UN'OCCHIATA AL COMUNISMO
di Roberto Donini - 12 ottobre 2013
Se mi è permesso reintervenire, riparto dalla scissione fine della sinistra/sopravvivenza di idea comunista. Le considerazioni di Edoardo mi suggeriscono un’altra scissione quella tra militanza comunista, la soggettività /e/ cos’è la società comunista? L’oggetto “la futura umanità”. A mio avviso tutta l’esperienza comunista novecentesca, ad oriente dove edificò società socialiste – industrializzazione forzata - come ad occidente dove contribuì alla modernizzazione – lotta antifascista e radicalizzazione di lotta di classe che stimolò l’automazione (interpretazione operaista) - è un enorme sforzo volontaristico, un’epoca dominata dal dover-essere, dall’eroismo morale. Conseguenza furono i due tempi e l’iscrizione del comunismo nel “progressivismo” di sinistra: “intanto risolviamo le crisi del capitalismo, facciamo crescere il soggetto e mangiare i lavoratori, poi si vedrà”.
Ora, come il viaggiatore in una celebre stampa della terra piatta, si è arrivati al bordo, al si vedrà: con qualche vertigine ci affacciamo sul comunismo. Possiamo dargli un’occhiata perché il capitalismo, nella sua fase assoluta o speculativa, ci ha condotto ai suoi confini. Tradendo la cautela antiutopista (il III cap de il manifesto del P.C.) e storicistica (l’abusato verso “il movimento reale che bolisce….“) di Marx dirò quel che vedo io.
Anzitutto c’è quel che Michele individua nel lavoro della “talpa digitale”, che Marx prospetta come la creazione del“general intellect” (al tempo dei grundrisse assai più misterioso che ora, dopo la rete informazionale) e che io prenderei come eredità positiva della grande tragedia capitalistica, l’aufhebung hegeliano, ciò che “manteniamo” attraverso quei “nuovi conflitti” che dice Michele. Ma cos’è questa strumentazione informatica-cibernetica e antropologicamente “relazionale”? Questo tessuto ambientale è, quando si ferma nei sensi dei corpi, la felicità aristotelica: la misura proporzionale. Tradotto in “economichese” la liberazione dal lavoro (riduzione della quantità – fine del lavoro di Jeremy Rifkin per intendersi) e la liberazione del lavoro (aumento della qualità, della proporzione di utile sulla merce, del senso sull’anomia).
Poi c’è lo “stato della terra”, la sostanza, che fare? Che produrre? Cosa mangiamo stasera? Valentino nel marzo del 1991 introdusse il primo numero italiano di “Capitalismo, Natura, Socialismo” la rivista di J.O’ Connor che affrontava l’eretica ricerca di un socialismo eco-logico e non industria-logico. Quel filone che non poteva aver grande ascolto nella sinistra dominata dall’economicismo, va invece a mio avviso, ora, portato alle estreme conseguenze con la Decrescita. Questa è l’adeguata economia (l’oikos-nomos, la gestione oculata dei beni scarsi) per una terra chiusa, finita, che prospetta il modello dell’antropologia “proporzionale”. E’ quel socialismo da contrapporre alla barbarie del capitalismo che come dice Bellofiore è tornato nella fase “neomercantile”, a riattingere dall’originario indicibile darwinismo sociale. O si organizza una gestione solidale delle risorse \oppure\ una parte dell’umanità dovrà essere sacrificata, questo sfondo demografico del reverendo Malthus, torna sul proscenio dell’economia politica e si coniuga alle sue sovrapproduzioni tipiche del “mercantilismo selvaggio”, di un economia del denaro astratta e sganciata dalla sua stessa utopia – altrettanto - originaria “La ricchezza della nazioni” di A.Smith. Infine, ma forse è il punto più importante politicamente: le istituzioni e la rappresentanza. Solo cenni perché merita un grande approfondimento. La nostra critica quella de il manifesto al socialismo realizzato era ispirata dalla cattiva statualità sovietica e ci spinse poi ad entrare nel cuore di Marx e del vuoto di teoria dello stato; discutemmo allora con Althusser. Nella storia del socialismo, tra dittatura del proletariato e “anarcoide” estinzione dello stato si è finito nell’empirico parlamentarismo o nell’autoritarismo volontaristico. La comune di Parigi, il consiliarismo furono fiammate sperimentali poi marginalizzate e ora lo spontaneismo di mitiche comunità dei “beni comuni” non sembra la soluzione per poter generalizzare un concetto e una pratica diversa di democrazia. Si, perché nel frattempo la democrazia “borghese”, cioè entro i limiti dell’economia politica, si sta estinguendo – l’attuale attacco “presidenziale”alla Costituzione ne è episodio grave - , mentre si moltiplicano gli strumenti, qui torna il digitale di Michele, per arrivare ad una “Democrazia radicale” sorretta nel volere, nell’eseguire, dallo Stato (in ciò diversa dal puro turbinare moltitudinario di A.Negri) che è da svuotare del suo nucleo oscuro e originario di violenza. Insomma la creazione di uno spazio pubblico – che assomiglia alla “transizione” di Magri - dove “tutti discutono tutto” uno spazio che non ha enti superiori a limitarlo – la teologia dell’economia politica - né zone franche neutrali (anche la tecnologia è in questione). Non si tratta più dello stato socialista imprenditore ma della elaborazione “conflittuale” di finalità, di bisogni prioritari, che informino la produzione da lasciare “privata”, rompendo il malato circuito dell’induzione ad un consumo onanistico. In sintesi: una felice sobrietà per aver tempo di discutere sulla piazza, e incontrare gli altri; liberi – altrimenti - di rimanere, altrettanto serenamente, da soli a passeggiare nei boschi e vigilare sui limiti.
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