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di Rossana Rossanda e Luciana Castellina

 

Il 24 novembre del 1969 si riuniva a Roma in via Botteghe Oscure il Comitato centrale del Partito comunista italiano per radiare Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Natoli era stato un antifascista processato nel 1936 e poi dirigente della federazione romana; Pintor era il più brillante giornalista dell'Unità e Rossanda aveva diretto la sezione culturale del partito.

«Radiati» voleva essere meno grave che «espulsi», come negli altri partiti comunisti, con l'accusa di tradimento o comunque di indegnità morale. Noi eravamo accusati di aver costituito una «frazione»; in realtà non avevamo costituito nessuna frazione, non eravamo per nulla clandestini né avevamo cercato sotterranei contatti con altri gruppi di compagni; ma avevamo fatto forse di peggio: pubblicavamo dal giugno precedente un mensile di cultura politica che al primo numero aveva venduto oltre cinquantamila copie, era diretto da Lucio Magri e da me, e firmato da Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S.Karol, Michele Rago e Lucio Colletti.

Ci era stato richiesto di chiuderlo o modificarne la direzione, e avevamo rifiutato. A quelle del Comitato Centrale seguirono la radiazione di Magri e Luciana Castellina, nonché di quelli che avevano diretto e firmato la rivista e dei membri di diverse federazioni che, quando la questione del manifesto era stata discussa, ci avevano appoggiato.

Raramente il Pci si risolveva a espellere, se non chi fosse stato pescato con le mani nella cassa o simili; l'ultima volta per il Comitato Centrale erano stati i deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani, accusati di essere seguaci di Tito, il dirigente jugoslavo scomunicato dal partito comunista dell'Unione Sovietica. In un partito che si figurava come un esercito in guerra, la discussione era ammessa all'interno di una singola istanza e in presenza di un rappresentante delle istanze superiori, dopo di che si votava a maggioranza e tutto rientrava nell'ordine. 

Questo sistema, il «centralismo democratico» era un metodo di comando che consentiva alle istanze superiori non solo un controllo ma di capire che cosa avevano nella testa quelle inferiori, stabilendo il limite delle eventuali mediazioni. La vera discussione, fino ad autentici scontri, avveniva nella direzione, senza che ne uscissero e tanto meno fossero sottoposte al Comitato Centrale e alla base le linee di divisione, che si potevano soltanto intuire dai diversi accenti che i membri della direzione mettevano nei loro discorsi e comportamenti. La virtù più elogiata, di buono o cattivo grado, era la lealtà, forma onorevole di obbedienza.

 

 

L'uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, questo meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel ‘68 degli studenti e nel precipitare dell'autunno caldo del ‘69.

Una divergenza era venuta alla luce nel gruppo dirigente con la morte di Togliatti, nell'agosto del 1964. Non che fossero mancati scontri precedenti al vertice, sulla natura del «partito nuovo», quindi sulla svolta repressiva del 1948 all'est e nel 1951 con il rifiuto di Togliatti di lasciare l'Italia e spostarsi sul Cominform come chiedeva Stalin, quindi sull'esplodere della insurrezione ungherese del 1956 e nel X congresso del Partito che la seguì. Il punto era sostanzialmente lo stesso: quale tipo di partito doveva essere quello italiano e a quale legame era tenuto di fronte non più alla III Internazionale, sciolta nel 1943, ma alla funzione di «guida» del partito dell'Urss?

Fin dall'arrivo in Italia, nella primavera del 1943, Togliatti aveva affermato che non si sarebbe seguito il modello sovietico. Poteva parere un'astuzia, ma era sua persuasione che si sarebbe dovuto costituire, nella zona del mondo che gli accordi di Yalta lasciavano sotto influenza occidentale, un partito di massa, non un gruppo leninista di «professionisti della rivoluzione»; un partito democratico e progressista, cioè socialmente avanzato e costituzionale, che avrebbe cercato la maggioranza per far compiere alla nostra società una trasformazione di fondo. Una «rivoluzione»? Non nel senso di presa del potere e conseguente dittatura del proletariato, anche se fino al 1956 questo «no» non venne argomentato come né necessario né possibile in un paese a capitalismo maturo.

Il partito si dichiarava «marxista e leninista», ma sulla sua natura concreta Togliatti si era scontrato sia con i «vecchi» compagni sia con quella parte della resistenza che non accettava quella che avevano digerito come una tattica, un «per ora», utile anche a Stalin, l'Unione sovietica essendo uscita dalla seconda guerra mondiale con 22 milioni di morti e terribili urgenze di ricostruzione. E infatti la stretta del 1948 e 1949 nel campo dell'est, con i conseguenti processi ed esecuzioni, non era stata contestata dal Pci, né la condanna di Tito, anche se in quella occasione si verificò la prima grossa perdita di iscritti. Il Pci tacque anche sulla prima sanguinosa repressione operaia nella Germania del 1953.

La polemica su «quale partito» parve risolta nel 1954 con l'allontanamento di Pietro Secchia dalla responsabilità dell'organizzazione, dove aveva costituito «per ogni eventualità» una rete clandestina, ma lo scontro si riaprì nel 1956 e percorse per la prima volta anche la base con l'insurrezione ungherese e poi l'invasione sovietica del novembre 1956. Era evidente la richiesta di una democrazia negata.

 

Ora il nostro gruppo dirigente, dopo avere van­tato il XX congresso del Pcus, che con la tesi della coesistenza pacifica pareva andare nella nostra direzione, aveva ricevuto un duro colpo dal cosid­detto «rapporto segreto» sullo stalinismo, ma dife­se ugualmente l'intervento armato, pur evitando sanzioni disciplinari contro chi aveva protestato. Fu un turbamento profondo che male era sche­matizzato nel «rivoluzione subito» o «rivoluzione mai»: si schematizzava assai quel che poteva o non poteva fare un partito comunista in occiden­te. Di più, ma sottotraccia, quel che il gruppo diri­gente trovava auspicabile che fosse e facesse: lo stalinismo poteva essere avallato come dura ne­cessità per la Russia ma non ne derivava necessa­riamente, per chi l'aveva conosciuto, che fosse auspicabile per la società italiana. Ma il discorso non poteva essere aperto con questa brutalità senza rompere con l'Urss e in piena guerra fred­da. Soltanto dal seguente X° congresso, alquanto tormentato, e nella forma delle «vie al sociali­smo» proprie a ciascun paese uscìvincente la li­nea di Togliatti, che condannava ogni «duplici­tà»: in Italia il socialismo sarebbe stato raggiunto con lotte sempre più estese di massa e una cresci­ta della partecipazione in grado di produrre pro­fonde «riforme di struttura». E dopo la levata anti­fascista dell'estate del '60, si giunse per un mo­mento a parlare ai giovani di una «rivoluzione ita­liana» che tornava all'ordine del giorno (1961).

La crescita impetuosa del Pci, assieme al nuo­vo protagonismo giovanile, andava inoltre in pa­rallelo con l'ammodernamento del paese: la ri­conversione postbellica era stata dura ma aveva veduto grandi lotte, le migrazioni dalle campa­gne del sud alle industrie del nord ne cambiava­no la fisionomia, l'entrata delle donne nel lavoro cominciava a mutare la struttura familiare. E ne­gli stessi anni parve ridursi la stretta della guerra fredda: Kennedy parlava di «nuova frontiera», la Chiesa si apriva al Concilio Vaticano II°. E la Dc doveva accettare, dopo quindici anni di dominio incontestato, un governo di centrosinistra.

Di fronte al mondo in subbuglio il Pci perdeva tempo. E aprimmo una discussione radicale

Si apriva una fase riformista? E se sì, quale era la collocazione che il Pci doveva assumere in que­sto scenario? Esso avrebbe favorito un avanza­mento del movimento operaio o costituiva un pe­ricolo di assorbimento delle masse fino allora combattive? Il capitalismo italiano restava vec­chio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammo­dernato anch'esso, capace di innovazione e di una contrattualità meno repressiva? Gran parte del gruppo dirigente sosteneva l'incapacità stori­ca del nostro capitalismo di crescere con un più di apertura ai lavoratori e un sistema politico real­mente costituzionale, mentre una minoranza, an­che nel sindacato, segnalava già qualche innova­zione (il neocapitalismo) e un management non riducibile al «supersfruttamento» finora denun­ciato. Per la maggioranza, se la Dc era ormai co­stretta a far «passare» il Psi, sarebbe «passato» an­che il Pci;per la minoranza il Psi stava manifesta­mente cambiando di campo, il capitale aveva ar­mi più sottili e il Pci doveva intelligentemente spostarsi su una fase di lotta più avanzata. Le due tesi erano schematiche ma chiare. Nel 1982 un convegno indetto dall'Istituto Gramsci ne avreb­be messo in rilievo i protagonisti, da una parte Amendola, dall'altra Bruno Trentin della Cgil e Lucio Magri, con la simpatia di Longo.

Le elezioni dell'anno seguente, il 1963, parvero dimostrare, con la grande avanzata del Pci e la co­sternazione della Democrazia cristiana, che una «modernizzazione» era in corso, ma non faceva perdere al Pci nessun voto, divideva i socialisti, raccoglieva i primi sintomi di un acutizzarsi del conflitto sociale con le nuove figure operaie. Il pa­ese parve svoltare a sinistra.

L'improvvisa morte di Togliatti nell'agosto del 1964 eliminava il mediatore più autorevole fra le due posizioni, «spostando in avanti» - come si usava dire - il discorso. La direzione temette che se la successione si fosse giocata subito fra Amen­dola e Ingrao, i due capofila simbolici della di­scussione, ci sarebbe stato uno scontro, e preferì far durare l'interim di Longo, scegliendo a medio termine un successore terzo, come pareva Enrico Berlinguer. Ma era un armistizio: nel 1966 l'XT congresso, tutta la direzione, Longo incluso, mise intanto fuori gioco Ingrao, che sosteneva la neces­sità di prendere atto d'un cambiamento, di anda­re a un'alleanza non già fra Pci e Psi, come aveva proposto fuori tempo Amendola, ma con le sini­stre dei socialisti e dei cattolici, politiche e sinda­cali, per un «diverso modello di sviluppo» e nello stesso tempo consentire libertà di dissenso nel partito. La formula «diverso modello di sviluppo» lasciò perplesso il partito e la libertà di dissentire spaventò. Molto applaudito, Ingrao fu però spostato a un incarico onorevole ma meno decisi­vo e i sospetti «ingraiani» furono tutti rimossi da­gli incarichi. Il primo scontro pubblico fra due li­nee finì con la sconfitta di una fin troppo ragione­vole sinistra.

Cadde dunque su Longo il terremoto di fine de­cennio: il '68 degli studenti, inedito movimento giovanile che si apriva in diverse parti del mon­do, e poi l'«autunno caldo» nel '69 degli operai ita­liani, fabbriche occupate e in autogestione, che avrebbe liquidato le commissioni interne, cin­ghie di trasmissione delle confederazioni, e rinno­vato contenuti e metodi delle lotte. Contempora­neamente nel '68 era partito il «nuovo corso» ce­coslovacco, e benché Longo avesse messo in guardia il Pcus, l'esercito sovietico invase Praga e arrestò Dubcek, insediando al suo posto Husak. Il Pci condannò come «tragico errore» l'interven­to armato dell'Urss, non attaccò gli studenti ma neanche tentò un dialogo serio con loro (ecce­zion fatta per un incontro di Longo), lasciò alla Cgil di riportare quel forte movimento operaio, in modo soft, negli argini di un avanzato contratto che cambiava alcuni rap­porti di forza in fabbrica (anche se il «sindacato dei consigli» era un poco so­spetto alle Botteghe Oscu­re).

Insomma di fronte al pianeta in subbuglio il Pci prendeva tempo. Perdeva colpi, pensarono alcuni di noi, ex «ingraiani». E non avendo nulla da perdere riaprimmo la discussione: dicemmo al CC e altrove che l'invasione della Ceco­slovacchia non era un tra­gico errore ma la logica conseguenza del dominio dell'Urss sulle democrazie popolari, che gli Stati Uniti stavano perdendo nel Viet­nam, che il movimento de­gli studenti e dei nuovi operai allargavano e quali­ficavano negli obbiettivi il «blocco storico» della rivo­luzione italiana, che il Partito, invece che frenare, doveva e poteva dare loro una sponda. Non fum­mo i soli anche se i più espliciti: dalla federazione giovanile alle commissioni di lavoro del CC il fre­mito della società premeva sull'apparato.

Il Pci non offrì sponde. Non attaccò ma non si mosse. Magri, Natoli, Pintor, Rossanda decisero di sfidare il gruppo dirigente fuori della consueta procedura. Natoli, Pintor, Rossanda e Caprara in­tervennero dissociandosi prima sulla Cecoslovac­chia poi dalle Tesi nel Comitato Centrale e ai pri­mi tre fu concesso di parlare al X1I° congresso del partito all'inizio del 1969, cosa che fecero senza reticenze, suscitando le ire della delegazione so­vietica, che ostentatamente si alzò e uscì dalla sa­la trascinando con sé gli altri partiti «fratelli». La segreteria aveva deciso questa apertura, impensa­bile negli altri partiti comunisti, anche per trarre vantaggio dal suo democratismo. Il congresso fu colpito dai reprobi per dir cosìconsentiti, li ap­plaudì molto, ma esitò a votare una mozione as­sieme a loro. Berlinguer concluse con un inter­vento critico contro di essi, ma senza minacce, che suonò come una qualche apertura.

 

 

Non volevamo spaccare il partito, ma cambiarlo. Così non facemmo alcun lavoro di frazione. I tre che avevano parlato furono rinominati nel CC ma restarono sollevati da ogni incarico. La discussione era di nuovo bloccata. Decisero al­lora di pubblicare da soli un mensile di cultura e politica, ne avvertirono Berlinguer che aveva or­mai sostituito Longo, gravemente ammalato, e il primo numero de II manifesto, evidente richiamo a Marx, uscì il 23 giugno dello stesso anno, ven­dette oltre cinquantamila copie. Niente di simile era mai avvenuto in un Partito comunista del do­poguerra. Il mensile, che attaccava la conferenza mondiale di Mosca contro la Cina, definiva «sen­za avvenire» il dialogo con la Dc (Luigi Pintor) eb­be un grande successo, agitando le acque nel par­tito e fuori di esso. Bufalini lo attaccò duramente su Rinascita e fu convocato un Comitato centrale nel quale il relatore, Alessandro Natta, ne criticò i contenuti e chiese ma senza toni ultimativi il rien­tro nella disciplina. Nel mese seguente Berlin­guer propose o di allargare la direzione della rivi­sta ad altri membri del partito, su posizioni per la direzione più accettabili, o preferibilmente passa­re ad altri incarichi. Diversamente da Amendola, Bufalini e Pajetta, egli era manifestamente non ostile ad allargare lo spazio del dibattito, con qual­che prudenza.

Il manifesto non cedette e ai primi di settem­bre usciva il numero 4 della rivista con l'editoria­le «Praga è sola», scritto da Lucio Magri, che de­nunciava la «normalizzazione» avvenuta in quel paese nel silenzio dei partiti comunisti. Sembra che ci siano state violente proteste del Pcus pres­so il Pci. Si riunì la V commissione del CC (disci­plina) condannandoci, e un secondo e più rigido Comitato Centrale ci chiese di rinunciare del tut­to alla pubblicazione come frazionista e invitò tut­te le federazioni a pronunciarsi. La consultazione si rivelò singolarmente aperta, alcune città votan­do addirittura a maggioranza in nostro favore. La segreteria la sospese d'improvviso indicendo per il 24 novembre un terzo Comitato centrale.

«Siete ancora in tempo, date una prova di fe­deltà» ci offrì prima dei lavori Enrico Berlinguer. «Non è fedeltà che volete, ma obbedienza». Fu Al­do Natoli a rispondere per tutti a Berlinguer con la dichiarazione di voto finale: «Si può essere co­munisti anche senza tessera». I risultati della vota­zione sono stati i seguenti: 3 contrari (Natoli, Pin­tor, Rossanda), 3 astenuti (Chiarante, Lombardo Radice, Luporini), tutti gli altri hanno votato a fa­vore delle conclusioni di Natta. Sergio Garavini, assente al momento del voto, ha successivamen­te inviato una lettera nella quale dichiara che, se fosse stato presente, si sarebbe astenuto.

Il gruppo del manifesto era fuori dal Pci. Nessu­no dei grandi editori avendo accettato di stampa­re la rivista, avevamo stretto un accordo con un intelligente tipografo di Bari, Coga, cui consegna­vamo gratis l'intero testo e assicuravamo la mes­sa in pagina. Egli avrebbe stampato e diffuso il mensile, trattenendone il ricavo, salvo cinquemi­la copie che restavano a noi e dalla cui vendita avremmo tratto il necessario per una modesta se­de e la sopravvivenza. La grafica era assicurata da Giuseppe Trevisani, la scrittura naturalmente gra­tuita e Ornella Barra avrebbe garantito la segrete­ria per anni. L'eco fu assai grande, dentro e fuori dal partito - anche se stupì e fu presto guardato con sospetto un gruppo che voleva «uscire dallo stalinismo da sinistra». Ottenemmo molte firme e sarebbero state di più se firmare non avesse si­gnificato mettersi contro il Pci.

Che fare? La nostra intenzione non era stata di spaccare il partito ma di instaurarvi un perma­nente principio di elaborazione e di critica. Dun­que non procedemmo in un lavoro di frazione, contattando le migliaia di compagni con i quali avevamo avuto a che fare in una milizia di alme­no venticinque anni, e dei quali conoscevamo l'inquietudine. Forse fu un errore, ma veniva da una grande ambizione: non ridurre il caso del ma­nifesto a un intrigo e lavorio di corrente ma tener aperto in esso, come nella Cgil, e contattando la molteplice nuova sinistra non staliniana che si era formata o si andava formando. Il rapporto più ravvicinato fu con Potere Operaio, ma non si approdò a nessuna unificazione perché ci divide­va la sua tendenza a far subito un partito, e in qualche misura insurrezionalista.

Continuammo dunque a far uscire il mensile e a creare circoli di dibattito finché, nel 1971, Luigi Pin­tor propose di trasformar­ci in un quotidiano, forma pressante di una politica che poteva circolare dap­pertutto. Il quotidiano, del tutto autofinanziato, uscì il 28 aprile. La testata dura ormai da 38 anni, sempre difficoltà, sempre libera.

Una stretta politicista la avemmo, forse per errore forse per la forza delle co­se: ci presentammo alle elezioni politiche del 1972 con una lista che ebbe grande ascolto nei comizi ma raccolse soltanto lo 0,66 per cento dei voti e ne disperse, assieme allo Psiup e al Mpl, quasi un milione. Non eravamo tut­ti d'accordo su questa scel­ta, ma quelli di noi che vi insistettero rappresentava­no la spinta ad accelerare che veniva dalla base, bisognosa di un risultato visibile a breve. Non è semplice sopravvivere in politica con una pubbli­cazione di sinistra fuori di ogni istituzione e nei tumultuosi anni Settanta. Nelle cui vicende si comprende la storia del manifesto come gruppo, che formò il Partito di unità proletaria per il co­munismo (Pdup) assieme alla sinistra socialista, in particolare Vittorio Foa e Pino Ferraris, e il Mo­vimento di Gian Giacomo Migone, e quella del giornale che a un certo punto se ne separò per ri­prendere la propria autonomia.

Da allora la storia del manifesto, gruppo e gior­nale, si intreccia con quella, ancora mai fatta con un minimo di oggettività storica, degli anni '70. Incontrammo infatti la reazione dell'establish­ment, la crisi dell'energia e la proposta di Berlin­guer del compromesso storico dopo la vicenda del Cile, la controffensiva della Trilaterale e del neoliberismo che seminarono lo scompiglio o l'estremismo in molti gruppi della nuova sinistra. L'appoggio del Pci al governo Andreotti del 1976 radicalizzò i gruppi. Il dialogo che ci eravamo ri­promessi nel '69 non si è realizzato, ma il Pci è an­dato declinando, malgrado la seconda svolta di Berlinguer nel 1979 e la tenuta elettorale, sino al­la fine accelerata nell'89.

Quanto alle sinistre alla sinistra del Pci, non riuscirono a coagularsi in una forza effettiva nel decennio '70 e tanto meno '80, pur avendo spun­ti importanti e non per colpa della piccola ma im­pressionante deriva nella lotta armata. Si forma­va durevolmente soltanto il secondo femmini­smo, con rapporti turbolenti e difficile sia col Pci sia con i gruppi extraparlamentari. Passavano at­traverso di noi la fine del capitalismo keynesiano e dello stato sociale e a venti anni dalla radiazio­ne la crisi dell'89, che abbatté l'Urss e i partiti co­munisti, ma della quale una sinistra non approfit­tò con quello che poteva essere un rilancio comu­nista autentico. Oggi tutte le carte appaiono di nuovo rimescolate, ma una sinistra che possa chiamarsi tale non ha più una presenza politica determinante.

 


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