di Rossana Rossanda, 30 maggio 2010 dal Manifesto on line
Il «Manifesto per il lavoro» della Libreria delle donne di Milano considera la flessibilità un’occasione per conciliare maternità e lavoro. Ma rimuove i bassi salari delle migranti nel lavoro domestico, la cancellazione dello stato sociale e la differenza salariale tra uomini e donne.
Immagina che il lavoro («Sottosopra», ottobre 2009; ne ha già scritto sul manifesto Laura Pennacchi) è la proposta d’un gruppo della Libreria delle Donne di Milano, sulla quale è impegnata Lia Cigarini. Conosco Lia da una vita, vivevamo vicine, fra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, lei più giovane, in una Milano dove le donne entravano in massa nel lavoro.In verità, entrare nel lavoro voleva dire diventare salariate, perché lavorare, avevano lavorato sempre. Nella cascina, che non era né casa né fabbrica, o nel podere in Veneto, a pieno tempo su terra altrui, mezzadre in Toscana e in Emilia, o braccianti stagionali, o nell’acqua delle risiere fino alle ginocchia come le favoleggiate mondine. Sempre, oltre che in casa, in qualche lembo delle produzione agricola o dei servizi. Quando entrarono in fabbrica diventarono operaie, si incontravano nei tram molto mattutini o serali, assonnate, vestite di furia, la permanente ferrea, o appoggiate al sole fuori dell’Alfa nell’intervallo della mensa. Uscivano di casa prestissimo, rifatti i letti e avviata la minestra, correvano al lavoro, risalivano le scale la sera dopo frettolosi acquisti a preparare la cena. Dopo cena lavavano e stiravano, la domenica mattina lustravano. In busta paga avevano di regola meno degli uomini, oltre che inquadrate ai livelli inferiori.
Maternità? Ogni tanto una era contenta. Ogni tanto un’altra correva di nascosto a un certo indirizzo e ne usciva verde in faccia e col ventre sanguinante. Altre sprofondavano in maternità faticose, tirando la vita con i denti e facendo qualche servizio. Tutte leggevano avidamente le dolci idiozie dei romanzi a fumetti.
Donne al lavoro
La composizione della forza di lavoro cambiò in quegli anni. In fabbrica e negli uffici le donne erano molte di più – anche se meno che in Francia e in Germania. Un terzo della manodopera teneva otto ore un piede in azienda, almeno due in tram, altre sei in famiglia fra spesa, pulizie, cibo e figli, scordando ogni riposo, per non dire la politica e il sindacato. Meno di venti anni dopo le stesse sarebbero scese per strada a manifestare per il divorzio e l’aborto, oblique libertà. Ma non esitarono. Un diritto avrebbe da esser bello e l’aborto non lo era. Era un desiderio? Malinconico ma desiderio? Malinconica ma libertà? Era delitto per un medico su due, per un uomo e mezzo su due, nessun delitto ma tuo rischio per la mammana, zona di rabbiosi silenzi per le famiglie.
Donne era difficile. Sono certa soltanto di questo.
Sono passati quaranta o cinquanta anni e sempre più donne sono al lavoro, in azienda, nel pubblico e in certe professioni, insegnanti, medici, avvocate. Operaie, impiegate, consulenti, imprenditrici. Sono ancora in numero minore (almeno in chiaro) che in Francia e in Germania. Ancora un poco più istruite dei maschi, ma pagate il venti per cento di meno per le stesse mansioni. Ancora ritardate nella carriera in caso di maternità. Quelle che possono si fanno aiutare in casa con i bambini da altre donne; specie migranti che possono pagare poco e stentano a mettere in regola, per cui la concorrenza ai minimi è sfrenata.
Il migrante è nell’edilizia, la migrante è nel lavoro domestico. Tutti e due, i migranti, ricattati nell’eterno precariato dei servizi e delle false cooperative di pulizie. Ma se questi sono a livello zero, a tutti i livelli – dal call center all’università, dal tour operator alla consulenza economica – tende diventare precario tutto l’impiego delle donne. Non sanno se in capo qualche settimana o mese il contratto sarà rinnovato. E non metteranno mai insieme i quaranta anni di contributi per la pensione.
Madri flessibili
Scrivono ora Lia e le donne di via Dogana: ma è una disgrazia? Non saremmo più felici se ci facessimo guidare dal desiderio invece che dalle passate ideologie, che ci hanno stretto al lavoro fisso e a tempo pieno, strozzando il nostro bisogno di stare con i figli? D’altra parte il desiderio ci suggerisce di essere madri, ma anche di accedere a quella ricchezza di rapporti che il lavoro domestico riduce. Lavoro è fatica ma anche socialità, a volte perfino una soddisfazione. Non solo sfruttamento. Diciamo dunque due volte sì, alla maternità e al lavoro.
Però, per essere vivibile il «doppio sì» non può comportare sedici ore di lavoro al giorno, otto pagate in azienda, due nei trasporti e sei in famiglia non pagate: si crepa di fatica. Guardiamo con occhio benevolo al tempo parziale, al contratto flessibile e atipico che l’impresa ci offre più facilmente. Riduciamo il tempo del lavoro esterno, facciamo quattro più due più quattro, o flessibilizziamolo, calcolandolo non a tempo (che troveremo nei pertugi) ma a risultato. Insomma mamma e impresa si possono incontrare, l’impresa gradisce avere una lavoratrice, come si diceva una volta dell’auto, just in time, e la mamma ha bisogno di essere più libera. Così il lavoro si femminilizza, aggiunge qualche amico entusiasta: le donne sono sempre di più, per meno tempo, più flessibili, non hanno la fissa della lotta di classe, della rigidità delle norme e dei diritti, d’un impiego pieno per la vita e con pensione successiva. Nel loro tempo, breve e articolato, portano le loro assai tradizionali qualità, precisione, cura, fluidità, scarsa conflittualità.
Bel quadro ma non convincente. Sono i tempi e i conti che non tornano. Per realizzaare felicemente il doppio sì occorrerebbero due condizioni; che il servizio pubblico garantisse una struttura professionale semigratuita per accudire la casa e i bambini mentre lei lavora, e che l’impresa pagasse la lavoratrice almeno come un uomo, dovendo provvedere a una piccola creatura. Se non ci sono queste due condizioni, come è stato in alcuni paesi scandinavi, il mezzo tempo non basta per vivere e tanto meno per pagare l’altra donna cui affidare la casa e i figli.
Il miraggio del welfare state
Le due condizioni in Italia non ci sono. Salvo in alcune città, il servizio pubblico non esiste o è ai minimi, e la Ue non fa che chiedere di ridurre la spesa pubblica almeno fino al 2013. I salari (per non parlare della mancanza di impieghi in tempo di crisi) tendono a degradarsi al precariato, che obbligandoti a pensare al mese in cui sarai sospesa, non ti invita certo a programmare una maternità. Paradossalmente, la proposta della Libreria implicherebbe quella società comunista a redistribuzione totale e mirata, che è stata buttata alle ortiche anche come miraggio da trent’anni in qua. E non abbiamo anche noi sussurratao, se non sbaglio, meno stato più mercato?
Nel mercato, e perdipiù deregolato, la cura della casa e di un figlio va pagata, a meno di non metterlo gratis sulle ginocchia di qualche nonna o zia, eternizzando la gratuità del lavoro femminile di cura, che solo chi non lo ha mai fatto può ritenere tutto gioia e piacevolezza. Nel mercato, con i pochi soldi che abbiamo, cercheremo di pagare la badante (come la chiama Bossi) il meno possibile; e non c’è limite alla corsa in basso delle remunerazioni in tempo di penuria, così anche noi mettiamo un ginocchio sul collo delle migranti. Stiamo male tutte e due perché le statistiche europee confermano che le donne sono retribuite (se va bene come in Francia) il 20 per cento meno degli uomini. In un’occupazione regolare. Perché nei contratti atipici i dati precipitano. E peggio va con la selva dei lavori autonomi, tanto sperati e glorificati, dove alla dipendente è chiesto perlopiù un sorta di cottimo, essendo pagata a risultato previo gradimento del datore di lavoro. È lavoro autonomo diventare venditrice di creme o di biancheria alle amiche, senza un minimo salariale né un contributo previdenziale? E già nello scomparire in occidente della grande fabbrica industriale, si profila la grande fabbrica dei servizi del 2000, dai call center ai grandi tour operator, all’assistenza dopo vendita delle grosse marche alle reti di comunicazione alle migliaia di impieghi il cui lavoro consiste nel cercar lavoro, grandi edifici di vetri e cristallo dove siedono in fila fianco a fianco migliaia di ragazze, ciascuna isolata in un gabbiotto con un certo numero di chiamate da fare o di pratiche da sbrigare in tempi rapidi prefissati.
Quando un compagno ci assicura che il lavoro si sta femminilizzando, intende che sarebbe più fluido e soave. Quale esempio di occhio maschile! Femminile, pensa, perché più elastico e, ha ragione, più a buon prezzo. E poi le donne sono dolci e concilianti, si dimentica che aprivano la vertenza alla Borletti prendendo a zoccolate i vetri della direzione. O erano consigliate dalle cattive maestre del movimento operaio? Andiamo. La verità è che nelle condizioni attuali il «doppio sì» può essere realizzato da donne relativamente abbienti: professioniste o impreditrici. Una normale operaia o impiegata non ce la fa.
La Libreria delle Donne ha ragione in un punto: nell’indicare un motivo della durezza della nostra condizione nell’introiezione di una condizione fatalmente subalterna. Ha ragione nell’invitate a dare ascolto a quel che sentiamo e vogliamo. A farne una leva contro lo spessore opaco dei rapporti patriarcali. Nel mondo del lavoro essi si impongono contro regolamenti, contratti e leggi. Ma desiderio non è sogno, è lucido confronto fra noi e quel che abbiamo davanti, noi e i rapporti che ci sono costruiti attorno, si nutre della volontà di non accettarli, di cambiare. Se non diventa questo non è desiderio, ma immaginario, e all’immaginario concediamo già troppo.
La mappa dei desideri
Farei una mappa assai concreta del mercato del lavoro, care amiche di Milano. E anche una mappa dei desideri. È proprio vero che è iscritto nel nostro Dna il bisogno di maternità? Molte di noi, non un’esile minoranza, non sono madri. O non hanno voluto o non hanno potuto e in ogni caso non si sono dannate per diventarlo. Rispettano ma non apprezzano il bisogno di un rampollo fatto assolutamente dei cromosomi propri e di quelli del consorte, che obbliga a un percorso accidentato fra medici, cliniche, lettini, analisi, ormoni, vetrini, provette – come se maternità e paternità fossero una facenda di ovuli e spermatozoi, invece che del sorriso della madre e delle braccia paterne. Questo «bisogno» vien giù diritto dal peggio del patriarcato.
È invece un fatto, e pesante, che la maternita delle giovanissime è perlopiù un incidente, sopravvenuto in quella sorta di coazine alla sessualità, oggi obbligatoria come era un tempo l’interdizione. È un fatto che le donne di tutti i paesi e religioni, se appena possono mettere il dito sul grilletto genetico, riducono drasticamente il numero dei figli: negli scricchiolii del patriarcato questo il più vistoso. È un fatto che le politiche demografiche per la natalità non portano da nessuna parte. È un fatto che in grandi parti del mondo una figlia femmina è soppressa. È un fatto che un senso della riproduzione va ricostruito fra noi e con gli uomini scombussolati dalla caduta del classico ruolo paterno. È un fatto che il maschilismo si difende nel risorgere delle religioni. È un fatto che grande è il disordine delle soggettività sessuate sotto il cielo. Neanche il desiderio è così semplice. Vogliamo discuterne?
Rossana Rossanda.
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