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\ Campo sovietico e imperialismo

Luigi Pintor

 

NORMALIZZAZIONE GLOBALE

numero 3-4   marzo-aprile 1970

 

 

 

In Cecoslovacchia, la normalizzazione è compiuta. Quel partito comunista non è diventato un mattatoio, per usare l'espressione di Husak, ma il trattamento che ha subito non è meno micidiale della decapitazione del partito polacco degli anni '30. Lo stesso vale per i sindacati, che invano avevano cercato di ritrovare, con la svolta del '68, un consenso e una funzione. Le epu­razioni di massa hanno liquidato ogni germe di riorga­nizzazione dal basso di quella società. Il risveglio di due anni fa è bollato come una ubriacatura collettiva, il prodotto di un cattivo genio nazionale: la stampa ufficiale descrive i cecoslovacchi come un popolo ma­lauguratamente privo « del senso degli affari degli americani, della profondità di pensiero dei russi, del­la precisione dei tedeschi ». Il risultato è la mortifica­zione delle energie di un intero paese. Manca la sua cancellazione dalla carta geografica.

Pochi mesi fa, scrivere della solitudine di Praga ba­stò a suscitare lo scandalo dei farisei e l'incomprensione di molti compagni. Oggi, le blande riserve della stam­pa comunista italiana già sono di troppo. Nascono incidenti diplomatici, qualcuno se ne scusa con animo servizievole. L'autocensura e il silenzio sono diven­tati obbligatori nei consessi internazionali, da Parigi a Mosca. Perché no? Se il metro di giudizio è la « so­lidarietà di campo », la realpolitik, lo storicismo asso­luto inteso come rispetto delle divisioni corazzate, ac­cettare la logica della normalizzazione è una fatalità, addirittura un dovere. La si può rifiutare, quella logica, solo se si è disposti ad uno scontro frontale per una diversa strategia della rivoluzione, se un punto di vi­sta di classe prevale su quello dei marescialli dell'URSS. A mezza strada non si può restare, non c'è margine che per l'ambiguità e la petulanza di qualche mese: poi, la « unità nella diversità » cede all'allineamento nella rassegnazione 

2. Chi ha giudicato l'invasione della Cecoslovacchia un semplice errore, se non proprio un evento salutare, giudicherà anche la normalizzazione un affare locale. Ma la vicenda cecoslovacca, ha segnato il precipitare delle degenerazioni interne e delle tendenze antiso­cialiste dello Stato e della politica sovietica. E i suoi sviluppi'incoraggiano, in Europa e su scala mondiale, un processo controrivoluzionario di proporzioni sto­riche. Come molte altre cose, anche la normalizzazione si rivela « indivisibile ».

In Europa, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, la Germania ritrova un ruolo di punta. Giu­stificata sfrontatamente agli occhi di milioni di comu­nisti come estrema difesa dal pericolo tedesco, l'azione armata dell'URSS contro le masse cecoslovacche ha rassicurato e rinvigorito tutta la reazione europea. Il tradizionale espansionismo tedesco a est ritrova un var­co che neppure la avventatezza di Krusciov era riu­scita ad aprire.

A un riconoscimento dello status quo, a una stabiliz­zazione giuridico-diplomatica dei rapporti est-ovest in Europa, la reazione europea e il capitalismo tedesco possono oggi affacciarsi in un quadro complessivo pro­fondamente diverso dal passato, e vedervi a ragione un possibile trampolino di lancio per riconquistare, se non l'egemonia perduta con la guerra antifascista, una insperata influenza continentale. Patto di non ag­gressione tra Germania e Urss, « riconciliazione stori­ca » tra Germania e Polonia, regolamentazione delle frontiere, dialogo tra le due Germanie, sono infatti la cornice diplomatica di un processo che ha oggi le sue motivazioni nell'alto grado di vulnerabilità toccato su tutti i fronti, ad esclusione di quello militare, dal cam­po sovietico.

Dati di insospettata drammaticità verranno forse in luce con l'esplodere di nuove lotte intestine ai ver­tici dell'URSS. Ma non è necessario attenderli per sa­pere che non solo i fantasiosi programmi di « transi­zione al comunismo » entro un ventennio, ma le più misurate ipotesi di competizione produttiva con l'occi­dente sono sepolte, sotto il peso di squilibri interre­gionali, di settore e tecnologici che investono le capa­cità stesse di crescita quantitativa del sistema. 0 per sapere quale sia lo stato delle campagne e l'incom­bente disoccupazione industriale in Polonia, o l'enti­tà della crisi che da anni grava sull'intero apparato produttivo in Cecoslovacchia. I territori e i mercati dell'est si ripresentano come un naturale e privile­giato campo di manovra del capitale europeo, in con­dizioni tanto più favorevoli quanto più l'occidente è messo in grado di esportare, con i capitali, i propri modelli di organizzazione del lavoro e del consumo. Quel che più conta, l'est europeo si presenta a questo inpatto con l'occidente senza più un residuo di unità politica ed ideale, né una fisionomia e una ispirazione antagoniste sul piano di classe. Solo elemento aggre­gante al suo interno è l'integrazione militare, con l'on­nipresenza e lo zelo accresciuto dei marescialli sovietici.

La divisione del lavoro all'interno del Comecon, non esiste come moltiplicatore economico e cemento uni­tario ma semmai come camicia di forza, cui solo la Romania è riuscita a sfuggire a rischio di opposti pericoli. Più in generale, la teoria della « sovranità limitata » ha tradotto il leninismo in politica imperiale nei rata porti interstatali e nei rapporti con le masse, ha liqui­dato per un indefinito avvenire ogni dialettica politica tra i paesi dell'Est, ha elevato la spoliticizzazione delle masse a esclusivo fondamento del potere. Ne deriva una nuova legittimità storica per i regimi capitalistici, e perfino per i regimi fascisti d'Europa. Nella ricerca di una stabilizzazione continentale, l'Urss è tradizionalmente indifferente alle correnti di base che scuotono le società occidentali, tanto quanto è sensi­bile agli orientamenti delle classi dominanti: il mag­gio francese non valeva la greca di De Gaullé, il mo-'vimento studentesco tedesco non vale l'alternarsi al potere di Brandt a Kiesinger, il movimento di massa in Italia non vale un investimento Fiat. Oggi c'è, di più, una ricerca metodica di rapporti con i regimi fa­scisti, dalla Grecia alla Spagna, che non risponde solo alle regole intangibili del commercio internazionale, ma a suggestioni politiche: capita di trovare in conve­gni internazionali, invitata dal Pcus, la falange spagnola.

3. Questo nuovo clima europeo è il risvolto dell'at­tacco che l'URSS muove oggi — come direzione prin­cipale della sua politica — contro il comunismo cine­se. La duplice rivoluzione cinese, la linea che ne vie­ne espressa di edificazione del comunismo in un rap­porto nuovo con le masse all'interno del paese e su scala mondiale, diventano il bersaglio principale non| solo dell'imperialismo ma del mutamento di colloca­zione storica dell'URSS. Qui è il fondamento del giu­dizio della Cina comunista sui gruppi al potere in| URSS, sull'ispirazione « razzista » della loro politica in­terna e internazionale. Si spiega che questo giudizio non raggiunga ancora la coscienza di vaste masse ope-; raie e popolari in occidente: non solo per la vischio­sità della tradizione, del richiamo mitologico all'Otto­bre, ma perché l'involuzione sovietica lascia pur sem­pre al movimento operaio e popolare dei paesi svilup­pati la valvola di sfogo del riformismo e margini di accomodamento che non esistono nei continenti oppressi. Ma questa spiegazione non è una giustificazione. La Cina è oggi, e ancor più sarà in avvenire, il piu potente fattore di contraddizione e di rottura degli, equilibri mondiali e del dominio imperialista. Dopo la vittoria antifascista della seconda guerra mondiale, chi fu anche vittoria delle potenze capitalistiche più foro e dinamiche, la rivoluzione cinese è il dato storico distintivo della seconda metà del secolo, come lo fu l'Ottobre nella prima metà. Proprio perciò, lo scontro URSS-Cina è andato crescendo in questi anni come u più acuto conflitto del nostro tempo, in proporzione diretta allo snaturamento dello Stato e della politica sovietica.

La disputa sulle « responsabilità » ha poco senso, non olo perché un esame obiettivo, dal ritiro dei tecnici sovietici al venir meno della collaborazione atomica fino ad oggi, porta a facili conclusioni, ma perché qua­lunque politica anticinese è una politica contro la dina­mica del processo rivoluzionario contemporaneo è una politica di per sé controrivoluzionaria e imperialista, non eversamente da come lo era cinquantanni fa qualun­que politica antisovietica. Mutuando la parola d'ordine su cui si è retto per decenni il movimento comunista internazionale, sarebbe oggi lecito affermare che l'at­teggiamento verso la Cina è la « pietra di paragone » di una linea internazionalista e antimperialista. L'accerchiamento della Cina è tuttavia organizzato oggi dall'URSS e dai paesi del Patto di Varsavia su tutti i fronti. In Asia, non altro è il senso dei proget­tati patti di « sicurezza collettiva », da mercanteggiare con l'imperialismo giapponese e americano e con i regimi anticomunisti continentali, in simmetria con l'accordo di blocco ricercato con Germania e Nato in Europa. Su scala mondiale, lo sforzo dell'URSS di collegare un sistema bilaterale di garanzie militari con gli Stati Uniti a una emarginazione 'internazionale della Cina, parla lo stesso linguaggio.

I gruppi dirigenti imperialisti non nascondono affatto che il loro dialogo con l'est europeo è in stretto rap­porto con l'impegno controrivoluzionario dell'URSS in Asia. Al di là delle precarie trattative sovietico-cinesi sulle frontiere e sulla regolamentazione dei trattati ineguali, una ulteriore concentrazione militare sovieti­ca a oriente potrà essere incoraggiata da una « coesi­stenza » tra i blocchi europei, più fosca di quella kru-scioviana. E l'eventualità di una guerra alla Cina, con caratteri simili all'aggressione hitleriana all'est, incom­be come catastrofico corollario di questa politica. Sei anni fa, Togliatti definì « impensabile » una lotta antimperialista senza la Cina, indipendentemente dai noti giudizi critici sulle scelte dei compagni cinesi. E comprese la necessità di accogliere in qualche modo la « sfida » del PC cinese per un rilancio della lotta di classe in occidente e su scala mondiale. Oggi, l'URSS addirittura seleziona e ristruttura il suo sistema di al­leanze e la sua collocazione mondiale contro la Cina: non solo l'ispirazione soggettiva ma anche la « fun­zione oggettivamente antimperialista » di questa stra­tegia, secondo la formula cara ai dirigenti della sinistra italiana, non può ancora essere accreditata.

4. Elemento distintivo della strategia staliniana era il calcolo delle contraddizioni interimperialiste e lo sfor­zo di inasprirle. Definire neo-stalinista la linea del campo sovietico è oggi un complimento immeritato. La ricerca di una normalizzazione fondata, a est e ad ovest, sul comune interesse dell'URSS e delle potenze capitalistiche a reprimere all'interno dei propri « si­stemi » le forze escluse e ostili, attenua le contraddizioni mteroccidentali e consente all'imperialismo americano di lavorare, con più margine e duttilità, al consolida­mento della sua egemonia mondiale. Nixon può prospettare il passaggio « dalla fase della competizione a quella del negoziato », in un quadro politico mondiale che gli ispira maggiore ottimismo. Il rapporto tra stanziamenti per la difesa e investimen­ti civili può essere rovesciato dall'amministrazione ame­ricana, parallelamente ai progressi delie trattative bila­terali sugli armamenti. I progressi della normalizza­zione europea possono consentire un graduale disim­pegno in quest'area e una concentrazione degli sforzi ' in altre direzioni. L'accerchiamento della Cina e la di­sunione del movimento antimperialista mondiale pos­sono aiutare a fronteggiare i movimenti di liberazione con un dosaggio di aggressività e di elasticità scono­sciuto in passato, e già favoriscono una attenuazione della crisi esplosa all'interno della società americana nella fase più alta della guerra vietnamita.

La progettata « vietnamizzazione » di questa guerra non è un trucco per mascherare un immutato impegno diretto americano, ma una linea che l'imperialismo può tentare in questa più favorevole cornice interna­zionale. Il popolo vietnamita e i suoi dirigenti hanno conservato, con l'offensiva del '69 e con la formazione del governo rivoluzionario provvisorio al Sud, quella iniziativa militare e politica che da decenni, anche con le sole proprie forze, non hanno mai perduto. Ma una prima « emarginazione » del conflitto, come è nei pia­ni americani, è avvenuta per lo meno nella coscienza politica e nella capacità di mobilitazione delle masse e dell'opinione pubblica mondiale, e si riflette nello stallo diplomatico di Parigi. Questo offuscamento è in armonia con l'atteggiamento politico complessivo del campo sovietico, che ha sempre attribuito valore secondario e strumentale all'avamposto antimperiali­sta del Vietnam. Anche dopo Krusciov, che ne fu no­toriamente un campione, la parte più consapevole del movimento comunista ha speso invano molte energie per indurre i dirigenti sovietici a modificare quell'at­teggiamento, rivalutando il Vietnam per quello che è: momento più alto della lotta antimperialista e chia­ve di volta dei suoi sviluppi. Stabilizzazione europea, accerchiamento della Cina, riaffermazione della superio­rità assoluta degli interessi istituzionali del campo so­vietico, vanno in opposta direzione, mortificando i mo­vimenti di lotta in Europa e in America, favorendo l'accerchiamento politico-militare del Vietnam nel Laos e in Cambogia, e riaccendendo la speranza americana di uscire dalla stretta vietnamita senza pagare il prez­zo della sconfitta.

Tanto più si avvertono questi effetti, dove più deboli sono i movimenti di liberazione. La fine di Guevara ha ridotto le speranze di una crescita continentale del­l'esperienza cubana; ma quella impresa era già in par­tenza una risposta disperata a un vuoto di strategia mondiale che circonda l'America latina. Non solo le ipotesi - e le realtà - della guerriglia, contadina o urbana, sono da anni oggetto di polemiche liquidatrici e qualche volta di aperto attacco da parte delle centrali filosovietiche; ma ogni ricerca teorica e pra­tica intorno alle vie della rivoluzione in quel conti­nente, della promozione di un blocco di forze che sfugga alla trappola delle « borghesie nazionali », si scontra con scelte di politica internazionale del campo sovietico che prediligono i regimi riformisti subalterni delle metropoli e secondo un itinerario simile a quello della diplomazia tedesca di trent'anni fa. 

L'esperienza cubana è così negata in radice, ibernata. La dipenden­za economica dall'URSS è garanzia di sopravvivenza, ma reintroduce nella nuova società dell'isola, ancora in formazione, meccanismi e concezioni che hanno li­quidato il socialismo dovunque si sono affermati. La rivoluzione cubana conserva inalterato il suo valore continentale e internazionale, ma molta acqua è pas­sata sotto i ponti dal tempo della prima dichiarazione dell'Avana e nuovi elementi di tensione con le avan­guardie continentali più impegnate nella lotta rivolu­zionaria rendono oggi più incerto il comune'avvenire. In Africa, l'idea che la disgregazione del sistema colo­niale fosse ormai un processo irreversibile e accelera­to, per l'acutezza delle contraddizioni tra le vecchie potenze, l'ispirazione socialista della rivoluzione alge­rina, il moltiplicarsi dei focolai di rivolta indipenden­tista, si scontra con una realtà molto diversa. Ài mer­canti di cannoni e di carne del secolo scorso sono su­bentrati i moderni mercanti di flotte aree e forme di organizzazione scientifica del genocidio: come nella guerra civile nigeriana, dove l'individuazione di una discriminante di classe o di una potenzialità progres­sista nei massacri, con armi di ogni provenienza è impresa da lasciare agli « specialisti » imbroglioni. I movimenti dove prende forma una tale discriminan­te di classe e che si propongono una costruzione non effimera hanno un grande valore ma sono lasciati a se stessi come lo fu il Congo di Lumumba e sono anco­ra isole in un oceano sanguinoso, percorso dalla ra­pina coloniale e dalla concorrenza internazionale. An­che nell'area medio-orientale, l'affermarsi di un movi­mento di resistenza palestinese che alimenta, nei suoi settori più avanzati, una coscienza popolare e un lavo­ro di costruzione politica, lascia sperare che possa esse­re contrastata la mistificazione del panarabismo e delle sue componenti fasciste, che il conflitto possa essere gradualmente sottratto alla strumentalizzazione delle superpotenze, e il problema storico del rapporto con gli ebrei sottratto alla spirale della contrapposizione di religione e di razza.

Ma il retroterra di questa lotta resta quello, soffocante, del concerto delle potenze do­minanti, oscillanti tra lo squalificato compromesso dell'ONU e un inasprimento strumentale del conflitto. Per questo l'area mediorientale è forse quello dove più è da temere, più che nel Vietnam, l'esplodere di una guerra generalizzata: perché è teatro di uno scon­tro di potenza e di interessi tradizionali più difficil­mente componibili, da punto di vista degli Stati Uniti e dell'URSS, di quanto non lo siano i presunti o resi­dui antagonismi di classe tra i due paesi.

5. Sul movimento operaio d'occidente e sui suoi par­titi tradizionali, la normalizzazione opera per linee interne meno drammatiche, ma di incidenza altrettan­to profonda. Con puntualità, i dirigenti comunisti fran­cesi hanno restaurato con l'URSS (ammesso che mai fosse stato intaccato) un vincolo di tipo clericale. La rivolta di maggio è sepolta anche come occasione di riflessione. Si ripropone una linea di « unità demo­cratica » che non è solo priva, come nel passato remo­to, di un avvenire socialista, ma manifestamente inca­pace di contrastare il regime autoritario dopo essere stata responsabile del suo avvento. Il « ringiovanimen­to » di questo partito, rispecchiato nelle scelte di ver­tice, ne segna anche il punto massimo di burocratiz­zazione: uomini ormai estranei alla tradizione cominter-nista e anche resistenziale del comunismo francese, ne ereditano, e ne ripropongono tuttavia, la collocazione .internazionale come subordinazione pura, per ricavar­ne una investitura e proporsi in Francia come forza di cogestione della « grande società ». Neppure la duttilità e complessità della linea adottata in questi anni, e nel suo XII congresso, proteggono già ora il PCI da analoghi contraccolpi; e ancor meno protegeranno in avvenire.

Autorevoli dirigenti si chiedono, nel PCI, come ridare « alla prospettiva di avanzata al .socialismo la forza di attrazione di un gran­de ideale », come far sentire « rivoluzionaria » questa prospettiva alle grandi masse sconcertate e dubbiose,, come recuperare « sentimenti » offuscati, come colmare « un certo vuoto », come rispondere a una « crisi di valori » che le vicende internazionali e una politica interna senza respiro hanno prodotto. Non si trova però chi, ponendo questi quesiti, sappia rispondervi, senza retrocedere ancora lungo la strada che ha con­dotto a quel vuoto e a quella crisi.

Il silenzio e l'autocensura sull'arena internazionale, l'adeguamento alla normalizzazione, non sono una du­ra necessità tattica, ma celano una scelta. Il vincolo con lo Stato sovietico non è solo pubblicamente esal­tato nel nome dell'Ottobre (come rispettare Luigi Bonaparte per rispetto alla Bastiglia), ma è fondato sul­l'argomento « concreto » che qui starebbe il segreto del « peso contrattuale » del PCI in Italia: con ciò oscurando la sua natura di forza rivoluzionaria, il suo rapporto con la classe e con le masse come sua unica fonte di legittimità e ragione d'essere; e lasciando espo­sto il movimento di classe, quanto a concretezza, a ogni burrasca che la dirigenza e il mondo sovietico covino al loro interno.

Il credito restituito, con cerimonie comuni, al « leni­nismo » dei dirigenti anticomunisti dell'URSS; l'accre­sciuta pressione di gruppi e individualità che cercano di ritrovare, solo in quanto alfieri indigeni delle scelte sovietiche, una funzione politica da tempo perduta; le pratiche di vita interna che moltiplicano la selezio­ne arbitraria dei quadri, fino all'ultimo comitato cen­trale pur annunciato come momento di rinnovamento tanto più audace quanto più libero dalla « frazione » di sinistra: sono aspetti vistosi ma secondari di una normalizzazione riflessa. 

L'effetto più profondo sta in una marcia di avvicinamento all'area di governo che diventa per forza di cose, nel vuoto di una strategia internazionalista, da momento tattico sostanza strate­gica. Dominante perfino nella recente assemblea na­zionale operaia, e in tutto l'atteggiamento assunto nel­la crisi politico-istituzionale in corso, questa ricerca di un concordato con la borghesia, questo lento suici­dio alla « finlandese », riflette fedelmente i progetti sovietici di stabilizzazione europea. In superficie, i successi sindacali e i momenti che ne derivano di ripresa organizzativa del partito possono essere invocati come segno di un recupero di fondo e garanzia di avvenire. Ma anche il socialismo italiano non era mai stato tanto forte e rappresentativo come quando, esaurita la sua funzione politica rivoluziona­ria, lasciò la strada aperta al fascismo. Oggi la norma­lizzazione riflessa, l'incrocio tra ripresa burocratica e ripresa riformista, aggrava il vuoto di alternativa senza arrestare la disgregazione del quadro politico nazionale.

6. Non è questione di pessimismo o di ottimismo, di dipingere in un colore o in un altro la realtà. La irra­zionalità economica e la disumanità del capitalismo sviluppato, la tragedia del sottosviluppo, la crisi pro­duttiva e la degenerazione politica del campo sovieti­co; e all'opposto la rivoluzione culturale cinese, la mol­teplicità dei fronti di lotta su scala mondiale, i nuovi varchi che i movimenti di liberazione e la lotta di clas­se in occidente cercano di aprire: questi processi tu­multuosi sembrano tutti riconducibili - fu la propo­sizione avanzata nelle prime righe del Manifesto - « alla necessità di un sistema sociale non più legato allo sfruttamento in qualsiasi forma, alla necessità e attualità di quella che Marx chiamava società comuni­sta ». E ne creano le condizioni storiche e i materiali politici. Ma il problema è, che la linea dominante del campo sovietico non tanto è insufficiente quanto estra­nea e contrapposta a questa necessità - ostacolo al suo maturare.

Questa linea assomma oggi in sé i contenuti negativi dell esperienza staliniana e del suo ribaltamento kruscioviano. Rispetto alla prima, l'esasperazione delle ra­gioni istituzionali dell'URSS, la coercizione come fon­damento del potere e dello Stato, non solo hanno per­duto le motivazioni del passato ma si rivelano con­traddittorie ai loro stessi obiettivi di sviluppo mate­riale del « campo », spostano il confronto col mondo capitalistico su un terreno che ne attenua le contraddi­zioni e ne mutua i meccanismi, preparano nuove im­prevedibili degenerazioni del regime interno sovieti­co. Rispetto al ribaltamento kruscioviano, la ricerca di una spartizione e stabilizzazione dei mondo in ter­mini di potenza non ha più a proprio fondamento nemmeno l'ipotesi di un dinamismo economico vin­cente. In queste condizioni, il confronto di « campo » .rischia di avere, come ultimo approdo, la guerra piut­tosto che la stabilizzazione; di compromettere, col pro­cesso rivoluzionario mondiale, la sola via di una sal­vezza collettiva.

L'ideologia e la politica della 2° internazionale e del riformismo, sebbene siano state per decenni l'espres­sione maggioritaria del movimento e della sua pratica costruzione, crollarono perché incapaci, fino al tradi­mento storico, di fronteggiare i compiti del proprio tempo. Una crisi storica di eguali proporzioni investe oggi l'ideologia e la politica di quella parte del movi­mento che si subordina al campo sovietico e ai suoi dirigenti anticomunisti. L'invasione della Cecoslovac­chia, l'accerchiamento della Cina, la contraddizione con i movimenti di liberazione e con i termini della lotta di classe in occidente, la normalizzazione globale, lo rendono evidente. Superare questa eredità con un ri­lancio della lotta di classe e del comunismo su scala mondiale, a diversi livelli ma fuori e contro una divi­sione di « campo » che nasconde e snatura i veri ter­mini dello scontro, è una esigenza altrettanto ineludi­bile di quella che portò alla rottura leninista con la so­cialdemocrazia.

Qui è la radice dell'analisi maoista, non millenaristica e fanatizzante' ma politicamente fonda­ta, secondo cui « è già iniziato un nuovo periodo sto­rico, quello della lotta contro l'imperialismo america­no e il revisionismo sovietico »; secondo cui si tratta di riassumere la lotta di classe e di massa, ad ovest e a est, come unico punto di riferimento di una stra­tegia comunista, e di misurare con questo metro anche le scelte pratiche che ciascuno ha di fronte. Per ciò che più da vicino ci riguarda, una nuova scelta internazionalista è condizione indispensabile per una coerente lotta antiriformista nel movimento operaio italiano, nella nostra società e in Europa, e per concor­rere a promuovere una nuova forza politica e un nuo­vo schieramento. Non per caso, sia la « sinistra buro­cratica » sia la « destra revisionista » si incontrano oggi sul terreno della normalizzazione, ricercandovi rispetti­vamente l'alibi per la passività opportunista o per l'in­tegrazione nel sistema. Non si può, per sfuggire al dovere di spezzare questo schema, invocare la spro­porzione delle forze. Non si può continuare a teoriz­zare che la mancata rivoluzione europea, 50 anni fa, è la causa di fondo del ripiegamento e dell'offuscarsi della causa del comunismo, e continuare a patire que­sto limite storico, negando nei fatti quel ruolo di avanguardia del movimento operaio occidentale che si esalta volentieri a parole.

 

 

 

1 Nella rassegnazione o nella compiacenza. Vedi G. Napolitano su Rinascita del 20 marzo, pg. 5 col. I: « ...Né ci lasceremo trascinare sul terreno su cui gran parte della stampa italiana vorrebbe attirarci con la campagna che sta conducendo: sul terreno cioè del consenso o del dissenso rispetto a questa o quella formulazione relativa ai problemi sollevati dall'intervento militare in Cecoslovacchia »:

 

 

 

 

 

 



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