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 Rossana Rossanda

 

Il manifesto, mensile diretto da Lucio Ma­gri e Rossana Rossanda, Dedalo editore, uscì dal giugno 1969 a tutto il 1970, quando nel numero di dicembre annunciò la sua trasformazione in quotidiano. I primi quattro numeri (giugno, lu­glio-agosto e settembre 1969) quando i promoto­ri erano ancora membri del Pci, provocando tre riunioni del Comitato Centrale nelle quali la rivi­sta fu criticata e ne fu chiesta, prima in modi non perentori e poi definitivi, la sospensione. Natoli, Pintor, Rossanda rifiutarono e furono radiati.

La rivista continuò le pubblicazioni, attraver­sando un anno e mezzo di forte movimento so­ciale con una diffusione del tutto insolita per un mensile. Da allora il Partito comunista non ne parlo più, secondo l'abitudine di affogare le posi­zioni scomode nel silenzio (salvo procedere alle esclusioni successive di chi vi collaborava). Ne discussero sui fogli che venivano via via produ­cendo i gruppi extraparlamentari. Da Lotta Conti­nua ci divideva la sua esaltazione dello spontanei­smo e i toni trionfalistici («prendiamoci la città», «tutto e subito»), dai marxisti-leninsiti la nostra critica ai «socialismi reali». Il solo dialogo ravvici­nato fu con Potere Operaio, incontrato nelle fab­briche, col quale alcuni nostri gruppi di base fece­ro all'inizio qualche comitato politico,salvo con­statare, nel convegno del 1971, che non era possi­bile una convergenza per alcune posizioni estre­miste e insurrezionaliste, che lo avrebbero porta­to rapidamente a una spaccatura.

Visti  oggi i rapporti delle nuove sinistre fra loro, e fra esse e un Pci ancora incerto, prima del compromesso storico, non furono gloriosi, ciascuno chiudendo­si in sé, anche per lo sforzo di darsi dei solidi para­menti concettuali e per una sopravvalutazione dei rapporti di forza fra l'establishment,che pare­va ridotto soltanto a repressione se non al connu­bio con la destra bombarola, e la molteplicità dei soggetti di cambiamento - molteplicità specifica dell'Italia e che sarebbe durata, con alterne vicen­de, quasi un decennio.

 

Fu sempre un prodotto collettivo, dalla analisi della fase politica alla elaborazione teorica

Attorno alla rivista cresceva intanto un'aggre­gazione informale diffusa e da questa la spinta a costituirsi in gruppo organizzato. Il mensile regi­stra questo nella differenza fra il primo editoriale del giugno 1969, «Un lavoro collettivo» e quello della fine del 1970, «Verso un movimento politico or­ganizzato» e un quotidia­no come suo strumento.

Un passo ulteriore l'avrem­mo fatto presentandoci due anni dopo alle elezio­ni politiche con un enor­me successo di ascolto di chi poi, in nome del «voto utile», sarebbe andato a vo­tare Pci. La partecipazione elettorale era un errore per chi ambiva a portare a un confronto le sinistre storiche e le nuove, perché alle elezioni si sempli­fica e ci si divide, e una sconfitta pesa negativa­mente più di quanto peserebbe in positivo fare un quorum. Ma il bisogno di misurarsi, specie al­la base - ma chi vuol fare politica fra dieci perso­ne? meno che mai noi, avvezzi a un grande parti­to - era e resta un approccio primario, non fosse che per quel tanto di visibilità e di potere che la presenza nelle istituzioni comporta. Così a meno di due anni dall'inizio e in una situazione sociale ancora accesa, la forma quotidiano apparve più snella e capace di penetrazione di una rivista, e tanto più nella forma anomala che proponeva - poche pagine, niente bazzecole, prezzo mini­mo.

Il manifesto mensile è uscito in tredici fascicoli dei quali alcuni doppi, mediamente di 74 nitide pagine, disegnate dal grande grafico Giuseppe Trevisani. Era diretto da Magri e da me, ma ogni numero veniva progettato e discusso fra tutti co­loro che vi scrivevano. Alla fine i pezzi venivano portati a Bari per la stampa sotto il controllo di Fi­lippo Maone, responsabile dei rapporti con l'edi­tore, e poi mandati dall'editore stesso in edicola, lasciandoci cinquemila copie da vendere per provvedere alle spese, modestissime, della sede e delle iniziative sotto la segreteria di Ornella Barra. Si può dire che vi lavorarono quasi quotidiana­mente, assieme a Magri e Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parla­to, Ninetta Zandegiacomi, che erano stati destitui­ti dai rispettivi incarichi e radiati.

 

Il primo numero uscì nel giugno 1969

L'ultimo nel dicembre del 1970, annunciando la nascita del quotidiano. La rivista era la traduzione editoriale del lavoro politico e teorico cresciuto nella temperie del secondo «biennio rosso» italiano

La rivista si strutturò naturalmente sui temi che ci avevano mossi. Era aperta da uno o più edi­toriali di attualità, proseguiva con un blocco di analisi e ricerche a medio termine, teneva ogni mese una cronaca e riflessione sulle lotte operaie assieme a chi ne era protagonista sul posto, termi­nava con documenti e scritti di cultura politica, italiani o esteri. Questo schema funzionò dal pri­mo numero all'ultimo, eccezion fatta per lo spe­ciale dedicato alle tesi «Per il comunismo» del set­tembre 1970 (di cui si dà uno stralcio a pagina 15). Così il primo numero porta: a) accanto alla proposta «Un lavoro collettivo» una polemica sul­l'insistenza di Giorgio Amendola sull'andare al governo con la Dc, definita «un dialogo senza av­venire» da Luigi Pintor, altri due editoriali, di Lu­cio Magri e Vittorio Foa sulla strategia contrattua­le e l'imminente «autunno caldo»;b) due infor­mazioni sulle lotte alla Rumianca e alla Chatillon, un pezzo di Ninetta Zandegicomi sulla logica del «part time» e una nota sui «delegati di reparto»;c) una mia polemica sulla conferenza dei partiti co­munisti convocata a Mosca per condannare la Cina) il documento del Partito comunista ceco­slovacco nel congresso clandestino tenuto aVyso- cani (Praga) sotto l'occupazione sovietica, intro­dotto da Lisa Foa, un commento su Mao di Enri­ca Collotti Pischel, una conversazione di K. S.Karol con Edgar Snow sulla rivoluzione culturale ci­nese appena dichiarata chiusa da Chou En Lai (del quale esce un interessante ritratto), i docu­menti di lavoro della Sds tedesca; e) tre saggi, di Martin Nicolaus sui « Grundrisse», di Lucio Collet­ti sulla «Società civile», di Michele Rago sull'opi­nione letteraria.

Questa scansione funzionerà sino alla fine. Gli editoriali erano scritti specialmente dal gruppo dei promotori (Magri, Pintor, Natoli, Castellina), le cronache delle lotte dai protagonisti di base, co­ordinati perlopiù da Ninetta Zandegiacomi o Massimo Serafini, i materiali e i documenti veni­vano in gran parte dall'estero perché il '68 aveva prodotto una grande officina di idee e i saggi di una serie di collaboratri e interlocutori fra i quali in Italia Macello Cini, Lucio Colletti, Lidia Mena- pace, Luigi Nono, Lia Cigarini e le amiche del Demau, Camillo Daneo, Gastone Sclavi, Massimo Salvadori, Enzo Collotti, e dall'estero Johannes Agnoli, Régis Debray, Noam Chomsky, Karel Bartosek, Charles Bettelheim, Jean Paul Sartre, Ral­ph Miliband, Theo Dietrich, Jorge Semprun, Fer­nando Claudin, Andras Hegedus e Maria Markus, Michael Kalecki, Paul Sweezy, Jan Myr- dal, André Gorz, Eldridge Cleaver, Ignacy Sachs.

La rivista polemizzò quell'anno con il Pci e il grigio governo di Emilio Colombo, ma intervenne soprattutto, aulle scelte della Cgil che seguiva o frenava sulle lotte operaie ed erano quanto più ci premeva. Ne demmo il rendiconto in tutti i nu­meri della rivista. Dall'estate del '69 a tutto il 1970 scrivemmo, oltre che sulla Fiat - seguita soprattut­to da Luciana Castellina e Pino Ferraris, allora se­gretario del Psiup a Torino - su Marghera, Porto Torres, Italsider, Marzotto, Sasib, Acma e Mingan- ti di Bologna, sulla Cucirini di Lucca, ancora Por- tomarghera, ancora Torino, Ducati, Rhodiatoce, Dalmine, Alfa Romeo, Alitalia, oltre a ricerche sui tecnici in fabbrica e analisi sia della Cgil sia della Cisl. Una cronaca di profondità che sarebbe poi continuata sul quotidiano. Stabilimmo così un contatto mai perduto, polemico ma non sprez­zante, con le sinistre sindacali di Trentin e Garavi- ni, poi della Cisl di Pierre Carniti, che accompa­gnarono la demolizione delle commissioni inter­ne, cinghia di trasmissione dei partiti. Con il mo­vimento rivendicativo cresceva, fino ad arrivare a quote assai alte, l'autodeterminazione operaia. Mentre spesso ci scontravamo con altri gruppi, intenti a spingere sulle avanguardie a costo di iso­lamento. A leggere oggi questi materiali non ab­biamo autocritiche da farci.

 

L’Est socialista e i conflitti operai furono il filo conduttore della nostra ricerca e di tutti i nostri interventi

Lo sfondo delle politiche economiche appare ancora acutamente esaminato da Valentino Par­lato, cui si deve anche un'analisi del blocco socia­le edilizio in appoggio alle numerose lotte per la casa e una interprazione che rimase essenziale sulla rivolta di Reggio Calabria. Il movimento de­gli studenti subiva invece in quell'anno una fles­sione, salvo in alcune facoltà o atenei, come medi­cina a Roma o Milano. Con Marcello Cini e Luigi Berlinguer - il primo da sempre con noi, il secon­do per una breve stagione - andammo a una ri­flessione più di fondo con le «Tesi sulla scuola», che non riuscirono a incrinare il macigno del­l'istruzione ed ebbero qualche effetto collaterale, incrociando il movimento delle 150 ore. In verità quella scuola il movimento non ebbe la forza né di ribaltarla né di riformarla dal basso, come di­mostrava la difficoltà incontrata dai controcorsi; fu uno di quei nodi che il '68 aveva colto con luci­dità ma non era in grado di affrontare che sul pia­no ideale. Questi lavori facevano parte del blocco che nella rivista seguiva gli editoriali, cercando di approfondirne i temi. Non potevano mancare due assi del nostro dissenso di fondo dal Pci e del nostro discorso, la questione del partito e quella del movimento comunista internazionale. Sul pri­mo punto un'anatomia del Pci, compiuta da Lu­cio Magri e Filippo Maone uscendo dal generico con una inchiesta in profondità, cifre e specificità nel variare del tessuto italiano, sarebbe stata deci­siva anche per leggere il futuro. Contemporanea­mente il mensile tentò una rivisitazione della te­matica consiliare come forma alternativa della classe non solo nel corso del conflitto ma per l'estinzione dello stato. Su questo ci impegnam­mo in molti, con l'aiuto, in punto di teoria e sto­ria, di Massimo Salvadori e di Enzo Collotti.

Il punto era, ed è rimasto, come trovare una al­ternativa fra l'imbalsamazione del partito lenini­sta nelle sue varianti, le formule centralizzate e basate sul carisma d'un leader dei gruppi extra­parlamentari e il modello delle socialdemocrazia, che era approdato alla piena continuità con il re­sto dei partiti parlamentari. Come se una piena li­bertà di espressione portasse fatalmente a una frammentazione per individui, inoperante ai fini d'un lavoro collettivo, o a una divisione per cor­renti inclini a degenerare in notabilato, la vicen­da più interessante restando quella del Partito so­cialista italiano, che non evitò due scissioni, una di destra e una di sinistra, finché Craxi non lo ver­ticalizzò e precipitò nell'affarismo. Ma il discorso consiliare non potemmo sperimentarlo nel vivo, essendo dovunque, anche nei luoghi di lavoro, una forza minoritaria, e fu avversato dai gruppi, specie Lotta Continua («siamo tutti delegati»). Nonché dagli «operaisti», che rientravano nel Pci dopo la nostra espulsione e, sulla base della «au­tonomia del politico», variante gramsciana del le­ninismo, consideravano fuori di realtà i riferimen­ti ai consigli. Discussione che dura ancora, consu­mato e seppellito il Pci e scomparsa ogni sinistra alla sua sinistra. Né il problema di una forma aperta resistente nel tempo e in grado di far fron­te a quella che chiamiamo, approssimativamen­te, globalizzazione, è risolto dai «movimenti».

Il secondo tema, soltanto nostro, riguardò la natura dei socialismi reali. Eravamo stati radiati anche per l'irritazione del Pcus all'apparire sulla rivista di una critica secca a un anno dall'invasio­ne dei carri armati a Praga, che definivamo bell'e digerita dai partiti comunisti come la conseguen­te «normalizzazione». Noi restammo i soli a difen­dere la primavera di Praga, sulla quale non erava­mo allineati se non sul metodo, giacché insisteva­mo sulla necessità di uscire dallo stalinismo da si­nistra, mantenendo nella libertà le conquiste del­la rivoluzione, mentre la maggior parte degli altri gruppi - a parte gli m-l favorevoli all'intervento - si attestava sull'interpretazione liberal-liberista, più o meno distante da Fukujama.

Era un'intuizione corretta di quel che fu una ve­ra oscillazione di indirizzi fra forze opposte, o, co­me fu detto, un abbaglio? Vedemmo il dilemma reale, che l'occidente non volle riconoscere, e il cui esito fa ora della Cina il più forte concorrente capitali­sta a partito unico degli Stati Uniti. La rivista svilup­pò come nessun altro, sal­vo il lavoro personale di Edoarda Masi e quello, me­no audace, di Vento del­l’Est, un'analisi della linea di Mao, attraverso lo sfor­zo storico e teorico di Aldo Natoli e Lisa Foa sul dibat­tito dei comunisti cinesi prima e durante la rivoluzione culturale, lungo tre numeri del 1970, preceduti e seguiti dai repor­tages di K.S.Karol e Jan Myrdal. E giusto nell'ulti­mo numero dava ampio spazio alla rivolta opera­ia polacca del '70, sulla quale la Chiesa non aveva ancora messo le mani (ma rivolta operia fu anche quando per un decennio ve le mise). Nello stesso tempo pubblicammo, come si è detto, i documen­ti del pc cecoslovacco, tolto di mezzo dall'invasio­ne, e della resistenza a Husak che il quotidiano avrebbe poi seguito, come Listy e la Charta 77.

È l'insieme di questa elaborazione che portò nell'estate alle tesi «Per il comunismo» che affon­dano nelle contraddizioni inedite e crescenti di una società complessa di capitalismo avanzato e vedevano che, qualora non fossero affrontate con una ricerca e un tentativo permanente di sta­bilire e verificare dei nessi, ci avrebbero portato a una crisi della democrazia e al ritorno delle guer­re. Questa ricerca non è stata fatta e si può dire senza enfasi che la sinistra ne è morta. Non si ri­mandano gli appuntamenti crudeli accumulati dalla storia.

Perciò, rivedendola oggi, la nostra prima rivi­sta appare tuttaltro che archeologica, densa del dibattito immediatamente successivo al '68 e al­l'alba dei Settanta e da allora irrisolto

Va aggiunto, e si puo ormai sorriderne come di una forma di infantilismo, che se attirammo mol­tissimi, fummo oggetto di vivace antipatia non solo  per il Pci che ci accusava di estremismo, ma per la maggior parte dei gruppi extraparlamenta­ri, che ci accusavano all'opposto di moderatismo perche ragionanti e distinguenti.

Sta di fatto che, a differenza di altri, siamo esisti­ti a lungo, e non abbiamo una lunga coda di mili­tanti allora impaziente ed entusiasti e poi passati armi e bagagli dall'altra parte. E abbiamo potuto fare per tutti, anche per chi ci era piu lontano, una battaglia di libertà quando le politiche dell'emer­genza hanno colpito in tutte le direzioni. L'ultimo numero del manifesto mensile difendeva Adriano Sofri dalla prima incarcerazione, e il manifesto quotidiano non ha mai scordato che egli è ogget­to tuttora di una di una persecuzione giudiziaria imperdonabile. Difendemmo a lungo la causa del 7 aprile, esempio di una lunga vendetta su un de­litto sostanzialmente d'opinione. Alcuni di noi si piegarono anche sulla vicenda delle Brigate Ros­se, che non confondemmo con la destra - il san­gue sta dalle due parti - quali che fossero le diver­genze che ci opposero. Siamo stati anche chiama­ti «cattivi maestri», ma non ci hanno fatto tacere. Sui figli degli anni '70, torti e ragioni e speranze e ferite e dolore di un decennio senza confronti, il manifesto ha potuto stendere l'esile mantello che da quel lontano '69 si era conquistato.



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