderata fosse una colpa e non una strategia da battere. Una scissione avrebbe dato vita ad una forza che si aggiungeva alle altre, che avrebbe inevitabilmente assunto la predicazione rivoluzionaria come asse portante del suo intervento. L'esperienza storica ci ammoniva che su questa strada non saremmo riusciti né a dare una direzione politica ai movimenti, né tantomeno animato l'alternativa di sistema che essi reclamavano. In fondo di questo si trattava: costruire un partito in grado di progettare e realizzare quell'alternativa di sistema che irrompeva sulla scena politica dalle fabbriche, dalle scuole e università , più in generale dalla società. Una domanda che certamente percorreva il mondo, ma che in Italia aveva più possibilità di essere soddisfatta, proprio per lo straordinario accumulo di idee, forze, classi dirigenti che si erano sedimentate nel movimento operaio.
La nostra ambizione era dar vita ad un partito provvisorio, in grado cioè di esaurire la propria esistenza nel momento stesso in cui avesse messo in moto un generale processo di rinnovamento e rifondazione dell'insieme del movimento operaio italiano e in particolare del PCI. Elemento decisivo di questo rinnovamento era riuscire a contaminare il PCI, il PSI e i sindacati con le grandi novità emerse nel 68, innestare cioè nel grande corpo del movimento operaio, la qualità nuova e contro il sistema capitalistico dei movimenti esplosi nel 68-69.
Se questo era il tipo di partito che volevamo costruire, vorrei aggiungere che non siamo mai stati una forza predicatoria, staccata dalle masse, come si diceva una volta. Abbiamo in altre parole sempre affidato le possibilità di rifondare la sinistra ad un nostro ruolo attivo, puntando a realizzare un radicamento nelle lotte operaie e sociali. Senza un insediamento nelle avanguardie operaie, organizzate nei consigli di fabbrica, una capacità di influenzare il corso stesso delle lotte, mi chiedo e vi chiedo come avremmo potuto pensare di rifondare la sinistra politica e sindacale?
Che credibilità avrebbe potuto avere questa parola d'ordine se non fossimo riusciti a conquistare una presenza attiva nei nascenti consigli di fabbrica, nel luogo cioè in cui massima era la contraddizione fra la linea tutta interna al sistema capitalistico del partito comunista ed i contenuti delle lotte operaie e studentesche che invece reclamavano un altro modello di sviluppo e società ? Spesso, mi chiedo, da sessantottino non pentito, che scelse il manifesto e non le altre forze della nuova sinistra, se il nostro gruppo storico avrebbe deciso di fare la Rivista e sfidare il gruppo dirigente del PCI, se il 68 italiano fosse andato come il maggio francese: una straordinaria fiammata spentasi in un mese. Sono convinto che l'intera vicenda del manifesto sarebbe andata diversamente. Senza la capacità di durare del 68 italiano, il suo estendersi alla classe operaia, alimentando lotte di straordinaria qualità, difficilmente compatibili con l'offerta che il sistema era in grado di fornire (non monetizzazione della salute, rifiuto delle gerarchie, autodeterminazione dei ritmi dei tempi di lavoro).
Nessuno del gruppo storico voleva andarsene o pensava di essere cacciato, al contrario in loro c'era la convinzione di poter spostare a sinistra, attraverso una lotta interna, l'asse politico del partito. Neppure dopo essere stati radiati si pensò di organizzare una scissione, ma si puntò sulla costruzione di una forza che lavorava per rifondare il movimento operaio e non per spaccarlo.
Insisto su questo punto perché Lucio, nei colloqui con Aldo e Famiano, ma anche nel Sarto di Ulm, avanza il dubbio di avere dato una lettura eccessivamente ottimista delle lotte del 68 e 69, che forse portò a forzature e causò la conseguente radiazione.
Prendemmo un abbaglio? Non ne sono convinto. Al contrario la sfida lanciata con la rivista al PCI fu una scelta giusta, forse tardiva. Penso cioè che non ci fossero alternative. In poche parole non penso che il nascente Manifesto abbia sottovalutato il limite sindacale e rivendicativo dell'autunno caldo operaio. Al contrario la denuncia di questo limite fu il filo conduttore della rivista e, dopo la radiazione, del nostro intervento operaio. Avere presente quel limite non poteva impedirci di vedere però le grandi possibilità di superarlo che oggettivamente c'erano. Quando l'intera classe operaia rivendica con lotte diffuse l'egualitarismo, sviluppa un diffuso contro potere nell'organizzazione del lavoro capitalistico, organizzandosi in una rete consiliare, come avremmo potuto non pensare alla possibilità concreta di forzare il limite sindacale in cui quei contenuti erano rinchiusi? Per dirla tutta penso che, senza quella forzatura che, insieme alla condanna del socialismo reale, provocò la radiazione, dando vita alla nostra storia, la deriva estremista della nuova sinistra e l'involuzione moderata del partito comunista sarebbero precipitate molto prima.
Fatte queste premesse vengo al tema che mi è stato assegnato e cioè il ruolo delle lotte operaie nella formazione della nostra cultura politica. Penso di poterla ricostruire raccontando tre momenti chiave di questo intervento: quello iniziale nell'autunno caldo e la scelta di puntare su delegati e consigli; i 35 giorni della Fiat; infine la battaglia sulla scala mobile con cui il PdUP concluse la sua esistenza autonoma, confluendo nel partito comunista.
Tutte e tre le vicende hanno segnato profondamente la vita non solo nostra, ma del paese.
Il nascente Manifesto si trasforma da una rivista e un gruppo storico in un movimento politico, radicandosi nelle lotte contrattuali dell'autunno caldo. Non affidammo la possibilità di questo radicamento soffiando, come altri gruppi fecero, sul fuoco dello spontaneismo e della radicalità operaia. Eravamo pienamente consapevoli che l'alternativa di sistema verso cui volevamo indirizzare quelle lotte non poteva realizzarsi alimentando solo la radicalità delle masse che poi una avanguardia illuminata avrebbe sospinto verso la presa del potere. Come ci ricorda Lucio nelle conclusioni del congresso di scioglimento del Manifesto, una alternativa di società non poteva che essere il frutto di una lunga lotta, una conquista di case matte, una formazione di coscienza attraverso cui raccogliere forze, idee, programmi, strutture organizzative, necessarie a prefigurare la nuova società che si voleva costruire. Per questo nell'autunno caldo non ci limitammo a qualificare la piattaforma contrattuale, ma la rivista puntò con forza sullo sviluppo della rete organizzativa che le lotte stavano costruendo: i consigli di fabbrica. E' da questi istituti e dal loro sviluppo che facciamo dipendere, non solo il giudizio sull'esito contrattuale. Siamo anche convinti che la loro diffusione avrebbe aperto spazi nel sindacato e nel partito comunista alla nostra proposta politica. Il nascente Manifesto, grazie a questa scelta, conquista una credibilità non solo nelle forze tradizionali, ma anche in quelle della nuova sinistra.
La lotta contrattuale si conclude con un buon successo e il successivo congresso della FIOM del luglio del 70 non si limita a celebrarlo, ma pone al centro della discussione un profondo rinnovamento del sindacato. Trentin si batté, fra resistenze fortissime della destra sindacale e di quella del PCI, per l'abbandono delle commissioni interne, sostituendole, come struttura di base, con i consigli dei delegati. Lo stesso scontro investì inevitabilmente la FIM e la UILM, dando un impulso formidabile all'unità sindacale, con la creazione della FLM.
Questo esito non era scontato, ma lo si conseguì solo grazie alla pressione della base operaia. Ormai da mesi era pratica diffusa l'elezione dei delegati non in base alla tessera sindacale e tantomeno politica che avevano in tasca, ma per ciò che rappresentavano nel loro reparto. Questa pratica si riversò nel sindacato metalmeccanico e in pochi mesi si estese a tutte le categorie dell'industria. Il Manifesto gioca un ruolo importante in questa battaglia. Non si accontenta della svolta che si sta producendo nel sindacato, ma chiede di più: garantire l'autonomia dei consigli di fabbrica anche dal sindacato. Non è che non capissimo la straordinaria novità rappresentata dalla scelta di Trentin, Carniti e Benvenuto, ma ne coglievamo anche il limite politico. Sindacalizzandosi queste istituzioni operaie più vicine alla spontaneità operaia non avrebbero potuto superare l'orizzonte economicista in cui erano rinchiusi. Ricordo Trentin, infuriato per la nostra mozione, accusare me e Lucio di essere alleati oggettivi della destra sindacale. Era una accusa ingenerosa. Avere fatto crescere quel dibattito sull'autonomia e ruolo dei consigli fece cogliere a molti delegati operai che bisognava superare non solo le commissioni interne, ma anche la separazione delle lotte economiche, ridotte a resistenza, dalle lotte politiche, ridotte a propaganda. Non voglio sopravalutare il nostro ruolo, ma penso che quella battaglia aiutò a dare continuità alle lotte: per tutto il 1971 e buona parte del 1972 la classe operaia sviluppò in tutte le fabbriche lotte articolate, con cui aggredì il cottimo e mise in discussione l'arbitrarietà delle qualifiche, cioè i pilastri su cui reggeva l'organizzazione padronale del lavoro. Certo la difficoltà a muoversi a questo livello, soprattutto la sproporzione fra le forze di cui disponevamo e gli obiettivi che volevamo raggiungere, ci portò a errori importanti. Il più grave fu quello di cercare di rilanciare la battaglia per l'autonomia dei consigli, alleandoci con Potere Operaio e lanciando i comitati politici. Fu un disastro non solo perché in nessuna fabbrica nacque un comitato politico, ma soprattutto perché i nostri operai non la condivisero e alcuni di loro lasciarono il manifesto. Vorrei però ricordare che la nostra storia è sempre stata una storia di accelerazioni, di cui la scelta di fare il quotidiano fu insieme la più positiva e temeraria e i Comitati Politici e le liste nelle elezioni del 1972 le più disastrose.
Voglio però sottolineare i motivi per cui si accelerava. Non era impazienza né solo un generoso tentativo di colmare la sproporzione fra le forze di cui disponevamo e gli obiettivi ambiziosi che volevamo raggiungere. Compivamo scelte temerarie per cercare di rispondere a un problema enorme: senza uno sbocco e una direzione politica capace di garantirlo le lotte che percorrevano il paese potevano rifluire e aprire le porte a una drammatica sconfitta.
Certo dopo le elezioni del 1972 rischiammo di sparire e vorrei ricordare che non riacquistammo credibilità solo per la grande qualità del gruppo storico o per i documenti che mensilmente Lucio sfornava, ma compromettendoci e gettando le poche forze che ci restavano nello scontro contrattuale dell'autunno del 1972. All'assemblea post elezioni che tenemmo nel luglio del 1972 proprio Lucio tenne le conclusioni, a differenza di quanto ricordato da Aldo ieri. Per un'intera notte Luciana ed io lo pregammo di concludere e alla fine accettò. Ci spronò a verificare la nostra esistenza, che le elezioni avevano messo in discussione, nello scontro operaio dell'autunno, scommettendo sulla capacità di questo scontro di rimettere in discussione la svolta a destra prodotta dalle elezioni. Mi pare nel settembre del 72 a Genova fu approvata dopo un'ampia consultazione operaia una piattaforma assai avanzata. Segnalo le 150 ore che furono l'emblema di quello scontro. Per la prima volta una categoria come quella dei metalmeccanici puntava ad una socializzazione delle lotte, considerata elemento decisivo anche per strappare un buon contratto.
E' in quello scontro che prende corpo l'unificazione con quanti avevano nel PsiUP rifiutato dopo la sconfitta elettorale la confluenza nel PCI. Molti parlano di questa scelta come un grave errore da parte del manifesto: troppe erano le cose che ci dividevano (concezione del sindacato, presenza alle elezioni, giudizio sul PCI). Sono al contrario convinto che quello fu il tentativo più serio di costruire una forza con la credibilità e la consistenza sufficiente a praticare una linea insieme unitaria e di lotta con il PCI e il Sindacato e quindi in grado di mettere in crisi la linea del compromesso storico e provocare uno spostamento a sinistra del PCI.
Ci unificavamo nel momento in cui le lotte operaie e sociali avevano messo in crisi gli equilibri di destra emersi dalle elezioni, respinto il tentativo padronale di riprendersi il controllo nelle fabbriche, rimettendo in discussione le conquiste dell'autunno caldo. Non solo, ma davanti alle fabbriche si percepiva una novità positiva: tanti delegati operai, iscritti al partito comunista, cominciavano a rendersi conto che c'era una contraddizione fra le loro richieste e l'impossibilità di essere soddisfatte da una linea come quella del compromesso storico. Soprattutto comincia a farsi strada, in settori consistenti della base comunista l'utilità di una forza non scissionista, ma unitaria capace di spingere il Pci a sinistra. Per il nascente il PdUP per il Comunismo era una grande occasione. Quindi se tanti erano i punti che ci dividevano da Foa e Miniati, eravamo però uniti sui contenuti avanzati delle lotte operaie. Quel progetto per tutto il 1974 e 1975 consolidò un forte radicamento nelle fabbriche, condizionò il dibattito del PCI e soprattutto del sindacato. Infine fummo un interlocutore credibile della crisi della nuova sinistra tanto che la possibilità di coinvolgere altre forze, come Avanguardia Operaia, dentro il progetto furono consistenti. Il vero punto su cui si spezzo l'unità del partito fu proprio lo scontro sulla provvisorietà della forza che volevamo costruire e sulla possibilità di mettere in moto il progetto di rifondazione del partito comunista. Dicendo questo non voglio sostenere che una sopravvivenza del PdUP, grazie a una scelta di maggiore mediazione da parte di Lucio e Rossana, avrebbe impedito la crisi della nuova sinistra, ratificata dalle elezioni del 1976. Tanto meno affermo che l'esito del movimento del 1977 sarebbe stato diverso. La deriva del grosso dell'area di consenso della nuova sinistra verso l'estremismo e in alcuni casi verso il terrorismo erano probabilmente inevitabili. Troppo deboli erano ancora i segnali provenienti dal dibattito del PCI per rendere credibile l'ipotesi della sua rifondazione e spostamento a sinistra. Gli spazi che si erano aperti si chiusero con la scelta di puntare sul listone con Lotta Continua alle elezioni del 1976. Tralascio di parlare del periodo che ci portò al seminario di Bellaria del settembre 1977 e che portò alla rottura con il giornale. Voglio solo dire che quella rottura non fu causata perché qualcuno stava attentando all'autonomia del giornale, ma sul giudizio del movimento del 1977 e la sua non contenibile deriva estremista. Dalle macerie di queste rotture e scissioni nasce il PdUP dell'ultima fase. Un piccolo partito che lotta duramente con quanti teorizzano che ormai ci si muove in un regime DC-PCI, anzi prevede una rapida crisi della linea del compromesso storico. Nella vertenza Fiat, in quei 35 giorni, abbiamo un primo momento di verifica positiva di questa nostra previsione. Vi arriviamo dopo che le elezioni del 1979 hanno premiato il PdUP e definitivamente condannato il progetto di Nuova Sinistra Unita, cioè ciò che era rimasto dei vecchi gruppi. Da quelle elezioni prende però corpo un quadro politico moderato, alimentato dalla degenerazione craxiana che apre, come da noi previsto, nel PCI un duro dibattito fra Berlinguer e la destra comunista. Durante i 35 giorni della Fiat questo dibattito precipita. Noi investiamo con forza su questo scontro.
Il padronato forte dell'equilibrio politico emerso dalle elezioni e incalzato dalla crisi che impone profondi processi di ristrutturazione, ha bisogno, per realizzarli di liquidare il controllo operaio sull'organizzazione del lavoro, in altre parole annientare la rete dei consigli che presente nelle aziende. Lo scontro si gioca nei 35 giorni della FIAT e io penso che noi non abbiamo mai riflettuto abbastanza sullo scontro politico che si aprì nel partito comunista su quella vicenda e sulle opportunità che questo scontro apriva a noi e alla nostra linea.
Sia chiaro non voglio affermare che fummo noi a provocarlo. Da tempo sono convinto che non fu solo la marcia dei quarantamila impiegati e tecnici (erano diecimila scarsi) a spingere la destra sindacale, con il sostegno attivo della destra comunista, a firmare frettolosamente un accordo che aveva il sapore della resa. Sono cioè convinto che ciò che spinse a chiudere quell'accordo fu proprio il comizio di Berlinguer davanti ai cancelli della FIAT che disse con chiarezza che il PCI avrebbe sostenuto l'occupazione della fabbrica e il conseguente sciopero generale a sostegno . Era la linea con cui avevamo caratterizzato la nostra presenza nei 35 giorni. Non a caso i nostri operai, quasi tutti espulsi dalla fabbrica furono fra i protagonisti del voto contrario all'accordo. Due mesi dopo il PdUP tenne un convegno operaio a Torino con cui cercammo di offrire una prospettiva a quanti si erano opposti all'accordo: l'obiettivo era riaprire lo scontro, imponendo almeno una rotazione della cassa integrazione, con cui riportare in fabbrica i delegati espulsi. Il regime DC-PCI era di fatto naufragato nello scontro della Fiat e comincia a prendere corpo uno spostamento a favore dell'alternativa del PCI che si consoliderà nelle successive vicende del terremoto dell'Irpinia dove arrivano oltre ad un volontariato diffuso, migliaia di delegati operai che spingono definitivamente Berlinguer alla scelta dell'alternativa e all'abbandono del compromesso storico.
Il discorso di Salerno di Berlinguer per noi del PdUP è la conferma di una previsione. Ancora una volta però affidiamo la verifica di quanto fosse credibile la svolta del PCI ad uno scontro sociale importantissimo: quello sulla scala mobile.
Il PdUP è una forza modesta, ma credibile, dotata di una presenza parlamentare. Il processo di unificazione con il Movimento Lavoratori per il Socialismo ha funzionato e quindi ci presentiamo a questo appuntamento con un partito in discreta salute. Le confederazioni sindacali avevano presentato alla consultazione, in perfetta continuità con la scelta fatta alla FIAT, una piattaforma sulla scala mobile assai deludente e moderata. Noi siamo fra gli animatori e con noi gran parte dei quadri comunisti dei consigli di fabbrica di una dura e vincente opposizione a questa piattaforma. La consultazione dimostra che avevamo visto giusto: i consigli di fabbrica ritrovano vitalità e in tutte le grandi aziende passano piattaforme alternative a quelle confederali o emendamenti che la stravolgono nei suoi punti essenziali. In tutte le grandi fabbriche la richiesta di sciopero generale `quasi unanime. Per il Pdup non si trattava solo di una verifica positiva della nostra previsione che attorno alla questione del costo del lavoro si sarebbe giocata una partita politica decisiva , ma fu anche la conferma altrettanto positiva della credibilità della scelta decisa da Berlinguer di abbandonare il compromesso con la DC e di schierare il PCI per l'alternativa. E' in questo scontro sociale che prende corpo l'ultimo percorso del Pdup, verso la confluenza.
Forse sottovalutammo l'isolamento di Berlinguer nel suo partito, ma anche nel sindacato e quindi la grande fragilità della svolta. Troppe erano le resistenze nel partito comunista a porre alla base della svolta il progetto che Magri e Napoleoni lanciarono del programma comune della sinistra, sbocco indispensabile per portare al successo la stessa vertenza sul costo del lavoro. A ripensarci avremmo dovuto capirlo quando Berlinguer venne inaspettato al nostro ultimo congresso di Milano prima della confluenza. La sua richiesta di una nostra rapida confluenza era in realtà una domanda di aiuto: la nostra confluenza era indispensabile per rompere l'isolamento in cui la destra del PCI e quella del sindacato stavano ponendo la linea dell'alternativa. Al di là dell'isolamento credo però che non aveva alternative l'accordo elettorale col PCI del 1983 e la successiva confluenza. Credo infatti che non fu un caso che fummo fra i principali animatori di quel 30% che si oppose allo scioglimento del PCI.
Massimo Serafini (Ancona, 31 ottobre - 1 Novembre 2013)
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