di Aldo Garzia - seminario Ancona, 30 nov.-1 dic. 2013
Come metodo espositivo, alternerò ricostruzione degli avvenimenti a considerazioni e giudizi politici.
Dovendo provare a periodizzare in questa comunicazione un punto di avvio, mi è tornata alla mente l’assemblea che come Manifesto tenemmo all’Hotel Parco dei Principi a Roma a fine luglio 1972, dopo lo 0,7% ottenuto nella prova elettorale dove presentammo Pietro Valpreda capolista (“Un prefisso telefonico”, commentò ironico Giancarlo Pajetta). Ho ritrovato le cassette con la registrazione della relazione di Rossana Rossanda in cui si argomenta che le ragioni del Manifesto non erano morte con la sconfitta elettorale. La botta fu comunque tremenda. A quella assemblea non partecipa all’inizio Magri a conferma dello sbandamento nel gruppo dirigente (sarà Rossana a gestire il nostro movimento pure nel 1973).
Oltre all’incauta presentazione elettorale (vi rimando all’ultima intervista di Lucio in cui sostiene che l’alternativa “scheda rossa e contratti” avrebbe significato votare Pci, posizione impopolare tra noi allora), dal 1969 al 1972 avevamo compiuto più di una scelta discutibile rispetto alle idee di partenza del Manifesto. Era rimasto poco dell’idea originaria di fare da “ponte” tra sinistra storica e nuova sinistra per originare un positivo contagio.
Nel 1970 demmo indicazione di astensione nelle prime elezioni in cui si formavano le Regioni (sulla rivista ho riletto un poco convincente articolo a questo proposito), nel 1971 lanciammo l’idea dei Comitati politici con Potere operaio, nei primi anni settanta continuammo a proporre l’unità della sinistra nata nel ’68 (le Tesi “per il comunismo” avevano quell’obiettivo organizzativo); nelle elezioni del 1972 verificammo quanto i gruppi della nuova sinistra fossero restii all’unità: ricevemmo solo l’attenzione della Quarta internazionale di Livio Maitan.
La mia ipotesi è che proprio il risultato delle elezioni del 1972 impone una prima svolta di linea: se si vuole incidere sulla situazione politica, inizia a dire con più forza Magri in accordo con Rossana Rossanda e la maggior parte del gruppo dirigente del Manifesto, occorre costruire una forza politica: un partito, seppure di dimensioni modeste, che abbia un suo solido baricentro politico e non resti in balia degli eventi.
Il Pdup di Vittoria Foa e il Mpl di Giovanni Russo Spena e Giangiacomo Migone, che non erano confluiti nel Pci o nel Psi dopo il fallimento del quorum per entrare alla Camera nel 1972, ci apparvero soggetti a noi più omogenei rispetto ai gruppi post-sessantottini con cui lavorare a un progetto di unità della sinistra che ne presupponeva la ristrutturazione organizzativa e il rinnovamento politico. Foa e Pino Ferraris avevano del resto già collaborato ai primi numeri della rivista mensile.
L’avvio dei rapporti unitari non fu facile. I dissensi non erano di poco conto. S’incentravano sulle radici storiche dei due gruppi a cui richiamarsi (Luigi Pintor insiste su questo punto nel Congresso di scioglimento del Pdup dove parla a nome del Manifesto), sulla strategia consigliare che noi proponiamo al sindacato (il Pdup aveva una sua componente organizzata nella Cgil: Antonio Lettieri, Elio Giovannini, etc.), sulla crisi economica (noi eravamo accusati da Foa di catastrofismo), sul riferimento ideale al comunismo (non potevamo lasciarlo nelle mani di Breznev, disse acutamente Pintor nell’intervento citato), sui rapporti col Pci (all’inizio venimmo criticati per un eccesso di collateralismo, poi le posizioni si ribaltarono tanto da far dire a Magri su Foa: “Che paradosso: nel 1976 con Lotta continua, nel 1989 con Achille Occhetto”).
Magri, che riassume la guida politica del Manifesto nell’autunno del 1973, propone un primo ripensamento strategico al nostro gruppo: occorre dotarsi di un programma politico e di alleanze per affrontare una lunga marcia nella crisi (il dibattito che si svolge sulle pagine del quotidiano intorno a “Crisi e ruolo del riformismo” ci fa uscire dal rischio minoritarismo e parla a una platea più vasta, solo esponenti del Pci non partecipano al confronto).
Il dissenso con gli altri gruppi della nuova sinistra intanto si acuisce. Per noi, come alle origini, il problema non è costruire “il partito della rivoluzione” da contrapporre al Pci, bensì contribuire a un generale rinnovamento della sinistra, compreso il Pci. Su questo, dopo il 1972, avviene una prima correzione di linea rispetto alla pratica dei Centri del Manifesto.
La prima assemblea unitaria tra Manifesto e Pdup si svolge a Firenze nel novembre del 1973, presso il Palazzo dei Congressi. Ho il ricordo di quell’iniziativa come di un match: Lidia Menapace contro Andrea Ranieri sulla scuola (sì o no ai decreti delegati), Luciana Castellina contro Pino Ferraris (sui consigli di fabbrica), etc.
Ad accelerare nonostante tutto i tempi dell’unificazione ci pensano gli avvenimenti politici: il golpe in Cile del settembre 1973 che motiva secondo Enrico Berlinguer la strategia del “compromesso storico” (i famosi tre articoli che escono sul settimanale “Rinascita”), la vittoria del referendum sul divorzio nella primavera del 1974, l’ondata di movimenti post-sessantottini che non si ferma (dal femminismo all’antipsichiatria, da quelli sulla salute a quelli dei consigli di zona) che chiedono risposte politiche mentre il quadro di governo è ingabbiato nel pentapartito guidato da Andreotti.
Dopo che è stato deciso di accelerare l’unificazione Manifesto-Pdup, Magri scrive in due puntate sul quotidiano nel gennaio 1974 il famoso saggio “La qualità nuova della crisi” dove, oltre all’analisi dell’inceppo del sistema capitalistico mondiale, ripropone l’idea gramsciana di transizione che deve assomigliare per durata più alla caduta dell’Impero romano che all’avvento della Rivoluzione francese (quel saggio ha altri meriti teorici, a iniziare dal porre la questione ecologica, che qui non posso analizzare). Foa non apprezza e propone la prospettiva del “governo delle sinistre” che ci trova scettici proprio per quanto siamo andati dicendo su nuovi equilibri politici da determinare come sbocco di una fase di lotte e di conquiste parziali. La scelta, malgrado i dissensi che si verificano nella discussione di quel saggio, è quella di procedere sulla via dell’unificazione. Magri non rinuncia all’idea che si possa formare un partito di dimensioni non minoritarie.
Ho riletto gli atti dei congressi di scioglimento del Manifesto e del Pdup. La relazione e le conclusioni di Magri nel nostro Congresso restano due piattaforme politiche in cui si raccolgono il meglio delle posizioni del Manifesto. L’intervento di Guido Viale, che parla di lotta armata al nostro congresso di scioglimento, segna la rottura politica – almeno da parte nostra – con i gruppi della nuova sinistra. Gli replica Pintor, sempre non tenero con i gruppi del ’68 di cui non sopportava l’ideologismo che guardava al passato: “Anche Stalin sarebbe contento di sapere che i compagni di Lotta continua hanno risolto il problema della rivoluzione in Occidente, mentre noi ci siamo occupati dei problemi della rivoluzione in Tanzania”.
A latere dei due congressi c’è la scelta di Aldo Natoli di abbandonarci. “Temo che l’unificazione si concluderà come un’occasione mancata”, scrive in una lettera dove critica il metodo scelto e segnala il rischio della nascita di un partito tradizionale. Aveva ragione lui? Il dubbio, a tanti anni di distanza, si era insinuato nello stesso Lucio, tanto che lo segnala in una nota ne “Il sarto di Ulm”. Il Manifesto poteva accontentarsi di un quotidiano e di essere luogo di elaborazione prevalentemente teorica? Il nostro itinerario politico sarebbe stato più efficace e meno costellato da dissensi (prima Natoli, poi Pintor, poi ancora Rossanda e Valentino Parlato)?
Nel 1975 le divergenze che fanno da sfondo al processo di unificazione non diminuiscono, si accrescono. Tra le tante iniziative di quell’anno, cito solo il seminario sulla crisi che si svolge ad Ariccia a febbraio: le relazioni di Magri e Foa divergono fortemente. Mentre il primo parla di crisi dello sviluppo capitalistico e della necessità di proporre un’alternativa di modello economico e sociale, il secondo mette in luce i processi di ristrutturazione già in atto che sembrano alludere a una classica crisi di ciclo.
Il luogo dove i contrasti sono poco mediabili è il giornale. Pintor apre il dibattito sull’autonomia e specificità del quotidiano che non può essere ridotto a foglio fiancheggiatore del partito, come chiede la componente filo-Foa (nella redazione sono entrati intanto Ignazio Puleo, Marianella Sclavi, Pino Ferraris; Foa è molto presente alle riunioni di redazione dove si verificò un memorabile scontro tra Pintor e Mario Capanna: “Mario, allora è vero che le Poste non funzionano. Il tuo intervento arrivato oggi sembra datato 1921”).
Convegno su Togliatti a Milano nel maggio 1975, altro episodio di scontro politico. Magri popone la tesi banale che non tutto a sinistra ovviamente nasce nel ’68: segue l’analisi delle origini gramsciane e togliattiane della politica del Pci che hanno reso possibile il peculiare ’68 italiano e la crescita nel dopoguerra del “partito nuovo” che non ha eguali in Occidente. Lucio chiude la sua relazione con un: “Vogliamo conservare qualcosa perché tutto cambi”. Da qui la necessità di rifare i conti con l’analisi dei “Quaderni” di Gramsci e con le politiche di Togliatti.
Le elezioni regionali del giugno 1975 fanno entrare il nuovo Pdup per la prima volta nelle istituzioni. Ma è la forte avanzata elettorale del Pci, che poi verrà confermata nel 1976, a fare problema. Una delegazione del Pdup (con Magri e Pintor) si incontra con una del Pci a Botteghe oscure guidata da Pajetta dopo il voto del 1975 a conferma che il Pdup può interloquire con più forza con l’insieme della sinistra di quanto potesse fare solo Manifesto.
Riesplode nel frattempo il dissenso all’interno del gruppo dirigente nella fase preparatoria del primo Congresso del partito unificato. I punti politici sono sempre gli stessi: la collocazione nella sinistra italiana, il rapporto con la nuova sinistra (il vecchio Pdup ci punta), come arrivare alla prova del governo, le relazioni con il Pci.
Il 19 settembre 1975, Pintor di dimette da direttore del giornale. Magri non lo difende a sufficienza. Nella conversazione con me e Crucianelli glielo ricordiamo: sei stato tentato dallo scambio tra ruolo del giornale e segreteria del Pdup a cui eri candidato.
Pur essendo le Tesi preparatorie un documento unitario che ha raccolto poche critiche, il Congresso che si apre a Bologna a fine gennaio 1976 – ricordo giornate di neve e di freddo non solo politico – è diviso in tre: la componente ex Manifesto 194 voti, quella ex Pdup 181 voti, quella che si raccoglie intorno all’astensione di Pintor 38 voti (tra cui Tommaso Di Francesco e Francesco De Vito). “Un Pintor che si astiene è un Pintor dimezzato”, dirà in modo aspro Rossanda nelle suo intervento conclusivo.
Si traccheggia fino alle elezioni politiche del 1976: in cui noi ex Manifesto subiamo l’accordo elettorale con Lotta Continua (“gli ultimi della lista”) e Avanguardia operaia nel listone denominato Democrazia Proletaria che elegge Lucio Magri, Eliseo Milani, Luciana Castellina, Massimo Gorla, Silverio Corvisieri e Mimmo Pinto (grazie alle dimissioni di Foa). Otteniamo 555 mila voti pari all’1,5%. Il Pci è al 34,4% ma lo sbocco saranno i governi di unità nazionale.
Il risultato del 1976 riapre lo scontro interno: ha senso continuare a perseguire la linea del cartello elettorale tra i cosiddetti “rivoluzionari”? Pci e Dc si metteranno d’accordo per dare vita a una sorta di regime consociativo sul modello di quanto era accaduto in Germania alla fine degli Sessanta con la “grande coalizione” guidata da Willy Brandt?
Il gruppo parlamentare si divide: Milani non ne riconosce la disciplina, Corvisieri in una prima fase evoca una costituente dal basso per avviare la costruzione di Dp in partito e poi si avvicinerà al Pci. Le divisioni sono trasversali: un gruppo, guidato da Aurelio Campi, rompe intanto con la maggioranza di Avanguardia operaia e si avvicina alla componente Manifesto (Vincenzo Vita, Giovanni Lanzone, Pier Scolari, Osman Mancini).
La rottura del nuovo Pdup si sancisce nel febbraio 1977, in un comitato centrale che si tiene all’Hotel Universo a Roma. Titola efficacemente il manifesto l’1 marzo 1977: “Il Pdup si è diviso su ruolo e linea del partito da costruire a sinistra del Pci”.
Prima di procedere nella ricostruzione, occorre rispondere a qualche quesito: il tentativo di unificazione aveva senso? perché è andato rapidamente in frantumi? Sul primo interrogativo, penso che quel tentativo resti l’unico sforzo di tradurre in soggettività politica i movimenti del ’68-’69 e di fare argine all’estremismo che porterà componenti di quel movimento a scegliere il terrorismo. Quel tentativo ha fatto maturare una nuova generazione politica dimostrando sul campo che la politica è strategia, tattica, rapporti, egemonia, idealità, valori e che l’ora X o l’assalto al Palazzo d’Inverno sono illusioni. Migliaia di quadri cresciuti nel Manifesto-Pdup hanno inoltre arricchito le varie componenti della sinistra, dopo aver avuto un ruolo nei movimenti di quegli anni.
Gli errori sono stati – come riconosce Magri nella sua ultima intervista – l’impazienza politico-intellettuale (è stato un nostro tratto specifico negativo) e la scarsa capacità di ascolto reciproco tra le componenti che diedero forma al Pdup per il comunismo. Negli ultimi mesi di vita, Magri aveva un assillo politico su cui si interrogava (so di ripetuti incontri con Russo Spena a questo proposito): se fossimo arrivati al 1980, quando si sbriciola la strategia del “compromesso storico” e Berlinguer accenna a una nuova politica, con un partito di consistenti dimensioni e dotato di rappresentanza nel sindacato, con un giornale rappresentativo della nostra politica forse sarebbe andata diversamente la vicenda dell’autoscioglimento del Pci e di costruzione di Rifondazione comunista.
Su ciò che accade dopo il 1976 posso andare più rapido, perché la periodizzazione 1978-1984 è quella scelta da Latini e Calzolaio per il proprio libro.
Nei primi giorni di aprile del 1977 si tiene un seminario a Rimini dove Magri pone con forza il tema della fine dell’unificazione della nuova sinistra come ipotesi politica (“Non credo più all’ipotesi che ha caratterizzato la vita del Manifesto: quello dell’aggregazione della nuova sinistra”, dice in quella occasione) e quello della critica alla scelta del Pci di dare via libera con la propria astensione al governo di unità nazionale presieduto da Andreotti.
Pur confermando le distanze strategiche dal Pci, Lucio pone in particolare il tema del programma comune delle sinistre come era avvenuto in Francia nel 1972 intorno alla candidatura a presidente di François Mitterrand. Poi elenca i punti del possibile programma: patrimoniale sul reddito e i grandi patrimoni, piani di settore per una riconversione economica con garanzie sull’occupazione, controllo sulle ristrutturazioni produttive, piano straordinario di edilizia.
A far discutere è pure il giudizio sul “movimento del ‘77”. Magri ne mette in luce i limiti e i pericoli: non è una riedizione del ’68. “Non si può rimanere nella cosiddetta area della rivoluzione”, continua Lucio nella sua relazione.
E’ proprio in quel seminario del 1977 che per la prima volta affiora il dissenso tra Magri e Rossanda. Rossana non è d’accordo con lo spostare l’asse della nostra azione verso una maggiore interlocuzione con il Pci nella prospettiva politica di un governo delle sinistre. Sul movimento del ’77 – pur condividendo l’analisi di Magri sui suoi limiti – Rossana non vuole rinunciare al dialogo pena il rischio, dice, di regalare al massimalismo tutto ciò che quel movimento esprime.
Magri è in minoranza in quel seminario. Come era avvenuto nel 1972, è tentato di abbandonare il ruolo di segretario per dedicarsi alla fattura di un mensile teorico. Il chiarimento definitivo arriva nel seminario di Bellaria del settembre 1977. In quella occasione Magri ripropone con più forza e con più dovizia di argomenti quanto aveva sostenuto a Rimini. Per la prima volta parla di un Pdup “a tempo” che trova il suo destino nell’obiettivo di cambiare l’insieme della sinistra, assumendo il Pci come interlocutore decisivo. Dichiara Rossanda in quella occasione: “Nel Pdup unificato ci siamo mossi come componente Manifesto. Abbiamo finito per non discutere tra noi. Ora ci troviamo su posizioni diverse. Non credo all’ipotesi di darsi per traguardo un partito unico rifondato, il cui asse è il Pci luogo indubbiamente privilegiato della memoria del movimento operaio italiano”.
A ottobre Magri apre con un saggio sul quotidiano il confronto sul programma delle sinistre che deve avere “un’ottica di governo” (interviene Giorgio Napolitano, ma è con Riccardo Lombardi che c’è più assonanza). Al Congresso di Viareggio del 1978 del Pdup si va con documenti distinti: quello di Magri, Milani, Castellina, Menapace e quello di Rossanda, Campi, Parlato.
Il giornale aveva intanto annunciato unilateralmente la propria autonomia dal Pdup con un comunicato pubblicato il 4 aprile 1978. Nel novembre del 1978, a Viareggio, si consuma definitivamente la rottura tra giornale partito. La maggioranza dei delegati vota la relazione di Castellina ma il giornale non tiene in alcun conto delle conclusioni del Congresso.
Alle elezioni politiche del 3 giugno 1979 il Pdup si gioca tutto: si presenta in accordo con il Movimento lavoratori per il socialismo, con il quale nei mesi precedenti si era avviato un proficuo rapporto politico intorno all’idea “unità della sinistra e programma comune per costruire l’alternativa alla Dc”. Alla nostra sinistra c’è la lista Nuova sinistra unita (ex Dp, Foa, ecc.). “il manifesto” quotidiano opterà per un generico voto a sinistra. Il quorum raggiunto a Milano premia il rapporto con l’Mls insieme alla scommessa di aver assunto una posizione critica nei confronti dei governi di solidarietà nazionale puntando alla ricomposizione unitaria della sinistra.
Sul rapimento Moro (trattativa-non trattativa), sugli “anni di piombo” e sul craxismo le divergenze con il giornale crescono via via. Il 2 aprile 1978 Rossanda scrive un articolo sul terrorismo dal titolo “Album di famiglia”. L’articolo “Chi ha paura di Bettino Craxi?” di Pintor è del settembre 1978. Nelle pagine culturali del giornale si fanno gli osanna a quel Silvio Berlusconi che con le sue tv private sta sprovincializzando la televisione italiana e l’immaginario nazionalpopolare. La rottura tra Magri e Rossanda è la rottura del tandem politico-culturale che aveva assicurato l’identità del Manifesto.
Magri replica con l’iniziativa della formazione del Centro per l’unità della sinistra che ha per base un articolo scritto con Claudio Napoleoni su “Repubblica” (9 settembre 1978) e poi un convegno che servirà a ritematizzare il “caso italiano”. Dal Centro Magri-Napoleoni prende forma il mensile “Pace e guerra” (diretto da Luciana Castellina, Claudio Napoleoni e Stefano Rodotà) che avrà nell’ultimo periodo della sua pubblicazione una edizione settimanale diretta da Michelangelo Notarianni.
Noi Pdup per il comunismo lavoriamo in quella fase soprattutto all’appuntamento con la fine della strategia del “compromesso storico” che avviene nel novembre 1980, con il discorso a Salerno di Enrico Berlinguer che avvia la ricerca di una nuova strategia e tenta la riforma del partito intorno alla questione morale come leva. Su quell’appuntamento Magri e molti di noi avevamo scommesso nel Seminario di Bellaria.
Con l’ingresso nel Pci datato 1984, pochi mesi prima della morte di Berlinguer, inizia un’altra storia a cui chissà dovremmo dedicare un altro seminario come quello di oggi. Lucio era convinto che la collaborazione con il “secondo Berlinguer”, se non fosse morto prematuramente, avrebbe comportato quel rinnovamento del Pci che chiedevamo fin dalle origini del Manifesto.
Chiudo con una citazione di Lucio che prendo dall’intervista mia e di Crucianelli: “Pensate alla sfiga dei comunisti: muoiono tutti – Gramsci, Togliatti, Berlinguer, Andropov – proprio quando diventano più intelligenti. Ci deve essere un diavolo da qualche parte che, quando un leader comunista diventa pieno di consapevolezza e intelligenza, interviene”.
Aldo Garzia
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