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IL PAZZO

IN CASA

 

 

 

 

 

La situazione è straordinaria. Non es­sendo nato ad Ajaccio, non discen­dendo dall'ultimo Vittorio Emanuele nonostante alcune affinità, non riu­scendo a diventare capo dello Stato con i voti di nessuno, l'on. Fanfani ha inventato una nuova forma di reggen­za, autoinvestendosi candidato unico a vita al Quirinale. In questo modo, sta creando eccellenti condizioni per pre­cludere al suo partito ogni via d'uscita, per tagliar la strada a ogni concorrente democristiano, per far perdere alla Dc la battaglia e la poltrona del Quirinale.

Muoia Sansone con tutti i filistei. La Dc ha il pazzo in casa, e dopo averlo sguinzagliato contro gli altri, se lo ri­trova addosso e non sa come legarlo. Ora si vede che la nostra « antologia fanfaniana » non riguardava un lontano passato ma il presente.

Questo Fanfani sapeva il fatto suo, quando scriveva che « con la marcia su Roma del 1922, al governo di popolo si sostituì in Ita­lia il governo di un capo; e con l'av­vento del fascismo, stroncata l'onnipo­tenza parlamentare, la funzione legi­slativa rientrò nei suoi giusti e primi­tivi limiti segnati dallo Statuto ».

Que­sto è il tipo di marcia che sta facendo fare ai suoi 400 grandi elettori, impo­nendo la diserzione dal voto. Sapeva il fatto suo, quando scriveva che « am­messa l'origine divina dell'autorità, è legittimato il potere di comandare da parte dell'investito e il dovere di ubbi­dire da parte degli altri ».

Questa è precisamente la megalomania che lo sta portando a paralizzare ogni cosa in nome di se stesso. Non c'è da scher­zare. Ieri ha dichiarato alla Stampa di non essere uomo da fermarsi a mezza strada. Ha aggiunto a proposito dei voti fascisti, trasformati ora in asten­sione per concorrere alla paralisi isti­tuzionale, che « non bisogna mai do­mandare agli uomini da dove vengono ma dove vanno. Se qualcuno ti si af­fianca per accompagnarti verso la meta che ti sei ragionevolmente ed in co­scienza prefisso, accettalo come com­pagno di strada ed anzi bada che non abbia a smarrirsi ». Ha parlato del trauma di una scarpetta persa da bam­bino durante una gara, una scarpetta che da grande non vuol più perdere.

Ma il suo non è un caso patologico, è un caso politico: se è vero, come è vero, che ha espresso alla direzione della Dc l'opinione che è meglio per­dere oggi il Quirinale per vincere do­mani in un nuovo 18 aprile (o con un colpo di stato) sotto le sue personali bandiere. 

Che cosa ha in mente? Conta di im­pedire alla stessa segreteria e ai gruppi democristiani un ritiro della sua can­didatura. Conta di impedire in aula, col metodo dell'astensione permanente, una fuga di voti che lo umili. Conta di impedire, con la complicità della de­stra liberale, una candidatura laica vin­cente. Con quale scopo? Non più di farsi eleggere, giacché solo un'assemblea di suicidi potrebbe ormai conferire i pieni poteri a uno realmente convinto della superiorità etnica dei brevilinei.

Ma con lo scopo di determinare uno stato di emergenza non solo per il presente ma per l'avvenire, in cui le fortune del suo partito e soprattutto quelle della reazione italiana si identifichino con la persona. "Bisogna che tutti si rendano conto che un'apparente vittoria di oggi - dice il forsennato - può significare per il partito una più grande sconfitta domani".

Benissimo,  dunque. Il fatto che la Dc abbia il pazzo in casa e abbia puntato su di lui ne accentua la crisi, l'ha isolata,  ne sta facendo maturare le divisioni. Se resterà prigioniera del megalomane, perderà il Quirinale.

 

(18 dicembre 1971) 



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