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Maggioranza e opposizione

 

Luigi Pintor

 

UN DIALOGO SENZA AVVENIRE

numero 1 giugno 1969

 

 

 

 

La ricerca di «nuovi rapporti» tra maggioranza e opposizione domina la scena nazionale e sembra annunciare una nuova stagione politica. La formula è vaga, elastica. Lascia nell'ombra la sostanza del problema, la partecipazione o meno del PCI all'area di governo. Propone, più modestamente, un assottigliamento dei confini che hanno finora diviso i grandi schieramenti politici nazionali, per ritagliare un'area di possibili collaborazioni. Per questa via, la crisi che percorre il paese dovrebbe trovare sfogo, anziché marcire senza rimedio.

In  apparenza, non si tratta di grandi novità. L'ipotesi di rapporti «positivi» tra maggioranza e opposizione ha sempre pesato sulla vita nazionale in questi anni. Con serietà nel primo dopoguerra. Con ambiguità e bruschi scarti negli anni '50, dopo la fine del centrismo» e della guerra fredda. Infine col centrosinistra e l'ingresso nei governi borghesi dell'ala più malleabile del movimento di classe. Col 1968, però, la questione dei «nuovi rapporti» tra maggioranza e opposizione assume un'altra dimensione. Il voto del 19 maggio sposta nettamente a sinistra l'equilibrio politico-parlamentare, lo schieramento di maggioranza si mostra tremolante e scollato, l'opposizione copre uno spazio che quasi le permette di arbitrare la vita delle assemblee elettive. Per di più, questo nuovo equilibrio non è il frutto di mutevoli  umori elettorali, ma di una radicalizzazione delle masse che travalica di molto i confini del riformismo: è la «rivelazione» del 1968.

Si manifesta in tutta  la sua ampiezza la divaricazione tra le domande,  le spinte della società e il quadro politico istituzionale del sistema. Non si vede, in definitiva, come il capitalismo italiano possa procedere per la sua strada senza colmare questo vuoto, senza restaurare un  potere politico e statale capace di una mediazione e un dominio reali. Il tema di rapporti con i comunisti diventa quindi obbligatorio per tutto lo schieramento politico bor­ghese, non più solo per i suoi settori di minoranza. La D.C. si sente incalzata dalla precarietà del suo si­stema di alleanze, soffre di una diminuita capacità di presa sulla società, di una ridotta influenza sui mec­canismi economici e sull'apparato statale, e vede l'uni­tà politica dei cattolici seriamente insidiata dalla con­testazione e dal dissenso. Il PSI vede logorata la sua tradizione e seccamente ridimensionate le due illusio­ni in cui si era cullato, l'onnipotenza delle leve mi­nisteriali e la forza di attrazione di due sigle sovrap­poste. Se le due forze politiche di maggioranza, e in generale la «classe politica» inventata dall'on. La Malfa, non si sentono ancora ridotte come le forze gemelle della Quarta Repubblica, tradiscono però un discreto panico.

È naturale che il problema di rifare i conti in qualche modo con l'opposizione di sinistra si riproponga, non più solo a qualche gruppo speri­colato ma ai gruppi dirigenti borghesi come tali. Ma su quale terreno e in che termini? Al confronto, perfino la gestazione del centro-sinistra ebbe più di­gnità e credibilità di quanta ne abbia oggi il discorso sui «nuovi rapporti» con l'opposizione. Anche allo­ra, come oggi, ci si guardò bene dal mettere in di­scussione i modi di formazione della ricchezza, i rap­porti di potere tra le classi, la struttura dello Stato e le forme dell'intervento statale nell'organizzazione della società, le questioni insomma che possono se­parare una politica di riforme e di alternativa da una linea di ammodernamento capitalistico. Ma, per lo meno, parve scendere in campo un nuovo personale politico, si prestò una dimensione non banale all'in­contro tra cattolici e socialisti, si cercò di presentare la nazionalizzazione elettrica, il discorso sul «piano», la liquidazione del «dualismo» dell'economia italiana come fondamenti di un decoroso compromesso e di una nuova «costruzione» politica. Oggi, il discorso sui «nuovi rapporti» procede nel vuoto, o sulle sab­bie mobili, senza neppure questi ornamenti.

Nella versione più audace, cara ai gruppi più «avanzati» della maggioranza, offre all'opposizione di sinistra una specie di partecipazione subordinata alla gestione del potere, un ruolo di supplenza. Nella versione più cru­da, preferita dai gruppi dominanti della maggioran­za, propone un regime di britannica correttezza. Nell'un caso e nell'altro, lo scopo pacificamente procla­mato è di allargare l'area delle forze disposte a garan­tire l'ordine costituito e a sorreggere gli equilibri del sistema.

 

All'ombra del governo Rumor

Prima di tutto, questa specie di dialogo va di pari passo con la sopravvivenza di uno dei governi peg­giori che il centro-sinistra abbia partorito. Una trin­cea moderata, che nella sua stessa debolezza trova motivi di aggressività. Gli scontri, anche sanguinosi, nel paese non sono soltanto opera del ministro Restivo, ma effetto di una rimonta dell'ideologia e della pratica repressiva di Stato. 

Gli accenni a possibili intese nelle tre direzioni della scuola, del Mezzogiorno e del decentramento istitu­zionale, sono rapidamente approdati dove si immagi­nava. Una riforma universitaria di stampo corporati­vo è apparsa abbastanza lesiva dell'ordine costituito da far cadere il ministro competente. Le riflessioni meridionaliste dell'on. Colombo, garbatamente intrec­ciate ai fatti di Battipaglia, propongono una rettifica di indirizzo solo nel senso di una accelerazione delle politiche di colonizzazione dell'agricoltura, di program­mazione dell'esodo, di industrializzazione misurata sul­la convenienza delle imprese. La gelosa tutela dell'ap­parato di polizia, la riabilitazione di principio delle strutture gerarchiche nella scuola, nella magistratura, nella famiglia, procedono in bella armonia con un di­scorso « dottrinario » sui modi migliori per spoliti­cizzare del tutto le assemblee elettive. Se si esclude la riforma delle pensioni, surrogato anch'essa di un sistema rinnovatore di sicurezza sociale, non c'è stato atto di questa maggioranza che abbia lasciato intrav-vedere, nonché un terreno di possibili incontri con le opposizioni, anche solo un terreno di manovra per le minoranze democristiane e socialiste.

 

Il potere che occorre al sistema

Poco male, se questa pratica di governo si esaurisse in sé e non fosse l'evidente premessa di un lavoro a più largo raggio. Nell'arco dei prossimi dieci anni, il capitalismo italiano conta di tagliare il traguardo della piena maturità, portando a termine quella riorganiz­zazione in profondità delle strutture produttive che ne hanno caratterizzato l'ultima fase espansiva. Per elevato che sia l'incremento del reddito e dei consu­mi, per elastici che siano i margini di disponibilità delle imprese più forti e di manovrabilità della spesa pubblica, è lecito prevedere che questa ulteriore or­ganizzazione provocherà tensioni altrettanto acute che nel passato. Lo sfruttamento del lavoro, non solo co­me compressione della dinamica salariale, ma in tutte le forme di organizzazione interna ed esterna alla fab­brica già sperimentate, resterà il segreto principale della produttività e capacità competitiva del sistema. Una stasi dell'occupazione, ma fors'anche una sua ca­duta relativa, è prevista nei programmi ufficiali. La riorganizzazione « europea » dell'agricoltura, l'indu­strializzazione per « aree di sviluppo », annunciano nuovi fenomeni migratori imponenti, disaggregazioni sociali, alti costi umani, subordinazione e mortifica­zione non solo del lavoro operaio e contadino ma delle professioni. Più grandi masse umane possono atten­dersi di diventare, ancor più di oggi, oggetto e materia grezza dello sviluppo.

Il capitalismo italiano non può sperare di realizzare un simile programma senza fare i conti con una.carica di lotta operaia molto forte per la natura delle rivendicazioni, le forme di organizzazione, la visione complessiva dei problemi e la crescente esigenza di potere; con un movimento studentesco che la poli­tica riformistico-autoritaria può disorientare tempora­neamente ma è destinata ad alimentare in profondità; con sussulti di protesta generalizzata che impegnano zone, settori, strati scompaginati dallo sviluppo. Il ca­pitalismo italiano ha dunque bisogno, analogamente a quanto succede in tutta l'area occidentale, di un potere pubblico capace di fiancheggiarne l'opera con solide garanzie, capace di intrecciare la repressione violenta delle spinte sociali con un'azione flessibile di contenimento, regolazione, assorbimento. Uno sche­ma difficile, ma che per ora sembra il più realistico. E precisamente a quest'impresa dedica i suoi sforzi lo schieramento democristiano e socialista, nella ricerca di una fisionomia e di un grado di coesione adeguati alla domanda dei gruppi sociali dominanti.

 

L'intreccio riformistico - autoritario

Le contraddizioni della maggioranza tendono così a maturare e sfociare in una direzione diametralmente opposta a quella che il discorso sui «nuovi rappor­ti», se fosse una cosa seria, lascerebbe supporre. Ritrova spazio la pressione classica di destra, non per una alternativa « greca », ma come componente della linea di stabilizzazione riformistico-autoritaria che i gruppi dirigenti della DC e del PSI inseguono dal Quirinale all'EUR. Il prossimo congresso democri­stiano si appresta a riaffermare rudemente il potere «doroteo» e l'equilibrio moderato, con le ambizio­ni personali dell'on. Fanfani in sovrappiù, e con l'emargiminazione o l'allineamento delle minoranze.

La lacera­zione e frantumazione del PSI tocca nuovi vertici, oscillando però tra due poli che hanno in comune il segno negativo: quello isterico della destra socialde­mocratica, arricchito dalle tentazioni antiparlamentari dei suoi alti ispiratori, e quello più orgoglioso ma al­trettanto «governativo» degli ex-socialisti. In fondo, i gruppi che governano la maggioranza non hanno altra scelta. Gli uomini più rappresentativi di questi grup­pi, per quanto allarmati dall'inadeguatezza del loro potere rispetto ai processi reali, confessano qualche volta candidamente d'essere impotenti a emanciparsi da una condizione di sudditanza alle centrali del po­tere economico, a incrinare la saldatura tra privato e pubblico, tra imperi produttivi e apparato statale, a ritrovare una base di consenso meno fragile. Per gran parte decaduti a formazioni elettorali, di sele­zione del personale politico esecutivo, lontani dalla loro stessa tradizione originaria, con un sistema di pensiero e di valori logorato, i partiti democristiano e socialdemocratico avvertono ciascuno per proprio conto di non potersi rinnovare senza scontare una crisi di fondo. Ne rifuggono decisamente, e cercano le loro ragioni di sopravvivenza soprattutto perfezionando i  loro caratteri acquisiti, clientelari, di superfetazioni del capitalismo moderno. 

Nella media prospettiva, la fondazione su queste basi di un potere pubblico efficiente potrà rivelarsi impossbile se non riuscirà a crescere su se stessa, se non giungerà a coinvolgere la responsabilità delle forze ndacali e quella, determinante, delle forze politiche di opposizione. Ma la compromissione e lo snaturamento di queste forze, scontandone un'interna rottura sono un difficile obiettivo, di cui le classi dirigenti non fanno mistero ma che collegano al lento maturare di condizioni più favorevoli. L'itinerario prescelto più tortuoso, il meccanismo prediletto è ancora quello  di un blocco moderato e di una consumazione del tessuto democratico, che nei «nuovi rapporti» con opposizione dovrebbe trovare l'ambiguo complemento, il possibile ossigeno, il provvisorio anestetico, e  nella «soluzione d'ordine» la carta di riserva.

 

La sorte delle minoranze

Anche le minoranze che si agitano nella DC e nel PSI non sfuggono a questa logica. È vero che queste minoranze cercano di farsi valere in vario modo. Nella DC l'autocritica autunnale dell'on. Moro, il suo len­itivo di ripensare la realtà sociale e politica del nostro tempo, hanno assunto un respiro inconsueto. Le minoranze tradizionali si sono spinte più avanti del solito nell'abbozzo di un discorso non epidermico, con qualche invenzione (il «patto costituzionale») e una diffusa irrequietezza. Nel PSI, la ricorrente vocazione dell'on. De Martino al «disimpegno», ed ora in tumultuosa ricerca di nuovi equilibri intestini, sc­indono la fantasia dei cronisti politici ma riflettono anche un malessere reale. Sintomi certi della decomposizione che insidia le forze politiche tradizionali, sarebbe però arduo apprezzare questi fenomeni come indice opposto di vitalità e disponibilità, premessa di una nuova costruzione politica,

Non perché queste minoranze abbiano anch'esse, nei onfronti del sistema dominante, la stessa vocazione subalterna delle rispettive frazioni maggioritarie, delle frazioni politiche borghesi di cui condividono storia, cultura e orientamenti fondamentali. E neppure per altri aspetti: come il divario sconcertante tra le diagnosi dell'on. Moro e le sue proposte politiche, chiuse nell'orizzonte di partito e immiserite nel gioco di potere; o i contenuti vagamente mini-gollisti che si intravvedono entro la cornice della ventilata «fase ostituente»; o il perenne riflusso di queste forze inanzi a ogni occasione di scontro; o remarginazione, e ora il tentato incastro, della sola forza minoritaria del PSI che conserva, non foss'altro per la personalità del suo leader, un sincero proposito di rinnovamento.

Le ragioni d'impotenza di queste minoranze sono più profonde, non dissimili da quelle che alimentano la crisi di autonomia delle forze politiche in generale; e si riassumono nel fatto che la loro rappresentatività, il loro rapporto con la società, sono andati perdendo ogni fondamento oggettivo. Questi gruppi irrequieti, queste individualità sparse, si reggono quasi per forza d'inerzia, o come effetto speculare della forza della sinistra e risultato distorto della pressione popolare.

Quali sono i riferimenti di massa, non tanto in esten­sione quanto in qualità, di queste minoranze? Quan­do esistono, questi riferimenti degenerano spesso in un sistema di «feudi» locali e in un uso spregiudi­cato delle fette di potere disponibili. I processi so­ciali, politici e ideali che scuotono il mondo cattolico, nelle forme del dissenso o della spinta aclista, non solo sono esterni ai confini delle minoranze democri­stiane, ma con quei confini si scontrano; e in misura ancora maggiore vi urtano le spinte di fondo che il movimento studentesco e i nuovi livelli della lotta operaia esprimono. In campo socialdemocratico, la discriminante tra maggioranze e minoranze collabora­zioniste è affidata a un gioco di persone su scala na­zionale, e scompare in un intreccio di clientele su scala periferica.

Nessuno dei gruppi in lizza sembra preoccupato o in grado di colmare il vuoto di strut­tura e di presenza nella società che è all'origine della frantumazione socialista.

Nell'impostazione di queste minoranze, il dialogo con l'opposizione comunista si confonde così col propo­sito di ricavarne una forza contrattuale di cui sono di per sé prive. Il discorso sui «nuovi rapporti», sulla «non delimitazione », su altre formule che il genio politico nazionale escogita con fertilità, diventa offer­ta di supplenza, di compartecipazione a pratiche rifor­miste che dovrebbero ritrovare dignità, dopo le ama­re esperienze passate, per il fatto d'essere promosse da un più ampio arco di forze.

Protèsi in questo sforzo di trasformazione della pro­pria debolezza e subordinazione in debolezza e subor­dinazione altrui, questi gruppi rischiano così di com­promettere il ruolo positivo che potrebbero assegnarsi in un quadro diverso: se cercassero, e fossero in grado, di ristabilire un contatto con la base sociale naturale che si agita nel mondo cattolico ed anche in quello di tradizione riformista laica. Se si ponessero, più in generale, quel problema di ristrutturazione e rifonda­zione politica che la società contemporanea reclama in termini simili a quelli che investirono le forze di tradizione pre-fascista dopo l'esperienza rigeneratrice della Resistenza. E se fossero aiutate, in questa diffi­cile impresa, da un discorso non strumentale e da un'analoga riflessione dell'opposizione di sinistra su se stessa.

 

Un ostacolo per il movimento

Privo di avvenire, non vuol dire che il discorso sui «nuovi rapporti» sia però privo di effetti. Esso ha per lo meno il potere di seminare allarme e confusione. Allarme in una parte delle classi dirigenti e degli strati intermedi, che temono il precipitare di una crisi degli equilibri tradizionali, e tanto più sono tentati di ricorrere a estremi rimedi quanto meno avanza dal basso e prende corpo a livello politico una reale alternativa. L'esperienza storica, le vicende delle forze politiche tradizionali nel primo dopoguerra in Italia, quelle più recenti delle forze politiche in Francia, hanno già e fin troppo dimostrato che le grandi crisi sociali non si congelano per l'assenza di una mediazione e uno sbocco politico adeguati, ma procedono verso esisti negativi quanto più manca una proposta, una direzione egemone.

E confusione tra le masse, che soffrono dello scarto tra lo spirito di lotta che le anima, i traguardi verso cui tendono e l'ambiguo clima politico che grava sul paese, col rischio di una oscillazione del movimento fra riflussi, esasperazioni, fughe corporative. Le difficoltà crescenti del movimento studentesco, per esempio, sono riconducibili solo in parte ai suoi pro­pri limiti, all'esaurirsi della pratica pur così feconda delle lotte « esemplari » e del loro effetto detonante, ai problemi irrisolti del rapporto tra lotta nella scuola e lotta sociale generalizzata, agli interrogativi sulle for­me di organizzazione.

Queste difficoltà sono, anche, uno degli effetti della pratica riformistico-autoritaria che avanza dietro il discorso sui « nuovi rapporti» tra maggioranza e opposizione, distraendo una parte delle forze dalla lotta per una proposta alternativa. Al livello operaio, la contrattazione «triangolare» con i sindacati è nata con questa stessa ispirazione, e non c'è discussione sulla pianificazione che non pretenda di erigere a principio costitutivo la subordinazione ope­raia alle leggi della produttività aziendale e di siste­ma, sul terreno dei salari e su quello del potere di contrattazione e di intervento. Su questi terreni, lo schieramento di maggioranza è capace di incarognirsi perfino di fronte a modeste misure legislative come lo statuto delle libertà operaie, lasciando all'esperien­za di Agnelli e Pirelli la libertà di adottare nuove tec­niche di repressione flessibile, introducendo a sua vol­ta queste tecniche nell'industria di Stato, lasciandole fiorire nell'industria minore finanziata col denaro pub­blico. Il pauroso contrasto fra questa pratica e i ter­mini del «dialogo» di vertice con l'opposizione è molla non secondaria di quel processo di riorganiz­zazione autonoma dal basso della lotta operaia, di quei fenomeni ricorrenti di autonoma rivolta delle masse, anche di quelle nuove e sparse aggregazioni po­litiche a sinistra che in qualche modo reclamano un'al­tra linea generale.

Nell'area parlamentare, il discorso sui «nuovi rap­porti» obbliga spesso a misurarsi sui terreni scelti dall'avversario, dove i possibili risultati hanno un alto prezzo, quello di una contestazione puramente verbale delle disfunzioni e dell'inadeguatezza delle istituzioni. Il rischio è quello di una avanzata lenta ma tenace di un discorso maggioritario di tipo tecnico-ammini­strativo, che deprime ogni possibile mobilitazione di massa attorno a quest'ordine di problemi e logora la rivendicazione di un reale sistema di autonomie e di forme di auttogoverno popolare. Il  riferimento torbido dell'o. Piccoli a possibili collaboraziooni «tecniche»  negli organismi di potere locale, porta a do­mandarsi che cosa minaccia di diventare l'ordinamento regionale, specialmente nel Sud, in presenza di una debole struttura del movimento di classe, in mancan­za di una rete di organismi di autogoverno che sia capace di .rovesciare le tendenze al corporativismo o alla dispersione.

 

Un impoverimento ideale

Più in generale, c'è il pericolo che aumenti per le grandi masse - non solo per quelle cresciute secondo una prospettiva strategica di rovesciamento violento dell'ordine costituito, ma per le nuove generazioni e le avanguardie formate nello  scontro sociale di oggi — la difficoltà di cogliere un qualche plausibile nesso tra un'ipotesi tattica così impalpabile e una moderna linea rivoluzionaria, un progetto limpido di fondazio­ne di una nuova società. Un progetto che ha bisogno di affidarsi, comunque lo si voglia graduare nel tem­po, a una tensione di lotta, a una contrapposizione di valori, a una strutturazione del movimento, a un «clima» ben diversi dall'afa debilitante e avvilente che ci circonda. Può altrimenti derivarne una frustra­zione, un impoverimento ideale, il rischio di un disarmo, che sono il più alto prezzo che una collettività possa pa­gare e la "premessa di una compromissione non solo del presente ma dell'avvenire.

Apprezzando queste possibilità che gli si offrono, l'av­versario àncora a ragione il presunto «dialogo» a una duplice e distruttiva ipoteca. Si aspetta un distacco della sinistra dalla sua matrice internazionalista. Si aspetta che gli obiettivi di conquista del potere po­litico, di egemonia sul potere statale, di trasforma­zione della macchina statale si riducano al surrogato di una partecipazione alla gestione di questo Stato, di questo sistema politico, di questa società. Queste attese e sollecitazioni ci sono sempre state, è vero. Ma l'insidia è ora ben più grave, perché la crisi del sistema socialista europeo crea dei varchi, e l'illusione di una. evoluzione indolore nei paesi occidentali verso società più giuste può facilmente subentrare ad altre illusioni cadute: inducendo a scambiare il socialismo con il libero gioco delle forze sociali e politiche esi­stenti, con uno sviluppo produttivo più equilibrato ed equo ma fondato pur sempre, senza rimedio, sullo sfruttamento, sul profitto, sulla divisione del lavoro, sui privilegi e le stratificazioni che il capitalismo ha elevato al rango di categorie assolute. Forse, tra quanti portano avanti questo falso «dia­logo», c'è la presunzione ch'esso possa essere iscritto dalle forze rivoluzionarie in una prospettiva analoga a quella che ispirò la politica dei fronti popolari tra le due guerre, e che sorresse la fase costituente nel secondo dopoguerra. Ma comunque si giudichi l'espe­rienza dei fronti popolari, essa trovò la sua ragion d'essere come risposta al fascismo trionfante, su que­sto terreno aggregò forze realmente disponibili e pro­mosse una mobilitazione di massa secondo un reale denominatore comune.

Se non  inquadrò questa fase della lotta democratica in una compiuta strategia di lotta per il socialismo in occidente, fu in conseguenza di una valutazione della dinamica interna del capita­lismo e delle società occidentali che solo più tardi, con la fine delle ipotesi di catastrofe e del riferimento al modello sovietico, una parte dei partiti comunisti mo­dificò e superò. Ma era dunque una esperienza chiara nei suoi presupposti e coerente nei propri fini.

Ana­logamente, la fase costituente del secondo dopoguerra e la politica di unità democratica derivata dalla vitto­ria sul fascismo, per quanto parzialmente ancorata alle vecchie ipotesi e a un quadro internazionale « clas­sico », puntava sui varchi aperti dallo sfacelo dello Stato e dal dissesto delle strutture capitalistiche, si fondava su un reale processo di ristrutturazione dei partiti e delle istituzioni avviato nel fuoco stesso della lotta armata, e si proponeva in questo ambito, se pure con i limiti e i prezzi poi divenuti evidenti, una co­struzione non priva di suggestione.

Il discorso sui «nuovi rapporti» tra maggioranza e opposizione, nei termini in cui oggi avanza, non può vantare che una parentela spuria con queste esperienze storiche del movimento operaio. Altro non propone che una generale e impossibile conversione opportu­nista. Per noi, è solo un dialogo tra sordi. Ma è anche un intralcio alla costruzione di un'alternativa: una costruzione che non ammette vie traverse, che deve procedere dal basso, che deve fondarsi su nuove aggregazioni di forze sociali, che deve iscriversi in un nuovo orizzonte culturale e fondarsi su una pro­posta programmatica di lungo respiro, che presuppo­ne perciò una crisi e un rinnovamento profondo delle forze politiche tradizionali. È una costruzione diffi­cile, ma è la sola per cui valga la pena di lottare. In denitiva, si tratta di promuovere uno schieramento di forze sociali e politiche convinte che una transi­zione al socialismo si presenterà nel giro di questi anni come alternativa unica e obbligata a nuove e più mo­derne forme di reazione.

 

 

 

 

 

 



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