UN INIZIO, MA SUBITO
numero 2 febbraio 1970
Occorre combattere oggi, come nemico principale, il pessimismo che comincia a serpeggiare tra l'avanguardia che le lotte del '68-'69 hanno formato. Un pessimismo che assume forme diverse quanto diverse sono le forze che compongono questa avanguardia. Ma al fondo si coglie una radice comune: la sfiducia nella possibilità di contrastare oggi, politicamente e a livello di massa, l'egemonia riformista.
Non si può negare che la situazione attuale, almeno in apparenza e considerata staticamente, offra a questo pessimismo qualche argomento. Lo sviluppo della lotta di classe nella seconda parte del 1969 ha seccamente deluso l'attesa di una crisi irreversibile del riformismo borghese e delle organizzazioni operaie tradizionali. I margini di concessione di cui il sistema si è dimostrato capace sono stati rilevanti, anche se resta ancora da vedere quali nuove tensioni economiche e sociali siano per questo destinate a prodursi. E portando a buon fine gran parte degli obiettivi essenziali che il movimento di massa esprimeva (sia sul terreno salariale che su quello della democrazia), i sindacati e i partiti di sinistra hanno potuto isolare o reprimere le punte più politiche ed eversive del movimento stesso.
Così, a conclusione dei contratti, non solo si ricostituisce il governo quadripartito, ma questo già nasce come ponte verso « nuovi rapporti » tra maggioranza e opposizione di sinistra: finito il capitolo delle lotte di fabbrica, dovrebbe aprirsi quello delle « riforme ». Due anni di lotte politiche e sociali estremamente aspre e avanzate, negli obiettivi come nella forma, appaiono dunque privi di uno sbocco politico reale: o meglio, il solo sbocco che si profila ne impoverisce il significato e appare comunque incerto e deludente.
Né si può dire che, da questa contraddizione, escano cresciute nella forza e nel prestigio quelle forze che si erano più apertamente battute su di una linea diversa, rigorosamente antagonista rispetto al sistema. La mobilitazione di studenti e di gruppi minoritari, che nella primavera-estate aveva ottenuto effettivi risultati politici e organizzativi, non ha trovato in autunno né lo spazio né il discorso per influenzare l'esito delle lotte; ed essi escono dalle lotte più incerti, divisi, con una minore area di influenza.
Le ragioni di una sconfitta
E tuttavia noi siamo persuasi che il pessimismo di cui parliamo non abbia un reale fondamento. Lo siamo, innanzitutto, perché crediamo che la relativa sconfitta delle forze rivoluzionarie nel corso dell'autunno sia stata legata non solo né soprattutto a cause oggettive, ma anche e soprattutto a carenze di organizzazione e di linea che non è impossibile combattere o modificare.
Il movimento di lotte sociali che ha sconvolto in questi anni l'Italia è stato ed è estremamente complesso. In esso confluiscono spinte molto diverse. Ad una spinta riformatrice, se ne è intrecciata una di radicale opposizione al sistema che nasceva dal maturare di nuove contraddizioni nei punti più avanzati (scuole, grandi fabbriche) o era indotta dalla crisi dell'egemonia mondiale imperialista, e infine si è cumulata l'esplosione di tumultuose spinte settoriali o corporative legate a tradizionali sacche di arretratezza o a nuovi interessi particolaristici che il neocapitalismo fa prolificare.
Il problema decisivo, rispetto ad un tale movimento, era la presenza di una forza politica, cioè di una cultura e di una organizzazione, capace di unificare le componenti senza negarne la specificità ma mediandole in una strategia comune, al più alto livello. Non era un compito facile perché il dinamismo e la forza che il sistema conserva, gli consentono di opporre al movimento una linea elastica che ne assorbe in parte la spinta riformista. Ma non è neppure un compito impossibile perché le particolari difficoltà di questa fase dello sviluppo capitalistico, la mancanza di una sicura egemonia politica, la presenza di una tradizione rivoluzionaria e classista rendono, in Italia, più naturale la saldatura tra i vari elementi e più facilmente ne orientano la spinta verso un avversario politico e generale
Se quella saldatura non si è operata, o non si è operata abbastanza da costituire una alternativa, lo si deve innanzitutto al fatto che nessuno vi ha seriamente lavorato. Non vi ha lavorato, in primo luogo, la forza che per tradizione e dimensioni ne aveva la massima responsabilità: il partito comunista. Conta meno il fatto che esso non abbia posto esplicitamente un obiettivo rivoluzionario; conta più il fatto che questa scelta strategica gli abbia impedito di lavorare sul serio alla qualificazione e all'unificazione del movimento di lotta.
Il PCI era stato colto di sorpresa dal movimento studentesco nel 1968: fu allora che si è realmente interrogato sulla necessità di un adeguamento profondo della propria strategia. Ma quegli interrogativi sono stati presto abbandonati. Il XII congresso segna il punto di svolta. Le lotte operaie, cresciute dopo di allora, sono state dirette consapevolmente in modo da circoscriverne la spinta politica anche quando alcuni obiettivi (aumenti uguali per tutti, nuove istituzioni di democrazia diretta, rifiuto radicale di ogni gabbia salariale) sollecitavano direttamente una valorizzazione politica, e spontaneamente si ordinavano ad una strategia antiriformista. Il problema dell'unificazione del movimento a livello sociale, dopo le parziali esperienze delle pensioni e delle zone, è stato di fatto accantonato. La spinta dirompente di massa verso una rapida unità sindacale è stata più frenata che sollecitata dai vertici confederali. La crisi incipiente dell'imita politica dei cattolici e la rottura della socialdemocrazia non sono state assunte come occasione storica per uno sconvolgimento delle forze politiche e una ristrutturazione della sinistra anticapitalista, ma contenute dal rinnovato credito concesso alla sinistra democristiana e alla nuova maggioranza del PSI. Importa dunque poco se e quando i comunisti si propongono di andare al governo: importa che già da tempo subordinano a questo fine la loro direzione del movimento.
L'opposizione di sinistra a questo disegno è stata inefficace o controproducente. La « sinistra » interna al PCI, al sindacato e al PSIUP, che con le sue battaglie passate aveva non poco contribuito alla qualità e alla estensione delle lotte (elaborazione delle piattaforme rivendicative, democrazia e unità sindacale, rapporto con i cattolici su posizioni anticapitaliste, critica del riformismo) ha, nel momento del loro massimo sviluppo, accettato di condurle sotto il segno della strategia tradizionale. Così, se è stata il tramite attraverso il quale più facilmente certe pressioni di massa trovavano eco nelle scelte delle grandi organizzazioni (aumenti egualitari, delegati di reparto, ecc.) è stata anche la copertura necessaria perché il movimento non sfuggisse al loro controllo e non ne contestasse la linea generale. Senza questa mediazione le masse, almeno nella fase più recente, avrebbero comunque avuto la forza di imporsi alle burocrazie di partito e di sindacato; ma molto più difficilmente quelle burocrazie avrebbero avuto la forza di controllare politicamente il movimento..
L'azione dei gruppi esterni, minoritari, è stata ancor più inconcludente. Essi non hanno neppur cercato, né nella scuola né nelle fabbriche, di partire dalla tematica reale delle spinte sociali per costruire su di essa un più elevato livello di lotta, di coscienza, di organizzazione, di schieramento. Hanno creduto che la tensione tra la classe e le sue istituzioni fosse ormai giunta ad un momento di rottura. Hanno dunque fatto della denuncia dell'opportunismo la questione fondamentale, utilizzando a questo fine, spesso strumentalmente, o il massimalismo sindacale o l'ideologismo dogmatico; e hanno sistematicamente ignorato il problema dell'unità proprio in un momento nel quale le masse ne riscoprivano tutto il valore. Così non hanno inciso sullo sviluppo delle lotte, né aperto più acute contraddizioni nel partito e nel sindacato, né fatto crescere la coscienza politica di massa.
Questo è l'elemento che più d'ogni altro ha finora impedito la formazione di un'alternativa nel corso della lunga crisi italiana, proprio come lo ha impedito nelle settimane drammatiche del maggio francese: la mancanza di una forza politica capace non solo e non tanto di acutizzare la crisi e di dare al momento opportuno una parola d'ordine d'assalto al potere, ma anche e soprattutto di costruire il movimento, di risalire alle radici dei suoi bisogni, di dirigerlo verso le strutture portanti del sistema, di definire un programma.
È un vuoto che non si può colmare facilmente e rapidamente. Proprio per questo l'esito della crisi oggi aperta nel paese è gravemente pregiudicato; la rivoluzione non è dietro l'angolo. Nessuno di noi l'aveva mai pensato: ma certo l'assenza di una obiezione rivoluzionaria che l'ultimo anno ha messo in luce, costringe ad un ancor più severo realismo. Ma diventano per questo irrilevanti e impossibili un lavoro politico e una lotta sociale chiaramente ispirati ad una strategia rivoluzionaria? Per la rivoluzione si può lavorare politicamente e a livello" di massa solo quando essa è alle porte, o non basta, come noi pensiamo, l'esistenza di uno scontro sociale, di una crisi reale, nella quale il problema rivoluzionario oggettivamente si ponga alla esperienza delle masse?
Ed è appunto questa la situazione di oggi: ed è la seconda, la fondamentale ragione per la quale riteniamo infondato il pessimismo, la rinuncia. Abbiamo ancora di fronte un periodo travagliato nel corso del quale risulteranno sconvolti tutti gli equilibri politici e sociali. Dall'efficacia e dall'unità con le quali le forze anticapitaliste si muoveranno nel corso di questa crisi, e dalla misura in cui esse riusciranno a condizionare, a mettere in crisi lo schieramento riformista e le forze oscillanti, dipende se non la possibilità di un esito rapidamente vittorioso della lotta, almeno il modo in cui la classe operaia limiterà le conseguenze di una eventuale sconfitta, con quale grado di coscienza e di organizzazione ne uscirà, con quali possibilità dunque di ulteriori avanzate. Questa è la posta in gioco che giustifica e reclama un impegno politico immediato.
La crisi è ancora lunga
Perché riteniamo che la crisi sia ancora tutta davanti a noi? Perché le lotte del 1968-69, se anche non sono riuscite a costruire un'alternativa, hanno però creato contraddizioni immediatamente non sanabili nell'equilibrio capitalistico. La rottura del blocco salariale è solo un elemento secondario anche se non trascurabile di questo quadro. Ciò che conta di più sono i nuovi rap-° porti di forza creatisi, soprattutto in fabbrica, nell'arco di lotte degli ultimi anni: un nuovo livello di combattività e di autonomia della classe, la formazione di nuove avanguardie, la fiducia generale nella lotta, la superiore unità operai-tecnici, e gli istituti nei quali tutto questo si è cristallizzato (i delegati, le assemblee di fabbrica, i nuovi diritti di intervento nella organizzazione del lavoro). Nelle fabbriche italiane la possibilità di ristabilire, dopo i contratti, la pace sociale, il diritto assoluto delle direzioni aziendali, la disciplina operaia, è molto aleatoria. Per rovesciare questo rapporto di forza occorrerebbe, per i capitalisti, una politica recessiva drastica, un mercato del lavoro dominato dalla disoccupazione: ma giocare questa carta significherebbe correre economicamente e politicamente rischi gravissimi.
L'unità sindacale è destinata, almeno liei breve periodo, a funzionare come ulteriore acceleratore dello scontro. Se a lungo andare, in un clima di riflusso e di sconfitta politica, essa può anche risultare preziosa alla stabilità del capitalismo maturo, stimolo e regolatore del suo sviluppo, è evidente che oggi essa sta nascendo, in Italia, sull'onda del movimento, con un forte controllo di base, con una secca sconfitta dei vertici confederali (Storti-Novella) e dunque con un segno assolutamente opposto. L'illusione che la borghesia ha nutrito negli anni sessanta di trovare nel sindacato un interlocutore sufficientemente disponibile per evitare il problema più spinoso del rapporto con il PCI, non regge oggi più. Anzi, è il rapporto politico con il PCI a diventare necessario per riconquistare il sindacato alle regole del gioco.
Anche in altri settori del corpo sociale le tensioni non accennano a diminuire. Il movimento studentesco e in crisi; ma la sua crisi non basta né a ridare prestigio al sistema tra le masse degli studenti, né a creare uno spazio reale per una politica scolastica razionaliz-zatrice. Altre lotte, per la casa ad esempio, o per la salute, sono latenti e, forse per la prima volta, hanno una base di massa e sono difficilmente riassorbibili con misure assistenziali o con una dilatazione della spesa pubblica. La tesi, sostenuta dal PCI o da altre forze del centro-sinistra, secondo cui proprio da tali lotte, ove si traducano in serie riforme, può rapidamente derivare un più dinamico equilibrio del sistema, è una tesi puramente propagandistica e tradisce solo la preoccupazione di presentare gli operai e i loro partiti come i più preziosi alleati del « progresso » dell'attuale società.
Tutto ciò si è riflesso e si rifletterà sui partiti di governo e sulle istituzioni dello stato. Da un lato, infatti, si stanno erodendo i collegamenti di massa delle forze di governo. L'unità realizzata nelle lotte, l'unità sindacale e la fine del collateralismo delle Acli, mettono per la prima volta seriamente in pericolo l'unità politica dei cattolici. Se la DC non vuol perdere bruscamente la sua supremazia politica ed elettorale, se vuole evitare il rischio di una scissione, ha un bisogno vitale di proporre, almeno finché la situazione non sia mutata, l'ipotesi di un allargamento graduale a sinistra della maggioranza di governo. Anche il partito socialista può salvare solo in questa prospettiva quel poco che gli resta di presenza nel sindacato, tra la base operaia, tra giovani e intellettuali.
Certo, non è mancato nella borghesia italiana nell'ultimo anno anche chi ha cercato di tagliar corto con una prova di forza, di creare artificiosamente un clima di paura sociale che consentisse una prova elettorale favorevole allo schieramento moderato. Ma si è provata l'inesistenza, o almeno l'immaturità delle, condizioni necessarie ad una tale soluzione: manca un sicuro punto di riferimento intorno al quale le forze conservatrici possano trovare una convinta unità, manca una crisi economica grave, manca la « paura della rivoluzione ». Cosi, la scissione socialdemocratica, le due crisi artificiosamente montate sui fatti di Milano (morte di Annarumma e attentati dinamitardi) e oggi la campagna repressiva hanno fallito il bersaglio più ambizioso. La fondamentale ipotesi su cui il sistema può nel futuro ricostruire la propria relativa stabilità, ma che già oggi è condizione essenziale perché la crisi non precipiti, resta quella di un nuovo rapporto con il partito comunista.
Ma è proprio qui che appare in piena luce la contraddizione. Le condizioni per una reale compartecipazione del PCI, in qualsiasi forma, al potere, sono nell'immediato del tutto carenti. Mancano, innanzitutto, le basi oggettive nella situazione economica, in quella sociale, in quella internazionale, per un pacchetto di riforme e una serie di scelte politiche sufficienti a soddisfare quanto basta i bisogni delle masse e le legittime « ambizioni di potere » dell'opposizione. Ma mancano ancora, soprattutto, il blocco di forze sociali e lo schieramento politico capaci di realizzare già oggi una tale operazione.
Un dialogo tra l'attuale maggioranza di governo e il PCI non può avere serio fondamento se non come alleanza sociale tra l'ala avanzata del capitalismo italiano (la grande industria con i gruppi sociali ad essa collegati) e la classe operaia più moderna — la stessa alleanza sociale che costituì, in altri tempi, la base dell'intesa fra Giolitti e Turati. Essa comporta oggi, però, enormi difficoltà. E cioè: una lotta contro posizioni parassitarie e di rendita che metterebbe in crisi l'attuale sistema di alleanze su cui si regge il potere capitalistico; il sacrificio di alcuni settori arretrati di piccola borghesia che sono parte costituente della base elettorale comunista; la liquidazione delle spinte operaie e studentesche che pongono in discussione l'unità e l'efficienza del potere nella fabbbrica e nella scuola. Tutte condizioni che non esistono ancora e che comunque passano per uno sconvolgimento degli schieramenti su cui si è retta la società italiana negli ultimi venti anni.
Sul terreno politico e istituzionale la situazione è analoga. La DC e il PSI mancano oggi della compattezza e della forza per dar fiducia alla borghesia in un'operazione tanto delicata, e mancano dell'autonomia e della convinzione necessarie per imporsi sull'agglomerato di interessi che controllano. E, anzi, ogni linea politica che comunque possa limitare l'area di potere da loro occupata a tutti i livelli della società sarebbe destinata a creare una vera esplosione dei loro già pericolanti equilibri interni. Nel momento in cui avviassero un reale discorso verso il PCI, la loro unità e il loro rapporto con l'elettorato rischierebbero di entrare in crisi.
Il PCI, dal canto suo, proprio per controllare il movimento di massa e anche per aprirsi la via ad una trattativa non indecorosa, ha dovuto assumere atteggiamenti, stringere legami, sostenere obiettivi, acquisire strutture organizzative che lo vincolano e gli impediscono di assumere con coraggio un nuovo atteggiamento verso il governo senza aprire al proprio interno una lotta acuta. Entrambi gli interlocutori, dunque, hanno molto poco da dare e molto da chiedere. E il dialogo perciò deve procedere in modo così vago e privo di impegni reali da diventare esso stesso un fattore di instabilità. Serve a bloccare la formazione di un'alternativa di sinistra, non a ricomporre le tensioni.
Tutto ciò non porta affatto ad escludere la possibilità di uno sbocco riformista della crisi in atto. Anzi, non vi è dubbio che proprio le dimensioni dello scontro sociale e la forza del movimento possono creare forse per la prima volta in Italia le condizioni oggettive perché il sistema sia costretto ad affrontare sul serio il problema della sua razionalizzazione e del suo rapporto di fondo con l'opposizione di sinistra. Molti degli stessi caratteri del movimento (l'unità sindacale, l'esplosione delle spinte corporative, la liquidazione delle rigide strutture ideologiche, il rimescolarsi dei gruppi sociali intorno a precisi interessi) possono — in un altro quadro politico, e quando una esperienza fosse ormai consumata — divenire elementi essenziali di una società capitalistica maggiormente integrata, con un più solido e ramificato apparato di mediazioni. Qualcosa di simile a quanto è accaduto, negli Stati Uniti, dopo la Grande Crisi e il New Deal. Ma tutto ciò, ammesso che sia possibile (e non è affatto sicuro) dovrebbe comunque passare attraverso sconvolgimenti radicali delle strutture e delle organizzazioni esistenti, attraverso « strette » nel corso delle quali si ripresenterebbe anche la minaccia reazionaria. Questa è la nostra previsione. Questa la base grazie alla quale riteniamo necessario e possibile lavorare oggi ad una ristrutturazione della sinistra italiana, alla formazione di una nuova forza politica rivoluzionaria e di nuovi livelli di organizzazione e di coscienza di classe. Con chi, come, con che tempi?
Una nuova forza rivoluzionaria
Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno spinto, sia pure in modi e in misura diversi, molte forze ad acquisire coscienza dei limiti della strategia riformista, o ad impegnarsi in esperienze di lotta che oggettivamente la travalicano. Il primo problema è di riconoscerle senza settarismo, di tener conto, in una situazione tanto dinamica, dei tempi e delle forme proprie alla maturazione di ciascuna di esse. Non è infatti importante raccogliere una qualsiasi avanguardia, è importante raccogliere un'avanguardia che per il suo discorso, la sua capacità di iniziativa, il suo modo di organizzarsi, sia in grado di vivere all'interno del movimento di massa e di incidere positivamente sulla sua capacità di lotta. Non crediamo, e l'abbiamo dimostrato, in un recupero graduale delle attuali organizzazioni attraverso una lotta al loro interno che ne rispetti gli attuali meccanismi. Ma la cosa che le masse non perdonano a nessuno è che si lavori con accanimento allo smantellamento delle organizzazioni esistenti prima che si possa, e che loro stesse siano capaci, di sostituirle con altre. Esse non possono, tanto meno in una fase di lotta acuta, fare a meno di una qualche organizzazione. Prima che siano mature le condizioni di un nuovo partito o di un nuovo sindacato capaci realmente di unificarle e di dirigerle, le avanguardie che lottano contro la strategia del partito o del sindacato attuale hanno dunque un bisogno vitale di agire incidendo anche sulle scelte e i comportamenti di coloro per i quali quella critica non è ancora del tutto consapevole. Non una sola forza di quelle che confusamente si muovono in una direzione giusta dovrebbe risultare inoperante. Occorre porsi il problema dell'unità prima ancora di essere una minoranza organizzata.
Una seconda componente, quella più numerosa e importante, è costituita da coloro che militano nel PCI, nel PSIUP, nei sindacati di classe, anche se ne criticano più o meno radicalmente la linea. Proprio le lotte hanno ingrossato le file di questa opposizione silenzio-» sa: l'errore peggiore sarebbe di impedire con un atteggiamento settario, con la richiesta schematica di una scelta organizzativa pregiudiziale la sua maturazione. Ma a tale maturazione non basta certo la pura esperienza delle lotte, né basta quella timida e carbonara battaglia di sfumature che le organizzazioni sono disposte a tollerare. Essa avverrà, se avverrà, solo se l'esperienza di lotta e il dibattito interno saranno illuminati, stimolati, generalizzati da una iniziativa esterna, da un processo di strutturazione della sinistra già avviato nei fatti e al di sopra delle organizzazioni esistenti e se, a loro volta, a tale processo daranno un loro contributo, accettando di correre continuamente il rischio della emarginazione e della condanna. Così come noi abbiamo accettato lo scontro con il gruppo dirigente del PCI, non abbiamo arretrato di fronte alla radiazione, pensiamo che altri compagni, nella stessa logica e non per impazienze scissioniste, faranno altrettanto.
Ancora più contradditoria appare la situazione di una terza componente, quella cattolica. Eppure è un elemento essenziale, perché dall'evoluzione in atto nella base popolare cattolica dipende in larga misura l'esito e la natura dell'operazione riformista. Sono qui in gioco, infatti, grandi masse che muovono da lontano, cioè da una tradizione politica moderata e anticomunista, e che oggi vivono esperienze di classe e ideali che intrinsecamente già travalicano il possibile traguardo riformista, ma secondo un itinerario lento e confuso. La direzione ed il livello del loro approdo sono decisivi ma incerti. Tanto più incerti in quanto in questi anni ristrette avanguardie cattoliche intellettuali hanno bruciato le tappe di uno spostamento verso posizioni marxiste, in modi e tempi tali da separarsi dalle più numerose ma confuse avanguardie operaie e popolari.
L'aggregazione di questo vasto e composito schieramento antiriformista non può dunque essere, già l'abbiamo detto, che un processo. Perché esso raggiunga i suoi obiettivi devono procedere molto più avanti la crisi delle organizzazioni esistenti e la crescita della coscienza di massa. E non esistano neppure un discorso strategico né un gruppo politico, oggi, già capaci di costituire il nucleo al quale le altre forze possano progressivamente aggiungersi. Tanto meno è possibile costituire tale nucleo riunendo artificiosamente su di una ipotesi strategica eclettica e in un'organizzazione zoppicante forze deluse tenute insieme solo dalla logica del rifiuto. La formazione di una nuova forza rivoluzionaria non solo, dunque, è un processo, ma è un processo non lineare, articolato, che si muove su piani diversi e non necessariamente paralleli.
E tuttavia non è serio parlare di un processo, e della sua necessità, se non si dice ben chiaro come questo processo può essere oggi avviato e come ci si propone di contribuirvi. Se non si assume una chiara responsabilità politica e non si lavora per tradurre questa ipotesi in una prassi politica reale. Alcuni compagni, spesso fra coloro che negli ultimi anni avevano criticato i « compromessi » cui ci obbligava la posizione di militanti comunisti, oggi rivolgono a noi e a tanti altri una preghiera che già è una reprimenda: quella di non pretendere, dal di fuori di grandi organizzazioni, di fare o di sostenere « una politica ». Dovremmo ripiegare su di una semplice, e per noi impropria, posizione di intellettuali e di analisti. Noi cercheremo di deluderli; di combattere nel modo più efficace questa spinta opportunista che nuovamente afferra, dopo l'ebbrezza dei bei giorni del movimento studentesco, tanti intellettuali e tanti burocrati.
Non crediamo infatti né utile né dignitoso un compromesso politico e ideale con il riformismo proprio nel momento in cui, su scala mondiale, esso dimostra il suo fallimento e la sua miseria. Le attuali istituzioni del movimento operaio non ci ispirano un sacro rispetto forse perché le abbiamo fino in fondo rispettate nei periodi in cui avevano ben altra grandezza e chiedevano ben diversa milizia. Cerchiamo solo il modo migliore per combattere la strategia che le governa. Questo modo non è certo quello della polemica ideologizzante; è soprattutto quello dell'analisi, della proposta, dell'iniziativa. Ma non crediamo si possa procedere di un solo passo — nella teoria, o nella direzione delle lotte sociali — se non si assume una posizione netta su di un « piccolo particolare »: il fatto che l'attuale movimento operaio italiano ha legami non ridiscussi con un sistema di stati a direzione opportunista-burocratica, e che la linea che lo governa si è mostrata incapace di guidare le masse al socialismo. E se non si traduce questa posizione in una milizia, in un lavoro politico. Senza tale scelta si compiono solo lunghi tragitti per approdare, sul terreno teorico, in forma ampollosa e con grave ritardo, alla più banale politica del PCI, o si compiono elettrizzanti esperienze di massa solo per fare, forse peggio, il mestiere tradizionale dei sindacati. Con tutta la modestia delie nostre forze, senza atteggiamenti egemonici ma anche senza timidezze, persuasi di aver aperto una crisi sul partito comunista e di esserci con questo assunti una precisa responsabilità, noi vogliamo fare tutto il possibile per muovere fin d'ora e in forme concrete qualche passo in direzione di una nuova aggregazione politica.
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