MANTINI
ANNA MARIA
Sulla morte di Anna Maria Mantini si possono scrivere tante cose. Si può ricordare la condizione operaia e di povertà della sua famiglia, provare a immaginare l'itinerario culturale suo e del fratello ucciso, vedere questa morte violenta come una tragedia personale in più, in un mondo arido e ostile.
Si possono ripetere considerazioni di maniera su questi nuclei sparsi di rivolta, sul miscuglio di disperazione, ingenuità e anche crudeltà che vi fa da sfondo, sull'uso politico torbido che ne fa il potere.
Si può smontare pezzo per pezzo la misera versione di polizia, l'immagine di questa ragazza che ha insieme la forza e il tempo di bloccare una porta e di afferrare un'arma, contro una folla di agenti che da lunghe ore la tengono in pugno, e uno di loro che non sa maneggiare una pistola senza sparare.
Si può facilmente inquadrare questo assassinio a freddo nella legislazione freschissima che questi metodi autorizza e favorisce, nella filosofia dell'ordine e dello stato imbecille - neppure forte - che continua a fiorire negli stati maggiori dei partiti al potere, nei ministeri, nelle aule giudiziarie o nelle caserme. Ma a tutto questo siamo abituati, alimenta la nostra polemica quotidiana contro un ordine di cose insopportabile, condannato solo venti giorni fa da una grande maggioranza del paese.
Nell'assassinio di Anna Maria Mantini ci colpiscono però altre due cose in certo modo nuove, che intrecciate insieme fanno rabbrividire, come indice di una bestialità pura e gratuita. Non c'era un conflitto a fuoco, non c'era il clima di uno scontro di strada, c'era una ragazza con un armamentario da piccola cronaca, c'era una operazione di polizia che poteva semmai giovare a indagini meno superficiali di quelle che conosciamo.
Quale valutazione della vita altrui, e anche della propria, spinge un uomo, non dico un uomo di legge, a sbrigarsela con una revolverata in faccia?
Chi ha deciso di muoversi in un simile modo, come in un film da quattro soldi? Quale concezione della violenza aleggia nell'aria, là dove si esercita il potere, se arriva a tradursi in queste forme sbrigative da bassifondi? Come è possibile una mentalità "pubblica", statale, che condanna un sergente che non vuole essere fotografato, che destituisce un commissario che scrive una lettera, e poi corrompe gli individui e i corpi di cui si serve assimilandoli, nell'istinto e nel comportamento, agli abitudinari di mattatoi e cimiteri?
"Una nappista armata si ribella all'arresto. L'agente spara. Uccisa" Questo è il titolo squillante di un giornale di stato, naturalmente con la fotografia della "vittima", che vittima tuttavia non è, ma criminale giustiziata, e la fotografia "americana" del pavimento maiolicato e insanguinato.
Questo è lo stile, per così dire culturalmente neutro com'è quello delle questure, più o meno di tutta la nostra stampa. E questa è la seconda "novità" che fa rabbrividire. Perché in questo caso non è neppure la cupidigia antiestremista, ormai elettoralmente inutile, a ispirare questi operatori culturali. E' una volgarità e una insensibilità automatica, l'adesione alla "legalità" del fatto di sangue se promana dal potere costituito, l'indifferenza per la vita di chiunque se fa ostacolo agli automatismi della repressione, neppure condivisi ma "respirati" come valore superiore. Con una eccezione peggiore della regola, questa volta, quella di un giornale che dietro questa vicenda così odiosamente limpida sospetta con scrupolo una "mezza verità", e ne fa con raffinatezza questione di "stile di comando".
E' vero, bravi, non è questione di rivoluzione culturale nella nostra società e nel nostro stato. Neppure di mutamento politico. Al massimo è questione di buon governo, di buon comando. Anche per uccidere ci vuole, ecco, un altro stile.
(10 luglio 1975)
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Note:
Anna Maria Mantini è stata una terrorista italiana degli anni di piombo. Fu una militante dei Nuclei Armati Proletari, uccisa a Roma all'età di 22 anni in una retata della squadra antiterrorismo. Era la sorella di Luca Mantini, militante dei NAP ucciso dalla polizia nel 1974 durante una tentata rapina di autofinanziamento a Firenze.
Dopo la morte del fratello Annamaria, ragazza scout cattolica di 21 anni, entrò a far parte dei NAP. Fu tra i fondatori del Nucleo Armato 29 ottobre (in memoria della data dell'uccisione del fratello), organizzatore del sequestro del giudice Giuseppe Di Gennaro. Il gruppo eversivo dei NAP non aveva però ancora commesso omicidi nel periodo in cui Annamaria vi militò.
Nel luglio 1975 l'appartamento della ragazza a Tor di Quinto a Roma, fu scoperto da una squadra dell'antiterrorismo guidata dal questore Emilio Santillo. Tra il 7 e l'8 luglio cinque poliziotti si appostarono sul pianerottolo interno della casa per un giorno e mezzo, in attesa del rientro della ragazza. Al ritorno, mentre apriva la porta, la militante nappista venne uccisa con un colpo di pistola alla fronte, esploso da distanza ravvicinata in circostanze non chiarite, dal vicebrigadiere Antonino Tuzzolino.
La versione fornita dalla squadra speciale fu che il colpo era partito per un tragico errore, a causa di un urto del battente della porta che si apriva sulla mano del vicebrigadiere. Tuzzolino venne poi ferito 7 mesi dopo per rappresaglia, rimanendo paralizzato, il 9 febbraio 1976 dal "Nucleo Armato 29 ottobre" dei NAP.
A nome di Anna Maria verrà intitolata la colonna napoletana dei Nuclei Armati Proletari detta "Nucleo Armato Annamaria Mantini" (da Wikipedia)
Luca Mantini fratello di Anna Maria
Il corpo di Anna Maria Mantini
Il materiale trovato nel fatidico covo
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