Intervista a Luigi Pintor
di Grazia Casagrande |
Intervista a Luigi Pintor
di Grazia Casagrande |
Una vita spesa tra passione politica e indignazione. Un maestro che non si sente tale. La purezza di una posizione perennemente scomoda. È Luigi Pintor: la sua ultima prova letteraria, La signora Kirchgessner, come testimonianza di una delusione storica ed esistenziale. Ma è ancora possibile credere nell'Uomo? Glielo chiediamo in questa intervista.
"Si può essere pessimisti riguardo ai
tempi e alle circostanze, riguardo
alle sorti di un paese o di una classe,
ma non si può essere pessimisti
riguardo all'uomo."
Ci può spiegare la frase che pone ad apertura del libro e che poi il libro sembra contraddire?
È una frase di mio fratello ed è importante perché mostra la sua filosofia, che è positiva: odiava infatti le cose decadenti, malinconiche. Il mio libro invece la contraddice e così si crea una specie di dialogo. Alla fine poi riprendo questa frase perché ha, nonostante tutto, una sua verità: una conclusione antropologicamente negativa, è infatti paralizzante. Dato che io non sono in realtà un uomo libero, cioè ho una storia politica e un pubblico che è sempre stato da me incoraggiato (perché è necessario che questo avvenga in politica) sento di avere delle responsabilità e così ho messo questa specie di "pezza" alla fine del libro, messa comunque in modo molto ambiguo, perché faccio questa dichiarazione di fiducia nell'uomo e la rinnego nuovamente. Ma il libro non è filosofico, è prevalentemente letterario e l'ambiguità è un gioco che fa parte dell'ambito letterario, altrimenti avrei scritto un saggio politico, o un testo di filosofia... Ho scelto invece la suggestione letteraria per avere anche questa libertà.
"Il presente assorda il passato", questa affermazione mi sembra molto attuale.
La frase posta nel romanzo è anche legata al paesaggio, al suo mutamento nel corso degli anni. Questo è chiaramente un libro antimodernista. L'oggi è impazzimento, è una crescita insensata. Però di certo si riferisce anche alla memoria storica: questo gran rumore che ci circonda, taglia le radici, confonde, non ha riferimenti di nessuna specie, né di un tipo, né di un altro. Oggi un ragazzo non ha riferimenti se non quelli che gli vengono momentaneamente indicati dal mercato. È avvenuta come la perdita di un patrimonio: il passato è un patrimonio di esperienze che si sono accumulate, se le si disperde in questa confusione, in questo rumore assordante, è un pericolosissimo smarrimento di senso. Non parlo di qualcosa di specifico, ma in generale delle esperienze degli uomini: se non si sa nulla di questo qualsiasi cosa si costruisca non ha senso. Da che parte si va allora? È solo un frenetico "carpe diem" e null'altro. Oppure si vive secondo modelli postici per un momento davanti, che però rispondono ad altre leggi, al meccanismo economico, ecc. I modelli ci sono lo stesso, ma sono estremamente caduchi, passano, durano al massimo un anno, sono assunti inconsapevolmente, sono indotti, non sono maturati. E questo fa parte della polemica antimodernista che c'è in tutto il libro.
Vi sono delle figure positive in tanto pessimismo: i suoi genitori.
Sì, io ho stranamente un ricordo molto buono di tutta la mia famiglia, per come erano fatti, per come vivevano e lo dico perché è quello che sento, anche se può apparire un po' strano. Oggi quasi nessuno parla bene della famiglia e tutti sappiamo come sia un'istituzione in evidente crisi. Non intendo dimostrare delle tesi con quanto ho scritto, non ho uno scopo preciso, il mio è un libro dell'esperienza e faccio semplicemente trasparire quale è stata la mia esperienza.
Il suo è da molti anni un ruolo di "maestro". Ne sente il peso, la responsabilità?
Anche se questo mi viene detto da molti, io non mi riconosco tale. Ed è imbarazzante, perché sembra un atteggiamento civettuolo, un vezzo.
È però una delle poche voci davvero libere...
Questo sì. Ma non parlo tanto bene di me nel mio libro, perché penso che ci sia qualcosa in questo mio malessere di un po' colpevole. Ho confortato delle persone nella mia vita, e invece questo libro non è tanto confortante. Non ho ingannato nessuno, ma è come se fossi stato un piccolo salvagente e allora oggi penso che forse questo non è stato molto buono, forse non ho parlato un linguaggio di verità, perché le cose stanno peggio di come io le ho sempre dette, forse sono stato un cattivo maestro...
La rabbia che molto spesso c'è in ciò che scrive, credo però sia un sentimento positivo rispetto alla rassegnazione diffusa.
È vero, infatti io sono furibondo. Molti invece mi leggono scoraggiato e scoraggiante. Ma non è questo l'animo, lo spirito che mi muove. In fondo il mio è un libro "imbufalito", è solo necessario prendere consapevolezza delle cose negative. E poi, arrangiatevi... Io dico come stanno le cose, non riesco più a dire come ci si può opporre, ma certo così non va bene per niente: questo è il senso del libro. Però nemmeno questo mi piace tanto, perché chi legge, conoscendomi, si aspetta che io mi scagli contro qualcuno in particolare, come quando mi scagliavo contro Berlusconi.
Lo stile è letterariamente molto elegante, molto lirico, c'è anche molto "non detto", lasciato all'interpretazione del lettore.
La frase di Voltaire che ho posto in apertura del mio primo libro [Servabo, ndr] vale in fondo anche per questo.
Quale è il rapporto con il suo lettore?
Se penso al mio lettore tradizionale sono in imbarazzo, perché questo libro non è scritto solo per lui. È per chi lo vuole leggere, se mai lo leggerà. Oggi scrivere un libro è anche un atto di superbia, perché basta frequentare una libreria, anche solo guardarne la vetrina, per vedere una quantità incredibile di titoli di nuovi libri. Un libro serve soprattutto per chi lo scrive, è una forma di meditazione. Il titolo che poi ho dato è il meno comunicativo possibile è davvero difficile trovare un titolo meno mercantile. I lettori a cui penso, gli amici, mi mettono in difficoltà, preferirei, scrivendo, non avere storia, né pubblico.
È un libro profondamente etico e anche in questo c'è una richiesta, una sollecitazione al rigore.
Per me anche la politica è questo, ha una sua moralità, è una concezione del mondo alta, rivolta all'uomo. La politica è come gli uomini governano se stessi, vedono la propria vita individuale, organizzano la propria vita sociale: dovrebbe essere il modo supremo di esercitare questa funzione. Perché così era allora...
E oggi?
O ggi la politica è pura amministrazione dell'esistente, è sottoancella di altri poteri, oggi non c'è, non è solo "bassa", non esiste proprio, è esercizio di un piccolo potere, perché non determina quasi niente, è parassitaria, insegue il consenso. Non chiede consenso a un progetto, cambia i propri progetti a seconda del consenso che trova: è il massimo dell'opportunismo. Non so nemmeno più parlarne, è per questo che scrivo ormai pochissimo sul giornale ["il manifesto", ndr]. Scriverò ancora quando e se saprò risolvere questo problema che oggi ho: sono in un vero empasse.
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