DOPO IL “SOCIALISMO DI STATO”,
VERSO LA TRANSIZIONE POST-CAPITALISTICA
di Giacomo Casarino - Genova
“E’ davvero finito il comunismo ?”: un quesito drastico, a risposta chiusa (sì/no), una domanda apparentemente monistica che rischia di confondere il piano di un’intuizione “desiderante” con quello di un ragionamento articolato e motivatamente fondato, dotato comunque della forte virtù del dubbio.
Dovendo parlare di comunismo, delle possibilità di futuro del comunismo, occorre tendere a comprendere il vasto mondo (non solo geografico), congiungere l’interpretazione del passato ai probabili (forse anche opposti) scenari che il futuro ci potrà riservare. Da questo punto di vista, io vorrei isolare e mettere a fuoco per sommi e parziali capi, non esaustivi evidentemente: 1) l’analisi del “socialismo reale” e il fallimento del Partito-Stato, sia pure evidenziando, come si vedrà, una sola ma generale causalità, per di più di carattere “sovrastrutturale”; 2) una ricognizione dei problemi e l’individuazione di alcuni obiettivi di lotta che condizionano, a partire dall’attuale crisi sistemica, la possibilità di una transizione ad una società ALTRA.
1) Partiamo dunque dal passato recente. All’indomani della caduta, uno dopo l’altro dei regimi europei del “socialismo reale”, Paul Sweezy ebbe a dichiarare che si trattava di un “incidente di percorso”. La mia scarsa memoria mi costringe, purtroppo, a non poter richiamare la fonte attraverso la quale contestualizzare quest’ affermazione, ma il significato mi pare chiaro: si è inceppata una continuità, forse si è subita una temporanea regressione, ma il percorso resta tracciato. Vale a dire che i “fondamentali” teorici e pratici di quella secolare esperienza di “partito/ rivoluzione che si sono fatti Stato” restano validi, possono essere recuperati e, tutt’al più, aggiornati.
E’ pur vero che un giudizio opposto, liquidatorio di tutta l’esperienza del “socialismo reale”, può apparire altrettanto avventato, se consideriamo che i poco più di vent’anni trascorsi da allora (1989-91) ad oggi si collocano a mala pena, come scansione temporale, nella dimensione braudeliana della “congiuntura”, non certo in quella di una “struttura” consolidata, e dunque vanno valutati con tutte le cautele del caso.
E purtuttavia va detto che l‘istintiva nostalghia, così diffusa (forse maggioritaria) in tanti Paesi dell’Est, soprattutto nei ceti popolari, pur motivata dalle deprivazioni materiali e dalla precarietà esistenziale apportata dall’avvento di un mercato pervasivo e selvaggio, non implica la possibilità (e neppure la desiderabilità) nell’attuale contesto mondiale della restaurazione di “società chiuse” statu quo ante.
Comunque, a me pare che un giudizio storico si possa a questo punto formulare, e cioè che la discontinuità (società della comunicazione, capitalismo cognitivo, bioeconomia[i] ecc.) che viviamo e che ci si prospetta vieppiù in progress lungo il XXI secolo, ricollochi e ricacci all’indietro il mito che si vuole perpetuamente fondante della Rivoluzione d’Ottobre, prendendo in considerazione anche il giudizio, che qualcuno si è spinto a formulare nei suoi confronti, come dell’ultima rivoluzione ottocentesca.
Non pochi analisti concordano con la tesi secondo la quale la concezione leniniana del partito, guidato dalla “coscienza esterna” espressa dell’élite, col suo rifarsi esplicito ad un certo giacobinismo, ha avuto la meglio sull’idea libertaria dell’autogoverno. Sperimentandosi sul terreno dell’arretratezza russa (ma poi assolutizzandosi come modello universale), essa ha posto oggettivamente le premesse, non già della transizione al comunismo e dell’estinzione dello Stato (che lo stesso Lenin aveva teorizzato), ma, con la vittoria dello stalinismo, ha gettato le basi della confisca dei mezzi di produzione, nominalmente “liberati” dalla Rivoluzione, consegnati viceversa ad un Imprenditore unico (e pianificatore centralizzato) in capo al Partito-Stato, il PCUS[ii] .
Un capitalismo molto sui generis, che mutuava dall’Occidente i modelli organizzativi della produzione: si crede ancora oggi che questa fosse una scelta obbligata, ma il dubbio al riguardo credo sia lecito. Le conseguenze del combinato disposto di un Partito-Stato sempre più irrigidito nel suo autoreferenziale centralismo e della replica in chiave “socialista” dell’”accumulazione originaria”, tutta a danno delle campagne, sono state la rottura dell’alleanza operai-contadini e il precoce svuotamento dei soviet. Il che ha comportato una gestione burocratica dall’alto che si è tradotta nei decenni in una progressiva spoliticizzazione delle masse: tutto l’opposto della socializzazione del potere.
Si è giunti ad affermare nella vulgata marxista (Accademia delle Scienze dell’URSS, 1954) che con la conquista del potere la proprietà di Stato diveniva automaticamente proprietà sociale, quindi “proprietà di Stato socialista”, e che da essa derivavano rapporti di produzione ugualmente socialisti: un’affermazione azzardata dal punto di vista teorico, che gode ancora oggi di credito presso molte formazioni comuniste e presso intellettuali marxisti: come se la statalizzazione della proprietà privata corrispondesse necessariamente alla sua socializzazione.
Possiamo dire che, tolto il tentativo maoista, non ci saranno regimi convenzionalmente definiti comunisti che, a meno di mettere a rischio la propria sopravvivenza al potere, si sottrarranno a questo modello, che sostituisce alla dittatura del proletariato in senso marxiano la soppressione delle minoranze ed una pratica ferocemente arbitraria e poliziesca.
La codificazione in un corpus ideologico compatto del cosiddetto marxismo-leninismo fa ostacolo ad una “conoscenza concreta delle situazioni concrete”, frappone un solco incolmabile tra sé e la realtà sociale effettuale e quindi è costretto ad eludere il problema del consenso, ricorrendo perfino agli strumenti di un novello Terrore.
Il caso cinese, poi, è oltremodo eloquente, credo al di là di ogni possibile immaginazione da parte dei nostri classici: una “economia sociale di mercato” (bell’ossimoro!) “con caratteristiche cinesi”: il paradosso è quello di un Partito Comunista che affida allo sviluppo delle forze produttive, allo sfruttamento estensivo del lavoro, all’apertura alla proprietà privata e ai capitali stranieri, e persino alla formazione di una sorta di imperialismo, la costruzione di una “nuova società”, sotto il tallone di ferro di una durissima gestione autoritaria del potere.
Insomma, le varianti nell’”edificazione del socialismo” in cui si è concretizzata l’eredità della Terza Internazionale hanno condotto ovunque ad uno stop, ad un blocco, che ha prodotto una restaurazione, parziale o totale, del capitalismo (privato). Il che significa che esperienze nate storicamente in situazioni storico-geografiche diversissime hanno portato a esiti simili, in ogni continente e latitudine, “transizioni alla rovescia”.
Si è predicato bene e si è razzolato male? E quindi la teoria resta valida nella sua verità di fondo? Si tratta di adattarla, di adeguarla alle mutate condizioni storiche? Io penso di no, che dobbiamo finirla con l’autoingannarci (lo dico non tanto alla nostra cerchia, ma a quanto resta del popolo comunista) in senso fideistico e autoconsolatorio. La distinzione di cui sopra, pratica “cattiva” vs. teoria probabilmente “buona”, non serve, tra l’altro, a resistere e a vincere sulla rimozione e sul rigetto neoliberale, in Italia conclusivamente espressi dal PD.
Credo che sia valsa la pena di richiamare elaborate concezioni elaborate in passato, che non sono affatto superate, bensì confermate nel corso degli ultimi cinquant’anni. Tuttavia, noi Manifesto, come altre formazioni similari anche a livello internazionale, siamo sfuggiti, non siamo stati in grado di rispondere alla domanda del COME sia potuto succedere e del SE si possa concepire e praticare un comunismo libertario.
Sul COME, sempre limitando lo sguardo al cinquantennio che ci sta alle spalle, dagli anni ’60 in poi, credo - è una mia personale ipotesi - che UNA causa comune, una tra altre nei vari contesti, e che non è venuta meno con la negazione ufficiale dello stalinismo, consista nella mancata laicizzazione dei partiti comunisti a partire da quelli al potere, da identità “sacrale” e monolitica in cui erano venuti trasformandosi tanto in Oriente, quanto, di riflesso, in Occidente.
Una connotazione “salvifica” del movimento comunista, alla stregua delle concezioni finalistico-religiose, destinata a tramutarsi inesorabilmente in intolleranza nei confronti di deviazioni ideologiche, pretese “impurità” di volta in volta da espellere, tanto più impellenti quanto più il sentiero della salvezza si è ritenuto stretto (“la rivoluzione non è Prospettiva Newskj”). Dunque, il lato sovrastrutturale dell’irriformabilità del “socialismo reale”. Il tutto sotto la sigla, bugiarda, del “centralismo democratico”, eredità permanente, a ben vedere, del bando del frazionismo nel PC(b) sovietico all’inizio degli anni venti.
2)Tutto questo è oggi archeologia politica? Non credo, ricordiamoci che abbiamo a che soffrire “dai vivi e dai morti”.
Al contrario, dobbiamo persuaderci che, quali che siano le ulteriori metamorfosi del capitalismo nei prossimi decenni intese a sfuggire al suo inesorabile declino[iii], occorre uscire (e si può da sinistra uscire) dalla vulgata leninista, che esalta la conquista del potere quale snodo ineluttabile, prima tappa per avviare SOLTANTO DOPO la costruzione del socialismo: “Prendiamo il potere, poi per decreto avviamo la costruzione del socialismo”: (estremizzo, evidentemente), senza tener conto che il “feto” del comunismo cresce in modo molecolare nelle viscere del capitalismo.
Il pensiero gramsciano ci orienta in una precisa direzione. Le casematte da conquistare possono essere costituite da diffuse esperienze di massa di democrazia diretta e di autogestione, che puntano a forzare, se non travalicare, le categorie giuridico-proprietarie borghesi e, in qualche modo, a istituzionalizzarsi (proprietà comune), prefigurando il superamento della falsa antinomia (dal punto di vista della rivoluzione comunista) tra proprietà privata e proprietà pubblica. In questo quadro rientra la creazione di un sistema a vera “economia mista” fondato sulla “coesistenza competitiva tra due sistemi di produzione e di consumo, affiancando a quello capitalistico, basato sulla ottimizzazione del profitto, un altro basato sulla ottimizzazione del lavoro” (Nino Lisi, in questo stesso dibattito): questo secondo, se capisco bene, fondato sulla “scelta di puntare su settori a bassa produttività, su tecnologie ad alto contenuto di lavoro”[iv]. Resta da vedere se questo modello è ancora attuabile, in un’economia globalizzata.
La prospettiva del comunismo possibile deve però passare nel breve-medio periodo attraverso le “forche caudine” di una catastrofe naturale incombente, qual’è quella annunciata dagli scienziati, secondo i quali tra dieci anni si giungerà al giro di boa di non-ritorno dal punto di vista climatico, punto di non-ritorno rispetto al quale la rivoluzione sociale futuribile non può che mostrarsi impotente, succuba (in mancanza dell’avvedutezza umana, oscurata dalla corsa irrefrenabile al profitto, è il caso di dirlo, “solo un dio ci potrà salvare”.
Quest’evento ci consegnerebbe una sconfitta, un annientamento di tutta l’umanità, l’equivalente innalzato all’ennesima potenza (svolgendosi sul piano decisivo della sopravvivenza del pianeta) di quella “comune rovina delle classi in lotta” con cui Marx aveva integrato la previsione dell’inevitabilità storica del comunismo.
Viviamo in una crisi globale sistemica (che si tramuta e accentua la crisi di civiltà) di una durata inedita, per il cui superamento si prospetta, rispetto alle vecchie ricette, una coazione a ripetere, che preannuncia ravvicinate bolle speculative, crisi economiche in sequenza: che non lasciano spazio se non alla scelta consapevole di dover “uscire dal capitalismo in crisi”, peraltro, verosimilmente, attraverso una fase caotica non breve.
Ma oggi la leva della Politica in Occidente langue disarmata, sepolta dalla governance economica mondializzata, una politica dominata, e nello stesso tempo svuotata, da un Capitale che appare e si proclama trionfatore su un antagonista frantumato e sostanzialmente deprivato della coscienza di classe: la sindrome della sconfitta storica è assolutamente dominante e permanente[v].
Torniamo a noi, al SE o a quali condizioni oggi per un comunismo libertario domani ; su che cosa dobbiamo far leva per una strategia anticapitalistica. Sul mitico sviluppo delle forze produttive, quale che sia la loro qualità, la loro valenza? Fino a una cinquantina di anni fa si poteva sostenere che le lotte operaie, nei confini nazionali, stimolavano il capitalismo ad ammodernarsi tecnologicamente, ad accrescere la produttività del lavoro e, dunque, si poteva affermare che in qualche modo capitale e lavoro (e con esso il welfare) crescevano in parallelo, sia pure, ovviamente, con ritmi diversi: era l’”età dell’oro”, la metafora usata da Hobsbawm per connotare il trentennio succeduto alla fine del secondo conflitto mondiale.
Oggi, in presenza della globalizzazione, questa “sinergia” consacrata politicamente dal patto sociale non si dà più, ogni forma di conflitto è bandita perché non può fungere da “rivoluzione passiva” per il Capitale: è quello che la socialdemocrazia si ostina a non voler comprendere. E il capitalismo ha cercato, prima di esplodere nella crisi sistemica iniziata col 2008, di bypassare le proprie contraddizioni, conseguenti alla fase di stagnazione iniziata col 1971-73, ricorrendo in Occidente (ma oggi lo fa anche la Cina nei confronti del Vietnam e del Laos) alle delocalizzazioni produttive, a nuove “recinzioni” (appropriazione dei beni comuni, dei servizi pubblici e, soprattutto, dei saperi diffusi) e, più in generale, puntando sulla finanziarizzazione, sulla produzione di denaro attraverso denaro. Cose risapute e ripetute fino alla nausea.
Ma qualcuno potrebbe obiettare: l’ora della contraddizione risolutiva tra sviluppo delle forze produttive[vi] e appropriazione privata non è ancora scoccata, quasi che essa potesse insorgere e attivarsi spontaneisticamente, senza l’intervento attivo di una soggettività antagonista che la assuma per approfondirla. E se, per ipotesi, questa soglia l’avessimo oggettivamente già superata, specialmente dopo l’avvento dell’informatica? E se nella fase attuale “lo sfruttamento del lavoro vivo [fosse già] una ben misera base per l’espansione ulteriore della ricchezza”? (Marx). Domande retoriche che nascondono in realtà asserzioni positive.
Intanto nel capitalismo avanzato si stanno delineando tendenze tanto economiche quanto, per ora, solo tecnologiche di grande portata: sembra interrompersi in taluni settori manifatturieri, col ritorno in Occidente, il processo di delocalizzazione, fin qui molto attivo. Nel frattempo, in America, si stanno delineando, a livello ancora sperimentale, i tratti di una vera e propria rivoluzione della manifattura: un progetto, un disegno inviato via web può realizzarsi, grazie alle stampanti in 3d, in oggetto materiale a centinaia di migliaia di chilometri di distanza: si progetta in un posto e la merce si materializza altrove, il passaggio dal progetto al manufatto finito è istantaneo. Il just-in time può esimerci dalla crisi di sovrapproduzione? Difficile ipotizzare quali potranno essere le conseguenze: da una parte la globalizzazione sembra segnare il passo sul pIano delle localizzazioni, dall’altra “si rilancia” attraverso soluzioni tecnologiche avveniristiche.
Possiamo recuperare (depurata del la sua cornice deterministicamente crollista) la visione di Rosa Luxemburg dalla quale si potrebbe evincere che le sconfitte e gli aborti dei vari tentativi rivoluzionari vadano addebitati alla mancata unificazione capitalistica del mondo (nonostante la globalizzazione, che è altra cosa)? Rosa individua nella possibilità di scambio con un permanente ambito non-capitalistico la sopravvivenza ed il rilancio dell’accumulazione da parte del Capitale. Da questa teoria conseguirebbe che, venendo a mancare progressivamente tale area, come peraltro sta accadendo, il capitalismo sarebbe più in grado di riprodursi. Finirebbe tendenzialmente l’attuale concorrenzialità operaia tra le varie aree del sistema-mondo a favore di un rinnovato internazionalismo, quindi la transizione sarebbe resa possibile in quanto “mondiale”.
Facciamo un passo indietro: intanto, dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse naturali, la mutazione climatica sopra accennata ci ammonisce ad introdurre, anche a livello teorico (ma anche nella pratica politica degli obiettivi di lotta), ciò che in Marx era assente: il concetto di “limite” che si oppone a quello di sviluppo indefinito tipico dell’ideologia capitalistica. Non è il caso di scomodare le teorie della decrescita.
Basta ricordare che cosa il marxista Paul Sweezy (rispetto a Maurice Dobb, certamente un eterodosso) scriveva parecchio tempo fa: ”Dal momento che non c’è modo di aumentare la capacità dell’ambiente di sopportare il carico [economico e demografico] che gli viene imposto, ne consegue che la correzione dev’essere operata interamente sull’altro lato dell’equazione. E visto che lo squilibrio ha già raggiunto proporzioni pericolose, ne consegue inoltre che per raggiungere l’obiettivo ciò che è essenziale è un’inversione di rotta, non solo un rallentamento, delle tendenze fondamentali degli ultimi secoli”.
La trasmutazione finanziaria del capitale vive al contrario di una dinamica illimitata, una metastasi che si accresce attraverso una progressione geometrica, rispetto alla cosiddetta economia reale, allo sviluppo del PIL mondiale.
Il debito pubblico, ancorato ai variabili tassi di mercato, e con esso le banche, anche quelle centrali (ormai “riassunte” nella BCE), privatizzate, sottratte al controllo politico, e dunque rese inefficaci come strumenti di una politica economica e industriale degli Stati e dell’Unione Europea (peraltro improbabile, in regime neo-liberista) costituiscono il terreno e i canali di espansione del finanzcapitalismo, il cui risvolto sociale è l’austerity, i patti di stabilità entro parametri fissi, tanto iugulatori quanto assurdi. Da qui il primo, principale nodo che abbiamo di fronte nell’ambito di una strategia anticapitalistica: la rottura con l’Europa, il recupero della sovranità monetaria. Rompere quest’anello del sistema finanziario internazionale, in cui l’ortodossia neoliberista viene peraltro applicata pedissequamente e più testardamente che negli stessi Stati Uniti.
Nell’immediato s’impongono almeno due misure, con effetti, rispettivamente sul lato dell’offerta (di merce)e su quello della domanda. Il primo, la riduzione dell’orario di lavoro tanto di quello “reale” quanto di quello contrattuale. In Italia, il ritorno all’estrazione del plusvalore assoluto (prolungamento degli orari nei comparti industriali) non è forse un sintomo eloquente della crisi capitalistica, espressa dalla scelta di puntare sul costo del lavoro piuttosto che sull’innovazione tecnologica? Qui dunque occorre colpire, qui creare un inceppo all’accumulazione: su questa base può forse rinascere un embrione di controllo operaio.
E poi intervenire sulla redistribuzione della ricchezza, i cui crescenti divari vanno ormai a ruota libera: la giustizia fiscale, fondata sulla progressività delle imposte, politicamente è anche un arma per spuntare la presa della destra e dei vari populismi sui ceti intermedi, la cui collocazione è decisiva nel decorso della crisi, come è forte il rischio di una loro deriva reazionaria. Già oggi registriamo una recrudescenza della repressione da parte del potere, una militarizzazione dei territori (Val di Susa), ogniqualvolta le lotte forzano le compatibilità del blocco sociale/politico dominante. Questi ceti, per quanto (o forse perché) colpiti dalla crisi possono, costituirsi in supporto politico a una pesante limitazione dell’agibilità politica delle forze antagoniste.
La rottura con l’Europa delle banche si impone per ripristinare le condizioni di una politica finanziaria, per riacquisire una sovranità monetaria, essendo oggi gli Stati costretti a finanziarsi sul mercato secondario (e non attraverso la BCE, banca non soggetta a controllo pubblico, di natura privata così come sono state a suo tempo privatizzate le banche italiane), con la conseguenza di doversi, lo Stato, mettere alla mercé dei variabili tassi di interesse (e della speculazione). Questa intelaiatura meramente finanziaria dell’Unione va completamente rovesciata (e con essa i parametri assurdamente fissi di Maastricht). Non ho le competenze per valutare se questo “capovolgimento” possa avere una ricaduta dirompente nei confronti e contro il finanzcapitalismo.
Questa la prima rivoluzione da perseguire; una seconda, che attiene particolarmente alla sovrastruttura, al senso comune(ma su cui si basa peraltro la rivendicazione attualissima del “reddito minimo garantito”) è il superamento definitivo della concezione lavorista finora dominante nel movimento operaio: per un verso, provocatoriamente, il lavoro come “male comune”, per un altro la consapevolezza che la vita, ogni atto che noi mettiamo in essere (ad esempio, comprando un prodotto di marca, ma anche compiendo opera di volontariato o associativa ecc.) rientra a pieno titolo, al di là del lavoro salariato erogato, nell’ambito di valorizzazione del Capitale, e dunque costituiscono altrettanti fonti di ricchezza.
Finanza e lavoro: i due poli entro cui si dipana la riproduzione allargata del processo di produzione capitalistico, ma anche la sua crisi sistemica. L’orizzonte che le forze antagoniste, a mio avviso, debbono far proprio, per vincere la sfida sempre più stringente tra socialismo o barbarie.
[i] Vedi V. CODELUPPI, Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Milano….“Il biocapitalismo è la forma più avanzata di evoluzione del modello economico capitalistico […] Il biocapitalismo produce [infatti] valore economico […] agendo sulle componenti biologiche, mentali, relazionali e affettive degli individui. E se le imprese si impossessano sempre più delle idee dei loro dipendenti, sfruttando il loro cervello e quindi godendo del loro tempo ben oltre l'orario di lavoro, […] operando nella sfera del consumo […] esse sono in grado di intervenire massicciamente sulle emozioni e sugli affetti […] degli individui e lo fanno utilizzando strumenti di comunicazione potenti come la marca e il cinema. In questo modo l'ambito della cultura e della comunicazione viene progressivamente assorbito da quello della produzione economica […]”
[ii] Nella sua relazione al XXVII Congresso del PCUS (febbraio 1986) Gorbaciov critica i ministeri (“non devono essere i proprietari dei mezzi di produzione”), in Crollo del comunismo sovietico e ripresa dell'utopia, a cura di Arrigo Colombo, 1994, p. 162.
[iii] Un mâitre à penser come Giorgio RUFFOLO, ad onta del suo titolo, Il capitalismo ha i secoli contati, esalta per il presente la flessibilità e la vitalità dell’attuale modo di produzione.
[iv] L. MAGRI, La qualità nuova della crisi (1974), ora in IDEM, Alla ricerca di un altro comunismo, Milano 2012, p. 200.
[v] Tuttavia lo spirito si ribellione può far capolino in qualsiasi momento, l’inganno mediatico del “pensiero unico” può crollare inaspettatamente: “[…] Ma non perciò il futuro diventò per gli Ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia” (allegoricamente, la rivoluzione): W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, Tesi B.
[vi] E comunque l'idea del marxismo tradizionale secondo la quale la trasformazione socialista dei rapporti sociali fosse un effetto necessario dello sviluppo delle forze produttive ("primato dei mezzi di produzione") è stata duramente contestata da un teorico del livello di Charles Bettelheim.
Le immagini sono riprese del murales "Historia de Mexico" di Diego Rivera - Palacio Nacional - Città del Messico
Gli altri interventi su E' davvero finito il comunismo?
© 2013-2017 FondazioneLuigiPintor
tutti i diritti riservati
CF: 97744730587 – P.IVA: 12351251009