IL PERDENTE
Luigi Pintor
Evidentemente Massimo D'Alema non ha alcuna intenzione di farsi da parte e neppure di ridimensionare se stesso. Pochi (o nessuno) peccano di modestia nel mondo politico di oggi, dove il leaderismo e l'aspirazione al primato prevalgono su ogni altra considerazione. Forse, nel suo caso, dipende anche dal carattere, da quel senso di superiorità che ha sempre ostentato senza mai spiegarne il fondamento biografico.
E' tuttavia difficile capire, anche col massimo di rispetto, come l'uomo possa allontanare da sé ogni responsabilità per gli errori commessi e i fallimenti conseguiti e rifiutare di trarne le conseguenze. Tutti sappiamo che per 7 anni è stato il capo incontrastato del suo partito e ha governato indirettamente o di persona il Paese in condizioni difficili ma non sfavorevoli. La sconfitta paurosa che ha incontrato ha cause lontane che vanno oltre le colpe individuali ma non le cancellano e neppure le attenuano.
E' fin troppo semplice elencare queste colpe, o meglio responsabilità (le responsabilità attengono alla politica, le colpe alla morale), che saltavano agli occhi nei passaggi cruciali di questi anni e che questo giornale ha via via segnalato senza riguardi. Risparmiamoci ora questo elenco, che comprende anche episodi squallidi. Il danno più grave, complessivo, è quello inflitto all'immagine stessa della sinistra, deprivata di ogni sensibilità sociale e divenuta ancella di tutto ciò che ha sempre combattuto nella sua lunga storia, degenerando fino all'elogio della guerra: che non è stata una necessità subita ma una occasione coltivata.
Se è perciò difficile capire come Massimo D'Alema non mostri alcun turbamento, avendo consegnato la nazione alla cultura dominante e all'uomo di Arcore, addirittura impossibile è capire come una parte dei suoi compagni e del suo partito continuino a tenere in palmo di mano il deputato pugliese. E' una scelta che somiglia a un autoaffondamento, della sinistra in particolare e dell'opposizione in generale. La figura di D'Alema non è quella di un oppositore ma di un interlocutore di Berlusconi, con alcune affinità mentali. E non è quella di un socialdemocratico magari di destra che veda tuttavia e ancora un qualche conflitto tra capitale e lavoro ma quella di un post-craxiano. Il gemellaggio con Giuliano Amato è siamese.
Se i diessini superstiti prenderanno questa strada non avranno futuro e anche l'Ulivo ne patirà le conseguenze. Ci sarà ancora maggior bisogno che la sinistra si rifaccia le ossa altrimenti e altrove. Sarebbe il compito di Rifondazione, se questa formazione non è (come non è) solo l'avanzo di una piccola sezione del Pci: quel vecchio e nobile partito è morto nel 1989 lasciando una cospicua eredità democratica ma nessun discendente e beneficiario diretto.
Il Manifesto 2 giugno 2001
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