STAGNAZIONE SECOLARE
di Valentino Parlato – 15 giugno 2015
“A sette anni dall’inizio della grande recessione, si confermano le sue origini strutturali maturate nel precedente trentennio”. Inizia cosi IL RAPPORTO SULLO STATO SOCIALE 2015 della Sapienza, curato da Felice Roberto Pizzuti. Si tratta di un volumone di 480 pagine, che analizza lo stato dell’economia e della società e ci spiega che siamo ancora in seria crisi e avanza l’ipotesi che siamo all’inizio di una “stagnazione secolare”. La prospettiva sarebbe assolutamente preoccupante. Va aggiunto che sull’aggravamento della attuale crisi si è concentrata l’attenzione della decima edizione del Festival dell’Economia di Trento dove sulla argomentata tesi del Nobel Stiglitz a proposito della crescita delle diseguaglianze in una economia ferma, c’è stata la convergenza di quasi tutti gli altri interventi, anche degli italiani, come Tito Boeri e altri. I mercati, senza i vincoli della politica, hanno prodotto (cito sempre il Rapporto) una crisi epocale di dimensioni simili a quella del 1929 che si concluse con la seconda guerra mondiale. I sintomi di possibile ripresa che vengono segnalati sono ancora frammentari, deboli. Non sono di svolta.
Da questo quadro emerge il fondato timore della “stagnazione secolare” già, a suo tempo, avanzata da Alvin Hansen di fronte alla grande depressione degli anni “30, che Roosevelt tentò di fronteggiare con l’intervento pubblico del new deal e che si risolse solo con la guerra. E che, non va trascurato, in Europa portò a fascismo e nazismo. Il timore di questa possibile stagnazione secolare si basa sui dati di fatto imputabili a cause di lungo periodo come il calo della crescita demografica in atto anche nei paesi emergenti e la loro difficoltà a far crescere la domanda. Altre cause vengono individuate nella crescita dei servizi rispetto alla produzione e alla difficoltà di valersi del progresso tecnico in questo campo (il cosiddetto morbo di Baumol). Nello stesso senso agiscono altri fattori come la traslazione degli effetti della crisi dalle imprese ai dipendenti, con effetti immediati sulla domanda. Pesa anche il rallentarsi nella globalizzazione della spinta dei paesi emergenti: anche la straordinaria crescita della favolosa Cina comincia a essere in calo.
In questa situazione occorre chiedersi se le due grandi crisi: quella del 1929 e quella attuale appartengano alla fisiologia della crescita del sistema capitalistico o siano, invece, segni di una stanchezza finale o semifinale del sistema. Si potrebbe concludere con la solita frase: “ai posteri l’ardua sentenza”, ma sarebbe troppo facile. Bisogna continuare a cercare, ma mi pare inevitabile una discussione sulle cure: tutto il contrario del famoso e salutare new deal. Oggi l’attenzione si concentra sul debito: il debito cresce più del Pil e, quindi, bisogna risparmiare. E l’unione monetaria rafforza l’obbligo. Siamo al paradosso: le attività produttive cessano per scarsità di domanda e l’obbligo primario è quello di spendere di meno. Su tutto questo agisce, e in modo fortemente negativo la finanziarizzazione dell’economia. Si possono fare soldi con i soldi prescindendo dalle merci e dal lavoro e questo accresce la divaricazione tra chi ha denaro e consuma al solito e chi non ha denaro e consuma di meno o addirittura cessa di consumare. Ed è questa la stagione che stiamo vivendo; quella della crescente divaricazione tra cittadini poveri e cittadini ricchi, mettendo nel secchio della spazzatura i diritti del cittadino sanciti dalla Costituzione.
Siamo in questa situazione e non solo noi italiani, ma tutti coloro che – volenti o nolenti – vivono nell’area capitalistica ( compresa la Russia che subisce le sanzioni dell’Occidente). Vogliamo correre il rischio di una terza guerra mondiale, anche nucleare? Per evitarla dobbiamo sapere e far saper che il pericolo c’è e dobbiamo impegnarci a cambiare politica. Per l’Italia come per gli altri paesi d’Europa (specie del Sud) il pericolo di finire come la Grecia c’è, e pesante. E qui, di fronte a questa crisi ha un ruolo primario la politica che oggi è assai debole e confusa. I nostri politici farebbero bene a guardare all’Italia, ma seriamente, non per inseguire fortune personali, e soprattutto debbono avere grande attenzione all’Europa e al mondo. Tentare di aggiustare i conti di casa quando incombe il terremoto è quasi suicida. Cerchiamo di capire noi e di far capire agli altri che mettere il problema del debito al centro delle nostre attenzioni è sbagliato. Se pensiamo a guadagnare, forse, poi, pagheremo anche il debito, ma non mettiamolo al primo posto. Rendiamoci conto che incombe una recessione secolare e che anche il capitalismo, con tutti i suoi meriti, non è eterno, ma – stando così le cose – il suo tramonto non sarà un pranzo di gala.
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