Novant'anni fa nasceva Giaime Pintor
di Sante Maurizi
Le galosce. Accessorio vitale per chi aveva da entrare nei salotti dopo acquazzoni e fango. Forse solo i cavallerizzi, nel cui corredo le soprascarpe in gomma sopravvivono, ancora ne colgono l’utilità (e l’incantevole futilità del francesismo, che per un paio di generazioni è anche il Renato Rascel di «Pierino è in angosce e calosce non ha»). Sono esse il punctum del tragitto umano e ultimo di Giaime Pintor.
È il fratello Luigi a evocarle. Dicembre 1943. Informato a Roma della morte di Giaime, ucciso da una mina nel casertano mentre tenta di passare le linee tedesche, Luigi raggiunge quei luoghi tempo dopo. A Castelnuovo Volturno fra alcuni tumuli si svolge «un rito funebre molto inconsueto. Senza l’aiuto di un becchino improvvisato non avremmo identificato neppure con approssimazione i resti di quella strana persona che aveva delle galoches nello zaino, perché non amava i disagi della cattiva stagione». È tutto lì l’uomo. Luigi non italianizza, pennella con quel dettaglio la condizione storica e di classe di tanti che andarono per le piste melmose della guerra partigiana.
Fa un certo effetto pensare che oggi Giaime Pintor compirebbe novant’anni. Quel ragazzo, il brillante traduttore di Rilke, il militare impegnato nella commissione per l’armistizio con la Francia e poi nella difesa di Roma a porta San Paolo. «Non conosco nessuno che abbia costruito e abbattuto se stesso con tanta rapidità», scrive in “Servabo” Luigi, destinatario di una famosa lettera nella quale Giaime, tre giorni prima di morire, fa un bilancio di sé e di ciò che gli uomini hanno di fronte. «Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbe contato per me più di ogni partito o dottrina».
Ecco invece la guerra stravolgere il promettente cammino del rampollo di una famiglia della piccola nobiltà appollaiata sui bastioni cagliaritani, pendolare fra la Sardegna e la capitale. Il padre Giuseppe, impiegato e musicista (perfino una scrittura nel 1913 come maestro sostituto in un teatro d’opera), la madre Adelaide Dore, insegnante e scrittrice per ragazzi (tanti conobbero «Michele Strogoff» grazie al suo adattamento per la “Scala d’Oro”). L’infanzia magica e protetta a Cagliari. L’arrivo, sedicenne, a Roma presso uno zio bibliotecario al Senato. Amici come Gerratana, Lombardo Radice, Natoli, Jacobelli, tra il liceo e Giurisprudenza. Soprattutto il coetaneo Mikhail Kamenetzki, con il quale firma un articolo su “Oggi” con lo pseudonimo comune di Ugo Stille, nome che Kamenetzki (figlio di esuli russi, nel dopoguerra corrispondente dagli Usa e poi direttore del “Corriere della Sera”) assumerà in seguito in ricordo di Giaime. Stille ne parlò cinquant’anni dopo a Cagliari: «Passavamo in rassegna ogni giorno il mondo. Le amicizie hanno carattere diverso nelle diverse epoche della vita, la nostra significò allora crescere assieme».
Nel sodalizio matura l’antifascismo. «Prima di essere politico fu culturale – ricordò ancora Stille. - Ma l’inasprirsi delle tensioni internazionali e la sensazione che ormai su tutti incombesse la guerra chiarirono che la costruzione di questo “perimetro difensivo” inteso a salvare la nostra individualità non era più adeguata alla realtà». Si potrebbe partire di qui per ripercorrere come in questi anni ci si sia applicati nel revisionare anche Pintor attraverso Littoriali, frequentazioni, simpatie, perfino con la distanza in chilometri fra Buchenwald e Weimar, dove si recò per un convegno nell’ottobre 1942.
Ma l’onda pare arretrare (decisivo il lavoro di Cecilia Calabri “Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor”). Quella missiva a Luigi ancora inquieta: «Non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile, ed ho coscienza di essere un ottimo traduttore ed un diplomatico, ma secondo ogni probabilità, un mediocre partigiano. Tuttavia è l’ unica possibilità aperta e l’accolgo». C’è da «rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti», perché «le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché poeti e pittori sappiano quale deve essere la loro parte».
Fu Ferruccio Parri a definire quella lettera «il documento più alto e nobile della guerra di resistenza», parte fondante di una narrazione oggi remotissima, ma che fu la radice antifascista della repubblica. Resistente essa stessa, quella narrazione, davanti alla continuità fra l’Italia fascista e quella democratica.
«Oggi sono riaperte agli Italiani tutte le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso». E utile dovette ritenere la sua «impresa di esito incerto: raggiungere gruppi di rifugiati nei dintorni di Roma, portare loro armi e istruzioni». Anni fa Adriano Sofri scrisse di altri esempi, con Pintor, di «prodigiosa geniale precocità, e di morte giovane»: Gobetti, Ginzburg. «Gente da tempi d’eccezione», e concludeva sulle «viltà, compromessi e meschinità dei tempi normali, quando non si rischia la vita, ma un passaggio in televisione o un grado di carriera».
È il lutto per quelle intelligenze fuori tempo minimo che non è dato elaborare. Per gli affetti il silenzio, i poeti («multas per gentes…») o chi scarnifica la prosa. Come Luigi Pintor: «Quando scrisse quel messaggio sentiva vicina la morte, che arrivò tre giorni dopo, e quando io lo lessi non mi colpì perché esortava a una rivoluzione ma per come scompariva la sua giovinezza. Temo che abbia sbagliato a sdrammatizzare la propria morte con l’argomento che non esistono persone insostituibili. Continuando a vivere avrebbe incontrato i nostri stessi dilemmi ma avrebbe potuto trovare risposte migliori». Pensieri che più tardi (ne “La Signora Kirchgessner”) Luigi correggerà con un surplus del suo proverbiale umor nero: «È impossibile trovare un rapporto tra gli onesti propositi di quegli anni e la selva oscura in cui finisce il cammino del secolo. Perciò un’uscita tempestiva di scena non mi sembra più un pessimo scherzo ma una buona soluzione, un buon modo di evitare i disinganni della storia, lasciando ai posteri tutto il divertimento».
da il manifesto sardo - 1 agosto 2009
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