Il vero volto della guerra
SENZA MASCHERE
Luigi Pintor
Queste note sono state scritte poche ore dopo l'inizio della guerra e quando arriveranno in edicola saranno passati dieci giorni che sconvolgono il mondo. Non i dieci giorni raccontati da John Reed, quelli della rivoluzione russa come risposta della storia all'inutile strage della prima guerra mondiale, ma il loro opposto, dieci giorni che cancellano la pace dal nostro orizzonte all'inizio del terzo millennio.
Non sarà un incidente di percorso sia pure sanguinario, una breve parentesi che si chiuderà lasciando il passo alle magnifiche sorti e progressive della società globale. È piuttosto l'inaugurazione, già avviata ma oggi proclamata con gran fragore, di una strategia di lunga durata che innalza la forza militare e il suo uso illimitato a principio regolatore delle relazioni internazionali e dei rapporti sociali. Non è vero che sotto la crosta delle convenzioni questo principio ha sempre prevalso fin dall'età della pietra: non su questa scala e appunto nell'età della pietra.
Ha questo sciagurato valore inaugurale per le forme che assume, per gli obiettivi che si assegna, per le motivazioni materiali e per lo spirito su cui si fonda. Le sue forme sono totalitarie, non si assegnano limiti né militari né politici e possono essere imprevedibilmente dilatate da una superpotenza che ha chiuso la seconda guerra mondiale con due atomiche. Non si subordinano ad alcuna priorità sovranazionale, relegano l'Onu nello stesso sepolcro della Società delle Nazioni, scavalcano la loro stessa opinione pubblica come quella mondiale. Sono forme irresponsabili in senso letterale.
Gli obiettivi sono sfacciatamente evidenti nell'area oggi bersagliata e domani eretta a protettorato mercantile dell'impero, ma quelli più importanti sono meno evidenti e infinitamente più ambiziosi. Il Medio Oriente è solo una testa di ponte, un avamposto che declassa l'Europa a retrovia e prende di mira l'Asia. La Cina è vicina nello spazio e nel tempo, non bisogna essere frettolosi e approssimativi nelle previsioni ma non saranno necessari dieci anni perché il contenzioso si sposti in quella direzione e dimensione. Il dominio del mondo è un'espressione delirante ma questo è l'obiettivo della guerra trentennale mascherata con la lotta al terrorismo, oggi ridotta a pretesto secondario e deviata dai suoi binari e dai suoi fini.
Il fondamento materiale di questo scenario è gigantesco e forse non siamo nemmeno in grado di misurarlo, ma c'è anche un fondamento dottrinario che è stato apertamente enunciato. Gli Stati Uniti non sono nuovi a dottrine che riducono il circondario a cortile di casa, ma oggi estendono questo concetto dai paesi confinanti a ogni altro paese potenzialmente sgradito. Questa dottrina contiene anche un additivo messianico, forse biblico ma più somigliante ai fondamentalismi delle sette disseminate in quel multiforme paese, che ci spaventa più delle bombe che ammazzano povera gente. Questo elemento combinato al massimo della tecnologia forma la peggiore delle miscele e sfugge alla nostra ragione laica.
Se questo è lo scenario, le conseguenze che fa intravedere anche nell'immediato e che dobbiamo aspettarci non ci daranno tregua. Se il terrorismo, oltre a seminare terrore che è il suo scopo psicologico, è anche quella forza organizzata che si dice dovremo allora aspettarci una sua recrudescenza e una spirale da cui anche la nostra penisola esposta in prima linea può essere risucchiata. Ma c'è di più, perché la contrapposizione non è tra due campi, tra Islam e Occidente, ma c'è uno scollamento e uno scontro latente tra interessi, culture e civiltà interne all'Occidente per cui l'Atlantico è ridiventato un oceano precolombiano. Un'accelerazione degli squilibri continentali, dei rimbalzi sulle rispettive economie, un ripiegamento su nazionalismi esasperati sono nell'ordine delle cose. Difficili da cogliere, e perciò sempre trascurati quando sono in gioco i massimi sistemi, sono poi i nessi col clima sociale e con la vita quotidiana, i rapporti interpersonali contagiati da una violenza e brutalità generalizzata.
Due dati positivi spiccano tuttavia certamente in questo scenario. Non sia detto per consolazione o per ottimismo della volontà, ma l'insorgenza di pace che ha fronteggiato e ripudiato questa guerra pur senza poterla impedire è stato qualcosa di più di un evento o fenomeno politico, è stato ed è una garanzia di futuro. Una affermazione di civiltà, di valore esistenziale se questa parola non suonasse astratta, connessa cioè al senso stesso dell'esistenza. L'altro dato positivo è la sensazione, malgrado tutto, di una debolezza dell'avversario sotto la sua lucente armatura, giacché ogni Achille ha il suo tallone vulnerabile. Il mondo è troppo grande per un solo sovrano, non può essere preso a calci come il pallone di Chaplin.
Il grande problema è che c'è un vuoto da colmare, un campo della pace e dell'umana convivenza da formare e a cui dare rappresentanza adeguata e stabile. Qualcosa di più di un movimento, sia pure con la maiuscola, che oggi non c'è. Non c'è un consesso internazionale, non c'è una qualche istituzione rappresentativa, i governi e gli Stati contrari alla guerra difendono interessi particolari e frammentati, le socialdemocrazie sono residuali o imbruttite come la faccia di Blair. Manca un protagonista, un erede del movimento operaio del secolo scorso, se così si può dire, un'espressione storico-politica all'altezza del compito.
Sarà stata un'ingenuità giovanile, quella che cinquant'anni fa ci faceva sentire liberi una volta per sempre dal peso dei fascismi e della guerra. Ma non era fatale e neppure immaginabile una regressione così vorticosa in una sorta di preistoria, in cui l'uccisione dell'altro è legge naturale. Da cinquemila anni gli uomini migliori hanno pensato e agito per uscire da questa preistoria ma se la pace e la convivenza appartengono di nuovo alla metafisica delle idee e la guerra intraspecifica si ripresenta realtà immodificabile che cos'è la futura umanità? Il verso di un canto proletario? Non può essere così e non ci stiamo.
Specialmente assurdo è il nostro caso italiano, la nostra condizione, dove i rapporti di forza non ci sono sfavorevoli, e dove tuttavia siamo governati da un proconsole di una periferia imperiale. Non ha nessun titolo per riportarci in guerra, non si regge più su un consenso sia pure artificiale ma su corda straniera simile a un cappio. Tuttavia non incontra un'opposizione compatta, senza se e senza ma, che gli tolga la sedia sotto i piedi. Siamo cresciuti con fatica, non vogliamo rivivere una adolescenza nella quale fummo trascinati alla tragedia.
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