QUEL LEADER BARBUTO,
INCONTRATO PER LA PRIMA VOLTA IN TIPOGRAFIA
Una rivoluzione può essere anche allegra. Solo chi conosce la miseria dell’America centrale capisce il mito di Cuba
di Luciana Castellina - 27 novembre 2016
La prima volta che mi sono imbattuta in Fidel è stata mentre ero in una tipografia sulla Tiburtina dove stampavamo il settimanale della FGCI «Nuova Generazione». Stavo impaginando quando, su una delle riviste che avevo sul tavolo perché rubavamo le loro foto (mi pare fosse Newsweek), scorsi l’immagine di un barbuto in un bosco, armato di fucile. Nella didascalia si diceva che si trattava di tal Fidel Castro. Incuriosita, lessi anche l’articolo di accompagnamento. Sicché alla fine invece che solo due righe scrissi due cartelle: riferivo che si trattava di una guerriglia, che mangiavano erba e carne di serpente, e tutto il resto.
Era parecchio prima che conquistassero Cuba. Diventammo subito dei fan. Ancora di più quando per la prima volta incontrammo una delegazione dell’organizzazione giovanile a Mosca, in occasione – era il ’60 – di un grande raduno internazionale per la pace: quelli arrivati dall’isola caraibica anziché sfilare cantavano e ballavano. Scoprimmo così che una rivoluzione poteva essere allegra e non tetra come quella sovietica.
Per molti anni non ebbi occasione di andarci: prima per ragioni casuali, poi per il freddo che intervenne nei rapporti fra il manifesto e il regime castrista, dopo la svolta filo sovietica dei primi anni ’70 che aveva posto fine alla bella stagione rivoluzionaria che aveva reso l’Havana punto di riferimento di tutte le lotte di liberazione del mondo. Ce l’aveva raccontata Rossana, non a caso poi la più colpita dalla svolta, in un lungo reportage su Rinascita, in cui riferiva di un viaggio attraverso l’isola compiuto a bordo di una jeep proprio con Fidel, che aveva entusiasmato molti di noi, e invece un po’ irritato gli ortodossi del Pci.
Poi gli anni passarono e accaddero molte cose. Fu mentre ero a Managua con una delegazione del Parlamento europeo che fui avvicinata da un funzionario dell’ambasciata cubana che mi chiese se fossi stata disposta ad andare con un aereo militare che partiva poco dopo all’Havana per un incontro con Alarcon, presidente del Parlamento. Mi avrebbero riportato indietro dopo 24 ore.
Fu la mia prima visita a Cuba, un record di brevità. Sedemmo attorno al tavolo, io, un po’ imbarazzata, esordii dicendo che i rapporti fra noi non erano stati buonissimi, e che però eccetera. Tagliarono subito corto, dicendo che c’erano comunque tante cose comuni. E mi chiesero consigli su come stabilire un rapporto con la Comunità europea, fino ad allora subalterna agli americani, a differenza di quanto avveniva in rapporto agli altri paesi del centro America, grazie al ruolo assai autonomo giocato dal commissario socialista francese Claude Cheysson, animatore del c.d. processo di Contadora: un aiuto diplomatico alle guerriglie per liberarsi dell’oppressione di Washington.
Nel poco tempo che quella prima volta rimasi all’Havana visitai anche un ospedale. Mi colpì un reparto assai importante e non medico, bensì metallurgico: dove si fabbricavano tutti gli strumenti indispensabili alla chirurgia o alle analisi che non potevano, per via dell’embargo, importare e che Cuba non aveva ancora i mezzi per produrre.
Poi ci furono altre visite, ufficiali (come vicepresidente della delegazione permanente del Parlamento europeo per l’America Centrale), e semiufficiali (come presidente dell’Agenzia per il cinema italiano e poi come Arci). Grazie alle quali mi è capitato di visitare le cooperative create dalla locale Slow Food in campagna; le scuole periferiche finalmente dotate di luce per iniziativa della branca cubana dell’ Associazione Eurosolar; di assistere alle proiezioni (tante, affollatissime) del film «Fragole e cioccolata», prima pellicola in cui apertamente si parlava di omosessualità; di incontrare ministri aperti come Abel Prieto e sconcertanti funzionari imbalsamati; di cenare con intellettuali giustamente insofferenti per le tante ridicole censure; di girare per la città e vedere nugoli di bambini e adolescenti con una bella divisa verde uscire dalle tantissime scuole gratuite.
Ho avuto modo di vedere la fame negli anni successivi al crollo dell’Urss del cui aiuto (soprattutto l’importanzione dello zucchero) Cuba ha a lungo vissuto, più recentemente la miseria dei dipendenti pubblici, anche di quelli di alto grado, chirurghi e/o docenti, per stipendi in moneta locale insufficienti persino a cenare in un ristorante, e facchini dei lussuosi alberghi con le tasche piene di dollari ricevuti come mancia. Ma quello che mi ha fatto meglio capire Cuba è stata la conoscenza degli altri paesi dell’America centrale e del sud. Perché solo dopo aver visto quelle miserie si capisce perché tutt’ora e comunque Fidel e la sua rivoluzione siano rimaste oggetto di venerazione. Si capisce perché le difficoltà – e gli errori – abbiano potuto sviluppare odii, ma anche come sia possibile che centinaia di migliaia di cubani si siano affollati nelle piazze per ricevere il papa o per ascoltare i Rolling Stones senza che nessuno abbia colto la facile occasione di una protesta politica. Ci sono arresti ingiustificati, certo, ma Cuba non è un regime di polizia. Del resto neppure la Germania dell’est, con le sue Stasi potentissime, ha retto, figuriamoci se avrebbe potuto farlo, solo fidando nei gendarmi, un’isola caraibica. Capire Cuba è più complicato: critica e orgoglio per la propria rivoluzione si intrecciano. E sono certa che oggi saranno milioni quelli che piangeranno con tutto il cuore il loro Comandante supremo.
Lui, Fidel, era del resto davvero un bel personaggio. Di contagiosa simpatia. L’ultima volta che l’ho visto, saranno circa 20 anni fa, gli avevo portato un regalo. Poco prima ero stata a Washington, perché la nostra delegazione europea si incontrava regolarmente col Dipartimento di Stato per confrontare le rispettive politiche. Discutemmo anche con la sottocommissione esteri del Congresso, presieduta dall’orrendo italoamericano on. Torricelli, autore della più disumana legge di embargo verso Cuba. Uscendo dalla sala, ero rimasta in coda, e mi prese l’insensato desiderio di rubare la targhetta disposta sul banco della presidenza con su scritto: on. Torricelli.
Quando consegnai a Fidel il trofeo di guerra lui scoppiò in una bella risata e poi appese il cimelio dietro la sua scrivania. «Ho avuto molti regali – mi disse – ma curioso come questo mai».
da il manifesto del 27 novembre 2016
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