I giorni di Giaime Pintor
Una personalità d'eccezione, destinata a rimanere simbolo di un momento decisivo della nostra storia: nella sua rigorosa scelta la presa di coscienza della vanità di una cultura che non sappia mettere in primo piano l'impegno civile
I giorni della vita di Giaime Pintor sono racchiusi nel breve arco di ventiquattro anni: 1919-1943. Furono giorni intensissimi, lucidi, operosi, ricchi di risultati che durano. Perché, a distanza di trenta anni dalla sua morte, ricordiamo Giaime non solo per la scelta rigorosa e generosa che lo condusse al rischio e al sacrificio (scelta giustamente divenuta emblematica per la chiarezza con la quale Giaime la motivò e la visse); lo ricordiamo anche per tutto quello che egli è stato e che ha fatto prima di quella scelta e di quel sacrificio.
Al llmite, potremmo dire che di quel giovane ventiquattrenne morto trenta anni fa noi parleremmo ancora oggi, per quello che aveva rappresentato prima del dicembre del 1943, anche se il suo destino fosse stato diverso. Una vita d'eccezione, una personalità eccezionale. Questa constatazione non può non essere il punto di partenza di un discorso su Giaime: ma occorre scavare. Innanzitutto è da dire che una personalità eccezionale — per ingegno, equilibrio ed armonia — si è sviluppata in un ambiente eccezionalmente favorevole, ha avuto possibilità e occasioni speciali nel breve corso della sua vita.
Il padre e la madre di Giaime erano personalità forti e geniali. Giuseppe («Peppino») Pintor era il minore di cinque fratelli di una antica e nobile famiglia sarda: Francesca detta «Cicita», Fortunato, Luigi e Pietro. Rimasto orfano in tenerissima età, Giuseppe fu «tirato su» con severo affetto dalla sorella grande, che dedicò interamente la vita ai fratelli acquistando presso di loro una autorità grandissima. Fu -credo - proprio per una decisione della sorella (che trovava del resto giustificazione nelle difficili condizioni del «collettivo» dei fratelli Pintor) che Giuseppe, con la morte nel cuore, finì con lo scegliere la carriera della burocrazia ministeriale (alto funzionaro al ministero del Lavori Pubblici morirà nel 1941), rinunciando a trasformare in professione la grande passione della
sua vita, la musica.
Non se ne diede mai pace. La musica era davvero la sua vita autentica.
Un'intensa stagione
La madre di Giaime, Adelaide ("Dedè") Dore di famiglia sarda ma cresciuta a Firenze, era donna vivacissima anche lei, di ingegno prontissimo e arguto, ma più equilibrata del suo Peppino, che aveva sposato dopo un lungo, romantico e contrastato fidanzamento e dal quale avrà quattro figli (dopo Giaime: Silvia, Luigi e Antonietta detta "Nennetia"), nell'arco di una lunga, intensa, devota vita coniugale. Dedè si dedicherà esclusivamente al figli -come allora usava anche nelle famiglle piu illuminate della "intellighentsia"- ma troverà modo, nei ritagli di tempo, di scrivere libri e racconti per l'infanzia.
Trasferiti a Cagliari da Roma (dove Giaime era nato nel 1919), quando il primogenito era ancora molto piccolo, Peppino e Dedè lasciarono crescere i loro figli in molta liberta, cosa che allora, con piu verde e tanto meno traffico, era più facile che non oggi, specie in una cittadina come Cagliari dove tutti conoscevano "i Pintor" e nella quale quindi veniva sempre esercitato un discreto controllo indiretto sulla a "banda" della quale Giaime era membro e piccolo dirigente. Nel tempo stesso, condussero in modo naturale il primogenito (che manifestava sin dai primi anni di vita una vivacità intellettuale fuori dal comune) al gusto per la lettura, per la musica, per le arti, ne esaltarono la curiosita per gli uomini e per il mondo.
Quando però Giaime arrivò agli anni del liceo, Peppino e Dedè, con lucido e disinteressato affetto, compresero che a questo loro figliolo, così al di sopra del comune, occorreva offrire un terreno e un orizzonte assai più vasti. Giaime si trasferi perciò a Roma, ospite nella casa di via Tazzoli di zio Fortunato e di zia "Cicita" e si iscrisse al vicino liceo Mamiani a viale delle Milizie.
Via Tazzoli, « casa Pintor » salotto di Cicita e Fortunato che ogni sera era aperto agli amici che avevano desiderio di incontri, fu uno dei centri culturali, e anche politici, più interessanti della Roma degli anni trenta. Fortunato, già «normalista» a Pisa, era il blbliotecario del Senato: rimasto scapolo, vlveva con la sorella Francesca. Due fratelli, molto uniti, avevano tuttavia temperamenti oppostl, le battute di Cicita lasciavano il segno (di più, la signorina Cicita le cose non le mandava a dire per interposta persona); Fortunato invece era l'uomo piu gentile e discreto e rispettoso di tutti che io abbia mai conoscluto. Casa Pintor era un singolarissimo "punto franco", per il quale passavano e nel quale si incontravano uomini (tutti notevoli) dei più diversi orientamenti.
Ci capitavano ognl tanto due esponenti della cultura liberale passati al fasclsmo: Giovanni Gentile e Gioachino Volpe. Ma amico di «zio Fortunato» era anche il senatore Benedetto Croce e molti crociani dichiarati (qualche volta forse Croce stesso nei suoi viaggi) andavano a casa Pintor. Vi si incontravano poi storici, filosofi, letterati: Fortunato, che ha lasciato pochissimi scritti suoi, era generosissimo di aiuto (la sua erudizione era sconflnata) per gli uomini di cultura che avevano ricerche in corso.
Andavo molto spesso, almeno due volte alla settimana, la sera a casa Pintor con mio padre, Giuseppe Lombardo Radice, amico di Fortunato sin dalla «Normale» di Pisa, antifascista, e come il vecchio amico, depresso, senza speranze di una vicina crisi della dittatura. Ci trovavo Giaime, più giovane di me di tre anni, ma a quell'eta tre anni contano: io ero gia un universitario, lui ancora un liceale.
Questo straordinario «liceale » assorbiva con prontezza tutte quelle impalpabili cose che si acquisiscono solo nel contatto diretto con un ambiente: retroscena della politica e della cultura, miserie e grandezze, contraddizioni di uomini che altri vedevano soltanto recitare sul palcoscenico. Il "ragazzino" di sedici o diciassette anni veniva trattato alla pari perché era alla pari, sotto molti aspetti, di intellettuali famosi. Tutto ciò avveniva «familiarmente» e non produceva perciò complessi di vanità: Giaime, pienamente consapevole del suo valore, ambizioso in senso costruttivo, restava un carattere quanto mai sano, si impegnava nelle partite di tennis o nelle e awenture amorose con semplicità giovanile. Sempre profondo, non fu mai complicato o peggio «contorto» come produttore di cultura: ogni riga che ci ha lasciato è limpida.
Gli anni romani di Giaime (liceo poi l'Universita; Giurisprudenza, ma senza passione) sono, pressapoco, gli anni che vanno tra la guerra d'Africa e l'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale. Sono la breve, ma intensissima stagione della produzione culturale di Giaime.
Ho parlato finora soltanto di «casa Pintor», ma non è l'unico centro del quale Giaime fa parte. Ci sono altre case: quella dei Mazziotti, quella dei D'Amico, quella dei Kemenetzky, nelle quali Giaime «scopre mondo», allarga e completa il suo orizzonte: c'è il «Soviet romano» (l'espressione scherzosa di Giaime), nel quale Giaime si rifiuta di entrare —ne riparleremo— ma che frequenta, godendo la piena fiducia di Alicata, di Natoli, di altri destinati a emergere come politici. C'è l'ambiente degli studenti tedeschi, ebrei o antinazisti, che trovano in Italia un rifugio tra il 1934 e il 1938, fino a che Mussolini non li costringerà a un secondo esilio: è una fonte molto importante della scoperta che Giaime fa della lingua e della letteratura tedesca. Giaime riesce ad essere elemento centrale di molti ambienti, senza essere assorbito da nessuno. C'e, in questa sua multilateralità, anche la capacità di organizzare la propria giornata in maniera scientifica, cronometrica e insieme generosa. (Quando Giaime ti faceva una visita di venti minuti, non ti accorgevi che quei venti minuti erano "pianificati", forse perche Giaime era Giaime, riusciva a condensare tempo, così come riusciva a sintetizzare idee).
Il passaggio dalla cerchia privata a quella pubblica avviene per Giaime in modo naturale. Entra nel nucleo redazionale di Oggi (Arrigo Benedetti), cosi come entra nel «Senato» di Einaudi (con Pavese, Ginzburg, Muscetta), senza nessuna "forzatura", sempre «alla pari» con gente anziana e famosa, lui giovanissimo. Non voglio aggiungere commento alcuno agli scritti che qui si pubblicano: il lettore li giudicherà e, credo, li ammirerà per quello che sono. Voglio qui solo sottolineare che dietro alla apparente facilità del saggio, del corsivo, della traduzione, della poesia c'e stata una serena ma fermissima disciplina di lavoro. Giaime, lo ripeto, è stato uno degli «organizzatori del proprio tempo» più efficienti che io abbia mai conosciuto; la sua efficienza non era però mai alienazione nel proprio lavoro, non impediva mai la sua totale disponibilità nei momenti di emergenza.
Giaime, fin dagli anni liceali aveva di fronte a sè un programma di vita e di lavoro chiarissimo. Il fascismo gli repugnava intimamente, ma non voleva farsi bruciare dalla cospirazione antifascista. Non voleva «andare in galera», ce lo diceva schiettamente e lucidamente. Ci aiutava in molti modi impegnandosi in verità via via sempre di piu, con l'inasprirsi della lotta, ma senza mai entrare egli stesso come protagonista nella cospirazione. Riteneva tutto sommato più importante, anche per la causa antifascista, che egli diventasse un uomo di cultura dl primo piano, che conquistasse la possibilità legale di esercitare una influenza formativa larga e pubblica, anzichè restringere la propria vita in una testimonianza che egli rispettava moralmente ma giudicava (nel suo caso almeno) non produttiva.
La sua, in verità, era una posizione instabile e contraddittoria. Non poteva reggere di fronte al preclpitare degli avvenimenti. Richiamato alle armi, fece parte dello Stato Maggiore (Commissione di armistizio colla Francia), dopo la morte nel 1940 in un incidente aereo, ancora non ben chiarito, dello zio Pietro, uno del massimi esponenti dell'antifascismo nell'Esercito. Giaime, di fatto gia molto prima del 25 luglio 1943, deve essere considerato un militante attivo della cospirazione antifascista, anche se lui stesso non ne ebbe piena consapevolezza. Divenne assai intensa la sua azione di collegamento tra Torino e Roma, tra diversi gruppi antifascisti, tra i militari e i politici che cominciavano a pensare in termini operativi all'abbattimento del fascismo.
I suoi compagni
Nel tempo stesso, Giaime diviene nei fatti, un militante del PCI; per lui non ci sono dubbi, i comunisti sono il suo punto di riferimento, sono i suoi compagni. Cosi, quando il 27 luglio 1943, inviato dal Centro interno di Milano-Torino del PCI, Giorgio Amendola arriva a Roma, trova in Giaime uno dei compagni più preziosi, più informati, più lucidi, più capaci di aiutarlo nella drammatica situazione di «ritardo» dell'antifascismo. La scelta partigiana, la lettera al fratello Luigi, sono chiare prese di coscienza di ciò che era già avvenuto in lui. I giorni dl Giaime si chiudono, egli è destinato a rimanere il simbolo di un momento, e insieme l'emblema di una scoperta permanente: quella della vanità di una cultura che non sappia mettere in primo piano l'impegno civile.
Molti dei valorosi che nella Resistenza si sono gettati, e che dalla lotta armata sono usciti vivi, non hanno nel seguito dato contributi di primo piano: sono stati, per cosi dire, uomini di una stagione. Credo di poter affermare con sicurezza, seguendo il metodo della lucida analisi dei fatti caro a Giaime, che Giaime, se fosse sopravvissuto, sarebbe stato un «uomo per tutte le stagioni». Il rimplanto per la sua perdita, sempre cocente nell'animo degli amici anche dopo un arco di tempo più lungo ormai dei giorni della vita di Giaime, non è un fatto solo privato e affettivo; è anche il dolore che egli non abbia potuto dare al nostra paese e alla cultura europea, il tanto che certamente avrebbe dato.
(da l'Unità - 1 dicembre 1973)
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