Filippo Maone
Tra i motivi che permisero al manifesto non soltanto di stabilire un interscambio con alcuni militanti del Pci e i movimenti che tra la fine degli anni '60 e gli inizi dei '70 si costruirono larghe basi nelle università, nelle scuole e nelle fabbriche, oltre che in altri ambiti (persino nell'esercito di leva), ci fu senza dubbio la tematica consiliare.
Di consigli operai e studenteschi, nei luoghi di lavoro e nel territorio, a partire dal '68 e sempre più nei primi anni successivi, parlavano un po' tutti, dai principali gruppi extraparlamentari alla parte più avanzata dei sindacati. Ma nessuno vi dedicò più attenzione del manifesto, che lo pose al centro di una riflessione sul rapporto tra masse e partito, spontaneità e coscienza, classe e organizzazione. Tutti binomi che andavano a parare sui nodi di un processo rivoluzionario nelle società di capitalismo evoluto.
I testi principali di quella ricerca apparvero la prima volta sulla rivista nel settembre 1969 (ripubblicati nel 1974 dall'editore Alfani). A rileggerli con il senno del poi (un «poi» cominciato già nel decennio successivo), essi contengono analisi di particolare acutezza ma anche alcuni errori di valutazione, sia sulla consistenza degli organismi prodotti dai movimenti nel fuoco delle lotte, sia sulla crisi del sistema e la maturità dell'alternativa. Almeno a mio parere, e credo di non discostarmi troppo da quello dei loro stessi autori.
Seppure con una vena di velleitarismo, il rilancio della tematica consiliare incrociava il prorompente bisogno - esploso con il sommovimento del '68 - di superiori forme di partecipazione, rispetto ai limiti , anzi alle storture, della democrazia delegata. Si spiega così il consenso che esso incontrò non solo in molti studenti e operai di nuova generazione, ma anche tra le frange più inquiete e insofferenti delle ortodossie di organizzazione fra i militanti del Pci. Ciò che fece presa fu la elaborazione del manifesto, che si distingueva dalle impostazioni prevalenti dei più importanti gruppi extraparlamentari, fra a un orientamento di accentuato spontaneismo e una mistica organiz- zativistica talvolta al limite della militarizzazione. Quanto al sindacato, anche nelle sue espressioni più consapevoli e aperte a forme inedite di lotta, e su terreni quasi del tutto nuovi, come quello unitario dei metalmeccanici (ma non soltanto), esso tendeva per natura a ridurre il ruolo dei consigli entro i confini di una logica contrattualistica. Il manifesto, invece, pur nel solco di Rosa Luxemburg e del Gramsci ordinovista, provò a fare un passo in avanti, per adeguare i caratteri dei consigli ai più maturi compiti che il tempo, di nuovo in ebollizione, pareva esigere.
Puntavamo sui movimenti politici di massa, sulle forme di un nuovo potere statale
L'ispirazione di fondo veniva dalla teoria marxista della rivoluzione come processo primariamente sociale. Ciò che non era avvenuto nella Russia del '17, a causa soprattutto dell’ immaturità delle forze produttive e della arretratezza di quella società. Parve al manifesto che si potesse riprendere un cammino più largo dopo le polarizzazioni prodotte dalla stagione bolscevica e dalla socialdemocrazia. Sul manifesto i consigli vengono indicati come «organismi politici, unitari, di massa, gestiti dal basso, contestativi dell'assetto istituzionale esistente... con proprie ed autonome forme di organizzazione». Insomma, una riflessione tese a riportare in primo piano il ruolo delle masse contro le tendenze «giacobine» infine prevalse, sia in Lenin che nelle varianti della sua linea. L'accento era posto sul motore sociale della trasformazione, determinante per generare «le cellule costitutive di un nuovo potere statale» che avrebbe contenuto le premesse della sua estinzione.
A dire il vero, la priorità del sociale rispetto al «politico» veniva proclamata da molte parti, in polemica con i partiti comunisti, cui si imputava di avere sottratto ai proletari gli strumenti per esprimersi in autonomia, oscillando tra il «sol dell'avvenire» e una pratica tutta interna al sistema, e in definitiva d'essersi piegati alla burocratizzazione. Ma nell'impostazione del manifesto c'erano, a mio avviso, almeno due aspetti che la rendevano più convincente. Innanzitutto era sottolineato che l'autonomia dei movimenti avrebbe esercitato il suo potenziale positivo a condizione di non slittare verso forzature spontaneiste, collimanti con l'anarchismo, che non mancavano in qualche gruppo. L'avvertenza non si basava su pregiudizi, come nei partiti comunisti inclini a vederle anche dove non c'erano. Il Pcf ne fu l'esempio estremo, con l'ostilità al Maggio del '68, avvertita come «impura» perché nata al di fuori del suo controllo e carica di contenuti cresciuti fuori dai suoi schemi. Ma anche il Pci, dopo le iniziali aperture che testimoniavano del patrimonio ereditato da Gramsci, e mantenuto da Togliatti, ripiegò poi verso la diffidenza prevalente nelle sue componenti più conservatrici, timorose che l'espansione dei movimenti di massa mettesse in discussione una consolidata linea strategica. La preoccupazione del manifesto si collocava sul lato opposto, essendo rivolta a evitare che gli organismi di base, espressione diretta dei lavoratori, si esponessero alla dinamica di logiche esterne, anche di partiti e partitini, come sarebbe avvenuto se non si fossero dotati di adeguati strumenti di coordinamento.
In secondo luogo la caratterizzazione sociale dei consigli non li confinava nell'ambito sindacale, ma era puntata a dare forza politica alle strutture di democrazia diretta. Sia nelle fasi di scontro di classe, sia in un immaginato dopori- voluzione, quando si trattava di costruire un nuovo ordine. E infatti, a indicare lo stretto intreccio di istanze politiche e sociali, la definizione più ricorrente dei consigli, nella tradizione gramsciana e nell'elaborazione del manifesto, sta in tre parole: «movimenti politici di massa».
Non si intendeva negare l'importanza - di più: la necessità - di una avanguardia organizzata per renderne durature le conquiste, superarne le eventuali tracce corporative, la frammentazione e il pericolo di divaricazione, portando a sintesi sempre più alta le spinte di base. Era però acuta la sensibilità verso il rischio - per nulla astratto - di una tendenza nei partiti a ingabbiare i movimenti reali in una linea sistematica prima che si esprimessero in tutta la loro vitalità creativa. Sicché la sintesi e il progetto, che dalla diretta esperienza delle masse dovrebbero nutrirsi, finivano col nascere monchi di elementi essenziali.
L'approccio del manifesto al rapporto masse-partito fece breccia in alcune aree del movimento che già stavano avanzando su quei terreni. Basta citare la questione della salute, nelle sue sfaccettature. A Roma fu attivissimo il collettivo della Facoltà di Medicina, di cui scrive in queste pagine Famiano Crucianelli, che ne fu protagonista, insieme con Sergio Rovetta e molti altri studenti, oggi bravissimi medici. Centrale era la contestazione del potere baronale, intorno al quale si modellavano non solo le carriere e ma anche la struttura ospedaliera e in definitiva, gli stessi concetti di malattia e di cura. In molte fabbriche si aprirono contenziosi inediti sulla materia. Restano memorabili le lotte condotte, in due complessi chimici del Nord. Alla Rhodiatoce di Verbania, un deciso animatore del consiglio fu il giovanissimo Carlo Alberganti, che poi dette vita, con il concorso di molti compagni, in primo luogo l'indimenticabile partigiano della Val d'Ossola Gino Vermicelli, al gruppo del manifesto della zona. Alla Montedison di Castellanza, in provincia di Varese, la figura più rappresentativa fu Luigi Mara, combattente colto e ostinato, che aveva subito l'amputazione di entrambe le braccia a causa di un incidente sul lavoro e portava su di sé i segni di quanto lo sfruttamento da duro, come è sempre, possa farsi feroce. Nella sintonia tra i protagonisti delle vertenze di Verbania e di Castellanza e le proposte de il manifesto, convergevano anche altre elaborazioni, come quella si Medicina democratica, fondata da Giulio Maccacaro, che apriva nuovi orizzonti alla cultura e alla pratica dei movimenti e disturbò il groviglio degli interessi concentrati a lucrare sulla salute e sull' umano dolore.
Molti furono coinvolte in quelle battaglie. Così come, su un altro versante, vasta fu la partecipazione al movimento delle «150 ore» del tempo contrattuale da destinare a corsi non di tipo professionale, ma di sviluppo culturale. E anche questo concordava con le tematiche sollevate dal manifesto.
A riconsiderare i dibattiti di allora, sorge qualche interrogativo sugli errori di prospettiva che li percorrevano. Ne ho prima accennato. Ma stupisce quanto fossero ricchi di intelligenza e di stimolo, di cui queste note non possono dare pienamente conto. Mi auguro che esse bastino, almeno, a misurare la distanza abissale tra le aperture mentali di allora e la miseria della politica odierna. E perciò a sollevare qualche curiosità sulle idee che circolavano in quella tumultuosa stagione. La sinistra sembra oggi scomparsa. Ma se a qualche nuovo soggetto venisse in mente di riprenderne il filo e ritesserne una trama, anche se i rapporti di forza dovessero imporgli di muoversi a lungo entro l'orizzonte del riformismo (che oggi per essere davvero tale dovrebbe contenere una buona dose di carica rivoluzionaria), consiglierei di scandagliare in quella miniera dove, in mezzo a materiale consumato, si trova una discreta quantità di idee preziose.
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