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Avanguardia e masse

Luigi Pintor 

IL PARTITO DI TIPO NUOVO

(numero 4 settembre 1969)

 

Succede di sentir parlare del « partito nuovo » o « par­tito di tipo nuovo », teorizzato dopo la Liberazione, come di una specie di invenzione. Un brusco rivolgi­mento di tradizione, perlomeno, imposto dalla perso­nalità di Togliatti, dalla politica «nazionale» di Saler­no, da una rinuncia all'azione armata per la conquista del potere. C'è del vero, in questa immagine semplifi­cata. Ma è, appunto, una immagine semplificata, che indulge alla mitologia.

In realtà, l'impianto dell'organizzazione politica comu­nista nel dopoguerra ebbe un fondamento oggettivo poderoso. Una svolta si era compiuta, prima che a Sa­lerno, nella storia e nella coscienza di grandi masse con la vittoria armata sul fascismo. E si era compiuta non solo con l'insurrezione come momento terminale, ma nel corso della resistenza come iniziativa «spon­tanea» (se è lecita questa parola sospetta), come ma­turazione di coscienze, ed anche come volontà e pratica di autogoverno popolare.

C'è sempre stata, anche a sinistra, una tendenza a svalutare il potenziale rivoluzionario di questa « irru­zione » operaia e popolare nella lotta sociale e politi­ca. Ma la resistenza non fu né un moto «indipenden­tista», né un fatto di generazione (la generazione della resistenza come la generazione del Vietnam), né un fenomeno primitivo per la  «immaturità» delle masse (giudizio sempre odiosamente ideologico), né il riflesso senz'anima di una situazione di emergenza mi­litare e economica. C'era un bisogno generale di rige­nerazione della società, una grande carica di radicalizzazione sociale. Nella sensibilità di tutti, la lotta ingag­giata era lotta per decidere dell'assetto del paese per un intero periodo storico. 

I comunisti diventano partito di massa perché le masse hanno vissuto questa esperienza storica. I 5 mila o poco più del 25 luglio 1943 sono quasi 2 milioni alla fine del 1945. Non ci sarà bisogno di spezzare alcuna tradizione «settaria». Non ci sarà da irreggimentare e plasmare un'«orda» inerte. C'è inesperienza poli­tica, ma una comune volontà di portare a compimento una rivoluzione interrotta ma non compromessa, di portarla a compimento di fronte alla miseria delle no­stre classi dirigenti, al disfacimento dello Stato borghe­se, alla condanna senza appello della borghesia come classe che il trionfo in Europa dell'esercito rosso sem­bra decretare. In questa ispirazione è il segreto della capacità di mobilitazione delle masse che percorre la storia di questi anni, l'« originalità » della situazione italiana nell'area occidentale.

Ma con quali caratteri prende forma il «partito nuovo»? Come raccoglie e orienta questa spinta? In che senso fu veramente nuovo, e in che misura la sua novità fu quella di cui c'era bisogno, per contrastare la restaurazione capitalistica prima, per uno scontro col sistema poi?

Semplice e lineare, in apparenza, è lo schema di To­gliatti. Il partito sarà «nuovo» in quanto sarà di massa, cioè capace di organizzare nelle proprie file il più alto numero di lavoratori, e poi capace di non restare «chiuso in se stesso, com'era il carattere che avevamo una volta», ma di essere «il più vicino al popolo», di «portare» la propria politica tra le gran­di masse esterne all'organizzazione. Il partito sarà «nuovo», inoltre, in quanto «non si limita più sol­tanto alla critica e alla propaganda ma interviene nella vita del paese con un'attività positiva e costruttiva», traducendo nella sua politica «quel profondo cam­biamento che è avvenuto nella posizione della classe operaia rispetto ai problemi della vita nazionale». Cioè, in quanto sarà finalizzato a una politica di unità antifascista, democratica e popolare, che pare la più adatta a raccogliere la molteplicità delle spinte e delle aspirazioni del paese. In questo senso, il partito nuovo è figlio della resistenza ma anche del VII congresso dell'internazionale e della strategia dei fronti popo­lari, che lascia alquanto implicito e irrisolto il rapporto tra obiettivi democratici e obiettivi socialisti. Nell'assumere questa « dimensione», il «partito nuo­vo» fa però integralmente propri anche i cardini della dottrina leninista del partito.

Vecchio o nuovo, il par­tito è lo strumento pressoché esclusivo, « principale », che le classi sfruttate possono darsi per conquistare il potere (a differenza della borghesia, che ha « la fonte del suo dominio nel mondo della produzione »). Il partito è il depositario della coscienza della classe, solo in esso il momento rivendicativo e corporativo è supe­rato e « si giunge alla politica ». Spetta al partito ritra­smettere questa coscienza alla classe e alle masse, farle coscienti, guidarne le lotte e generalizzarne le esperienze. Coerenti con questo suo ruolo demiurgico saranno dunque i criteri di organizzazione e di reggi­mento interno del partito, fortemente accentratori e elitari. In questo senso, il «partito nuovo» è ancora figlio del X congresso del partito comunista sovietico, e della « bolscevizzazione » post-leninista.

 

L'intuizione di Gramsci 

È un impianto in cui si intrecciano molti elementi, secondo alcuni contraddittori, secondo altri no. È certo un impianto a cui restano estranei, o sostanzialmente ne sono contraddetti, alcuni dei motivi ispiratori più creativi della elaborazione teorica e della lotta pratica del movimento operaio italiano e internazionale, a cominciare dall'esperienza dell'Ordine nuovo.

Di que­sta esperienza viene meno il tratto distintivo, il rife­rimento alla fabbrica come «territorio nazionale del­l'autogoverno operaio», la promozione di organismi e istituzioni operaie autonome come centri di forma­zione della coscienza politica proletaria, alimento inso­stituibile del partito e germi del nuovo potere e del nuovo Stato. Non si rinnova quella intuizione che, in Gramsci, non è solo affidata a «poche frasi del 1919» («abbiamo semplicemente il torto di credere che la rivoluzione comunista possono attuarla solo le masse e non un segretario di partito né un presidente di Repubblica... pare questa fosse anche l'opinione di Carlo Marx e Rosa Luxemburgh»); non è solo il frutto contingente di una rivolta contro il partito imbelle e i bonzi sindacali del suo tempo («il processo rivoluzionario si identifica con uno spontaneo movi­mento delle masse lavoratrici... il partito è il massimo agente di questo movimento ma non è una forma di questo processo, malleabile e plasmabile ad arbitrio dei dirigenti»); non è solo il riflesso meccanico del­le esperienze « soviettiste» della rivoluzione russa e ungherese, delle sperimentazioni analoghe di altri set­tori del movimento operaio occidentale, di tutto un orizzonte teorico non ancora oscurato dalle «sempli­ficazioni» staliniane; ma è elemento costitutivo di tutta la successiva elaborazione.

Nelle Tesi di Lione, quel che colpisce retrospettiva­mente non è tanto la dominante preoccupazione, ma­teriale e teorico-politica, di modellare l'organizzazione del partito sulla base della produzione (poiché «la classe operaia viene naturalmente unificata dallo svi­luppo del capitalismo secondo il processo della pro­duzione»), ma il modo di pensare il rapporto tra il partito e la classe: l'operaio non è «lo strumento ma­teriale dello sconvolgimento sociale» ma «il prota­gonista cosciente e intelligente della rivoluzione»; il partito non può dirigere la classe «per una imposi­zione esterna»; le esigenze di azione tra le masse «so­no superiori ad ogni patriottismo di partito»; preziosi sono tutti gli organismi rappresentativi aderenti al si­stema della produzione che «le masse hanno la ten­denza a costituire... sia per lotte di carattere imme­diato che per azioni politiche di più largo sviluppo». Tanto più in una società fortemente articolata, tutta intessuta di momenti e movimenti autonomi e stra­tificazioni storiche, così diversa da quella zarista, com'è la società italiana che Gramsci disegna, è difficile che il partito nuovo, l'intellettuale collettivo, possa pen­sare se stesso come un'avanguardia tradizionale.

Il rap­porto tra realtà sociale e coscienza politica si realizza per vie molteplici, ha un anello di congiunzione indi­spensabile in organismi politici che della classe e delle masse siano diretta espressione, e che né il partito né domani il nuovo Stato possono esaurire in sé. Qui, a questi livelli, la spontaneità delle masse, gli obbiet­tivi intermedi e la prospettiva rivoluzionaria trovano la loro occasione di saldatura, e il partito la sua fonte di vita e la sua funzione di sintesi. E trova qui il suo fondamento anche una possibile, diversa « incar­nazione » del centralismo, della dialettica interna del partito: organismo vivente che si misura continua­mente sulla realtà, che « non si forma se non dopo che la molteplicità si è unificata attraverso l'attrito dei singoli».

 

Il dopoguerra

Subito, nei primi anni del dopoguerra, il partito nuovo e la sua politica soffrono proprio di questo, della mancanza di una armatura di base del movimen­to. Solo in parte questa debolezza è «oggettiva»: come più tardi si è osservato, «forse a Roma non si ebbe piena consapevolezza della lotta al Nord» e del­l'enorme potenziale ereditato dalla resistenza, e avan­zò piuttosto «la tendenza a sopravvalutare nella orga­nizzazione dello Stato il momento elettorale e costi­tuzionale». La linea di Salerno ha, dopo la conclu­sione della guerra, obbiettivi istituzionali (la Repub­blica, la Costituzione) e di equilibrio politico (il tri­partito), ma per il resto si fonda su rivendicazioni elementari (i profitti di regime, misure economiche solidaristiche). La presenza degli alleati e il rovescia­mento delle alleanze internazionali sono gli agenti prin­cipali della rottura dell'unità antifascista e dell'unità sindacale, ma tanto più difficile è contrastare questo riflusso quanto più è e resta fragile l'impianto del mo­vimento di lotta.

Lo sforzo per salvaguardare l'unità antifascista a livello di governo si priva del suo possibile supporto, dei comitati di liberazione come organismi di base. I germi di organizzazione autonoma degli operai, di pos­sibile fondazione di un nuovo potere dopo l'occupa­zione armata delle fabbriche, restano marginali sia nella elaborazione che nel lavoro pratico di quegli anni, e i consigli di gestione concepiti come organismi eco­nomici sono facilmente schiacciati. L'unità politica della classe è ricercata tenacemente, ma affidata pre­valentemente al rapporto orizzontale tra partiti (la «fusione»), e solo nel sindacato trova un aggancio di base. Neppure a livello parlamentare può realiz­zarsi una saldatura con la spinta delle masse, privata com'è la Costituente del potere legislativo. Questo «spazio» che si apre tra partito e masse, questa forzata separazione fisica (non ideale e politica) che nessuno sforzo organizzativo è pienamente in grado di compensare, è una delle radici della incompren­sione (la «doppiezza») che la strategia e la tattica del partito patiscono.

Anche e proprio nell'ambito di questa strategia e tattica, che si propone di stabilire una qualche continuità tra obbiettivi democratici e finalità socialiste, il partito e in generale il movimento operaio non si vanno strutturando per una lotta so­ciale di aggressione e demolizione delle vecchie strut­ture economiche e statali che già si riassestano, per la promozione dal basso di un nuovo potere e di un nuovo Stato in cui le masse si riconoscano. Caduta o accantonata l'ipotesi insurrezionale, è naturale che la tensione tenda a scaricarsi prevalentemente in direzione elettorale: è il falso, paralizzante dilemma tra «via greca» e illusione maggioritaria. Un dilemma desti­nato a reincarnarsi fino ad oggi in dilemmi (vocazione governativa o massimalismo) altrettanto falsi e pa­ralizzanti.

 

La guerra fredda

In nessun altro periodo, come nel quinquennio di opposizione frontale alla restaurazione capitalistico-borghese, il « partito nuovo » conosce un altrettanto rigoglioso sviluppo organizzativo (in iscritti, cellule e sezioni, espansione sociale e geografica). E non solo uno sviluppo organizzativo, ma anche una capacità di mobilitazione e di lotta, un grado di influenza poli-, tica, senza del quale tutte le conquiste della libera­zione sarebbero state compromesse. Le qualità del « partito nuovo » si riflettono nelle lotte di strada, nelle campagne politiche, nel tipo di milizia di questi anni: vi si riflettono l'eredità della resistenza, la vo­lontà di portare a compimento il rivolgimento della società, la solidità dei legami internazionali di fronte ai contraccolpi della guerra fredda, lo spirito di lotta e di sacrificio di centinaia di migliaia di uomini.

Ma sono anche gli anni in cui i colpi più duri si ab­battono sugli operai. Si vede che, sul serio, la bor­ghesia ha « la fonte del suo dominio nel mondo della produzione » oltre che nell'apparato repressivo dello Stato, e che non esita a fare di questo dominio uso feroce. E si vede quanto sia difficile opporvi resistenza senza avere, anche e proprio dentro questo «mondo», strumenti adeguati: nessuna lotta operaia potrà essere impostata che non sia difensiva e perdente, nessun movimento che contrasti sul suo terreno la restaura­zione capitalistica può svilupparsi, perché non ha nep­pure cominciato a prender forma. Le sole lotte anti­proprietarie, e in qualche modo di potere, volte a inci­dere sui rapporti di classe, sono quelle che trascinano i contadini poveri del Sud, ma ancora contro le so­pravvivenze feudali, e senza che neppure la grande forza contadina delle regioni centrali scenda in campo per la terra.

Anche nel corpo del partito, oltre che nella struttura del movimento di lotta, continua a pesare la tendenza a una separazione dalla classe, si accentua la difficoltà di riassumerne la rappresentanza, di conservare con i suoi centri di aggregazione un rapporto non estrin­seco, per spezzare il quale l'avversario non risparmia i mezzi. I sintomi già presenti nei primi anni (la flut­tuazione e poi la diminuzione degli iscritti nelle regio­ni avanzate del Nord, una forza nei comuni operai anche elettoralmente inferiore alle attese e alla forza democristiana) persistono, e in un breve arco di tempo la composizione sociale del partito si modifica con la caduta della presenza operaia sotto il 40%, con la caduta tendenziale del numero di fabbriche in cui resiste una organizzazione anche solo nominale del partito. Fenomeni che possono apparire secondari per il bisogno preminente di estendere il peso e il livello dell'organizzazione politica a tutta l'area nazionale, e perché la polemica contro « l'operaismo » è di moda. Ma fenomeni che non si arresteranno, anzi diverranno macroscopici in tutto il corso degli anni '50.

Anche sotto un altro profilo, già in questi anni di forte sviluppo, il rapporto partito-masse non riesce ad essere quello che si vorrebbe fosse. Se il « partito nuovo » e la sua organizzazione si assegnano una fun­zione mobilitante pressoché esclusiva nei confronti delle masse sul terreno politico, in che modo potrà realmente esercitarsi questa funzione se non con una incessante « attivizzazione », partecipazione, iniziati­va dei militanti? Se non esistono altri strumenti po­litici dì classe, altri canali di comunicazione (cosa di­versa sono le organizzazioni di massa, anch'esse con­cepite orizzontalmente), come si potrà stabilire la neces­saria interazione con la realtà circostante, se non attra­verso questi mille tentacoli (l'azione capillare) che dal corpo del partito debbono proiettarsi in tutte le di­rezioni?

La storia del partito di questi anni è anche storia di questo sforzo, senza del quale il partito si sarebbe spezzato sotto i colpi della reazione. Ma è uno sforzo che urta contro un limite intrinseco, inerente alla con­cezione e struttura del partito, e che perciò ha una strada disseminata di ostacoli, destinati a moltiplicarsi.

L'ammonimento di Togliatti del 1944 («in un partito come il nostro, comunista, bolscevico, non ci possono essere degli elementi inattivi») ritorna puntuale nel 1945 («talvolta i nostri dirigenti federali non sanno che cosa far fare alle decine di migliaia di nostri iscrit­ti»), nel 1946 («si tratta di avere una organizzazione di base che renda possibile l'attivizzazione dei com­pagni»), nel 1947 («l'attivizzazione dei compagni è forse il punto delle direttive di Firenze nel quale siamo più indietro»), al VII Congresso («l'obbiettivo no­stro è ancora quello di dare a ogni compagno un com­pito continuativo»), nella conferenza nazionale del 1955 (in rapporto alla «relativa inerzia» succeduta al trionfo elettorale del 1953), all'VIII Congresso. E la fantasia organizzativa non cessa di ricercare le cause del male (astrattezza degli obbiettivi, «caporalismo», diaframmi e compartimenti stagno, rapidità dei mutamenti sociali, insufficiente livello ideologico) e di escogitare i rimedi (suddivisione di compiti, de­centramento, metodi di direzione). Ma non avanza l'essenziale, la percezione che i limiti alla attività pratica, alla partecipazione democratica, all'iniziativa politica creatrice, hanno radici più pro­fonde.

Sul «fronte esterno», indicato come principale, l'attivismo si allenta progressivamente proprio perché è «esterno al fronte». La presa sulla realtà è ardua sopratutto perché non si esercita attraverso un sistema sia pure non rigido di istituzioni, di aggre­gazioni autonome della classe e delle masse, là dove la società produce e ha la sua consistenza. Anche per il militante, l'attivismo si separa dalla sua vita sociale reale, per forza di cose tende a ridursi a mansione esecutiva. E tanto più è difficoltoso quanto più, sul «fronte interno», diventa pura recezione e tra­smissione di cose decise altrove. Fatica a divenire, se non in momenti d'eccezione, iniziativa, parteci­pazione e elaborazione, perché è lavoro pratico as­segnato secondo una gerarchia, ristretti canali e rigi­di controlli. È considerato  garanzia di comunità o lu­brificante della macchina organizzativa e propagandi­stica, non contributo creativo né antidoto alle tendenze «manageriali » dell'organizzazione. A sedici anni di distanza, l'ammonimento del 1944 ricompare perciò inalterato, ennesima esortazione a una «continua par­tecipazione degli iscritti all'attività del partito», a una «articolazione organizzativa e una direzione tale che consentano questa partecipazione».

 

Il rinnovamento del XX

Il « rinnovamento » dell'VIII Congresso, tappa cruciale, non si inscrive solo nella cornice della crisi internazionale del '56. Anche cronologicamente, si colloca nel mezzo di un decennio in cui questa forbice tra stato del partito, struttura del movimento, compiti di lotta e nuovi processi in atto nella società, si allarga ancora. Come sarà affrontato questo problema, e con quali esiti?

Negli anni che seguiranno, compresi quelli in cui ca­dono i due successivi congressi, si compie il ciclo che vede quasi dimezzato il numero degli operai militanti nel partito, ridotta a un quarto la percentuale degli operai organizzati in fabbrica, raddoppiata la per­centuale di lavoratori fuori produzione, e che vede cre­scere l'età media del partito di circa dieci anni (« la maggioranza degli operai ha oggi .meno di 30 anni, ma solo il 30% del partito ha oggi meno di 30 anni »). È un mutamento qualitativo, poiché questo processo accompagna, alla rovescia, la trasformazione della so­cietà nazionale in società industriale pienamente svilup­pata, dove il peso dei lavoratori dipendenti dall'indu­stria sale nel modo noto. Questo mutare della fisio­nomia del partito rispetto alla classe non può più essere valutato variamente, a seconda di metri ideologici più o meno controversi, ma è semplicemente segno di un distacco dal tessuto sociale, dalle nuove avanguar­die che vi si esprimono.

Il « rinnovamento » è sopratutto sforzo di sistema­zione teorica e programmatica della via democratica al socialismo, della strategia delle riforme, e quindi di rilancio del partito sul « fronte esterno » e di adegua­mento interno dei suoi modi di vita. Ma questo rilan­cio è visto, e sopratutto realizzato, come più forte pre­senza e più efficace azione nelle istituzioni rappresen­tative, nelle amministrazioni locali, nelle assemblee le­gislative, come ritessitura del sistema di alleanze poli­tiche che i contraccolpi internazionali (ma anche i feno­meni di integrazione che affiorano) hanno determi­nato. E l'adeguamento dei modi di vita interna è ricercato piuttosto in termini di « garanzie », non solo perché l'inclinazione a una gestione più duttile era già nel « carattere » del partito nuovo, ma anche per. le suggestioni liberalizzanti del XX Congresso. Forse c'è anche il persistere di un'analisi economica, di una valutazione complessiva delle cose, di un giu­dizio sul capitalismo italiano e occidentale, che nei problemi dell'arretratezza e nelle contraddizioni tra­dizionali del paese continua a vedere la molla fonda­mentale non solo di una lotta di opposizione ma an­che della costruzione di una alternativa, sebbene la concentrazione produttiva e l'organizzazone scientifica dello sfruttamento già preparino il sovvertimento di tutti gli equilibri del paese. Fatto sta che, mentre la strategia delle riforme è pienamente enunciata, una ristrutturazione del partito e del movimento per una lotta diretta di aggressione alle strutture produttive e statali non avanza.

Sono gli anni in cui, nell'area meridionale, la conce­zione delle,, autonomie e delle alleanze finisce col tra­dursi in episodi singolari come quelli siciliani. In cui comincia la difficile rincorsa dei socialisti, che hanno già liquidato l'unità d'azione e covano le illusioni del­l'unificazione socialdemocratica e della manovrabilità del capitalismo di Stato: illusioni agevolate dal fatto che le condizioni per una lotta di resistenza e di op­posizione sussistono tutte, ma non quelle per la pro­mozione di uno schieramento di lotta sodale-politica che sposti avanti il fronte di classe, squilibri il siste­ma, renda convincente e mobilitante una alternativa. Sono gli anni in cui il sindacato si fa carico in misura crescente dei problemi di lotta e di potere nella fab­brica, che il partito non ha modo di affrontare («ognu­no raccoglie quel che ha seminato» - afferma più tardi con brutale verismo la dirigenza sindacale). Sebbene anche il processo di autonomia del sindacato, di suo adeguamento alla realtà produttiva, proceda affaticato. È naturale che questa « lievitazione », nella sfera della politica pura o tradizionale, abbia i suoi contraccolpi non solo sullo stato dell'organizzazione, ma anche nella formazione dei quadri. C'è una sostituzione del qua­dro che, con pregi e difetti, si era formato nelle fasi dello scontro di classe diretto, ma più che un ricambio dettato da nuove esperienze di lotta è un avanzamento in parte anagrafico, in parte per « competenze » acqui­site in questa nuova « dimensione » in cui opera il partito. Un quadro che va formandosi nella parteci­pazione alla vita pubblica istituzionalizzata, affinandosi nella proposizione di programmi paralleli alla pianifi­cazione capitalistica, e che perciò tende ad assumere, nei confronti del movimento, una funzione di rappre­sentanza delegata e di mediazione, più di quanto col movimento non si identifichi.

 

La riflessione degli anni 60

Gli anni '60 suggeriscono, e si spiega, una rifles­sione critica tra le più attente e anche, allarmate. Poi­ché come si possono, da un_ punto- di vista marxista, ignorare le conseguenze alla lunga fatali di una crescita squilibrata tra « forza elettorale e politica da un lato e sviluppo organizzativo dall'altro », i « cedimenti » impliciti nel distacco tra seguito di opinione e presa reale sulla società, tra dimensione del partito (e di un partito nuovo, per di più) e sua capacità di « inner­varsi » nel tessuto sociale, nei centri produttivi e di formazione culturale? Non è evidente il rischio che il movimento decada a pura « pressione » rivendicativa o propagandistica, da trasferire nella sfera della po­litica tradizionale, confondendo possibili spostamenti di maggioranze con nuovi rapporti di potere? Non è di qui che sono sempre cominciati i processi di social-democratizzazione, gli smarrimenti di cui i * socialisti già sono vittime illustri?

La riflessione critica avverte alcuni di questi rischi specialmente in occasione della quinta conferenza na­zionale, e propone « un modo nuovo di concepire il carattere popolare di massa del partito », abbando­nando « il concetto indifferenziato di popolo », pre­cisando « i diversi aspetti' della fisionomia sociale » del partito, rinnovandone il tessuto organizzativo nel senso di « fondare sulla rete delle organizzazioni comu­niste nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro una parte essenziale di tutta l'attività interna ed esterna », mettendo radici « in tutte quelle realtà nelle quali è possibile portare la lotta delle masse a livelli e svi­luppi più complessi e avanzati, i quali non possono essere pienamente assicurati dagli organismi tradizionali». Si apre la discussione sulla inadeguatezza delle strutture territoriali, si cerca di « verticalizzare » l'or­ganizzazione, si sperimentano innovazioni come i « grup­pi di lavoro per problemi », affinché la linea politica non sia « una cosa da portare né una discussione ge­nerica ma... una indicazione da far vivere continua­mente », affinché l'ipotesi di una trasformazione dello Stato ancora prima della conquista del potere politico non si confonda con l'ambizione classica della sinistra europea a « sostituire le vecchie classi dirigenti senza intaccare il sistema », e il movimento operaio non si fermi « sulla soglia di un esame reale del meccanismo attraverso cui funziona la società capitalistica».

Non è da credere che questi propositi vadano dispersi, o finiscano per rovesciarsi in un ulteriore incentivo alla settorializzazione del movimento o all'elaborazione sta­talista, perché non convinti. Il fatto è che qualcosa, anzi molte cose che spingono in direzione opposta, si sono andate accumulando nel tempo. Ed è difficile anche solo mutare, se non invertire, la rotta, senza una riconsiderazione complessiva della concezione del partito rispetto alla società e al movimento, una ricon­siderazione del terreno su cui saldare momento riven­dicativo, riforme, fondazione socialista in una società ormai in pieno sviluppo. Forse l'attrito o l'ostilità a tradurre in termini politici il giudizio storico già formulato sulla « necessità di una rivoluzione socia­lista in Italia », non nasce tanto da un'analisi che ritiene immatura una accelerata transizione a un nuo­vo assetto sociale, quanto dalla difficoltà di ancorare questo discorso a meccanismi e organismi di lotta che gli diano concretezza, che non lo riducano a pura agi­tazione massimalista.

In realtà avanzano altri propositi e tendenze, che cer­cano di compensare il cronico logorio del tessuto orga­nizzativo con una accelerazione politica al vertice, ad aggirare per queste vie la difficoltà di una saldatura dal basso tra battaglia di opposizione e costruzione di una alternativa. Il lancio della proposta di un « par­tito unico », in pieno centro-sinistra, non sarà indice di « revisionismo » per la piattaforma dottrinaria e politica su cui (almeno nella seconda versione) si fon­da, ma di evasione dal compito più arduo di costruire "una nuova unità fondata su un diverso modo di orga­nizzarsi e di lottare, su una nuova dimensione poli­tica di base'. E la proposta di una « programmazione democratica », contrapposta alla programmazione mo­nopolistica in quanto appoggiata a un sistema di auto­nomie, a queste autonomie può riferirsi solo nomi­nalmente, perché non esistono come poteri di base.

La malizia dell'avversario può profittarne con la pre­tesa di invischiare i sindacati, come istituzioni dele­gate, in una collaborazione di vertice. Nell'esplosivo 1968, quando pure la resistenza del « corpo democratico » del paese raggiunge il massimo di espansione, tutti i vecchi nodi (forza quantitativa, presenza in fabbrica, partecipazione creativa, invecchia­mento) si impigliano così allo stesso pettine. Ma ce ne sono di più, e di più pericolosi, poiché il distacco dai processi reali e dalle avanguardie sociali, dalle gio­vani generazioni, dalle forze decisive della produzione materiale e intellettuale, per la prima volta ha un ri­svolto in forme di lotta, in aspirazioni, in aggregazioni organizzative, che esplodono al di fuori dell'area tradi­zionale della sinistra e si sottraggono o contrappon­gono all'egemonia del partito. Le direttive di organiz­zazione che si continuano a leggere (l'urgenza di « una leva di massa di nuovi militanti nelle fabbriche », del­l'inserimento di « un'intera nuova generazone nella vita del partito ») suonano al confronto come uno stanco rituale. E come fuga in avanti suonano gli ultimi tentativi di cercare una risposta        nell'« area gover­nativa ».

 

Il suggerimento del 1968

Ma le « rivelazioni » del 1968, il clima « caldo » dell'anno che viviamo, l'instabilità sociale e politica che traspare da ogni poro della vita del paese dal Nord al Sud, non obbligano solo a prendere atto del desti­no riservato a ogni tentativo di contenere nella cami­cia di forza del riformismo la spinta a una trasforma­zione di fondo della società. Indicano anche, non più  con l'approssimazione delle analisi e delle idee ma con la forza dei fatti, come sia impossibile andare avanti senza colmare lo « spazio vuoto » tra l'orga­nizzazione politica di classe e i nuovi caratteri della spinta sociale, le nuove forme che assume, i nuovi bisogni che esprime, le posizioni di potere che solle­cita e tende a costruire.

I nodi dottrinari, politici, organizzativi attorno a cui si sono andati affaticando il « partito nuovo » e il movimento operaio organizzato in questi vent'anni giungono a un punto di verifica storica, in. cui i suc­cessi ottenuti e i limiti patiti o si traducono in una svolta o rischiano di aprire una marcia indietro. Non è nato il « partito nuovo » come incarnazione di una svolta compiuta sotto la spinta di un potente movi­mento storico? A venticinque anni di distanza, a cin­quanta dalla nascita del partito, il sommovimento che viviamo è forse meno lineare ed evidente ma non è meno profondo, e reclama come allora dal partito una « rivoluzione » dentro di sé per promuoverla fuori di sé. Non è che, astrattamente, le analisi e le intui­zioni di Gramsci circa i caratteri della società moder­na, le autonomie su cui si fonda, la complessità che vi assume il processo rivoluzionario e il modo di essere della coscienza e dell'organizzazione politica, trovino nel confronto con la vicenda di tutto l'occidente euro­peo una nuova luce di verità  come pure accade, al di là di ogni disquisizione filologica. È che, nella con­cretezza politica, in rapporto alle esigenze immediate della lotta, nuovi materiali e nuove idee avanzano e domandano di essere reinseriti nel circuito della nostra stessa tradizione.

Dell'esperienza del movimento studentesco si può par­lare bene o male, giudicarla in molti modi: ma non si può negare che sia una delle poche esperienze poli­tiche di massa che ha posto un problema di riforma e di potere con una forza sconosciuta, che ha travali­cato nei contenuti e nelle forme ogni elaborazione pre­cedente, che ha spostato equilibri politici, ha prodotto nuovi quadri. Non è stato un modello, ha conosciuto le stesse difficoltà di « sbocco » di altri movimenti tradizionali, e la sua parabola ripropone il problema del rapporto tra spontaneità e organizzazione, tra lotta e sintesi politica, tra conquista di posizioni di potere e il loro uso generalizzato. Ma come negare la forza che gli è derivata non solo dagli obbiettivi « avan­zati » e perciò concreti, ma dalla sua struttura « so­ciale », dalla sua nascita e capacità di aggregazione sul luogo dove ha le sue radici « produttive », dalla sua autonomia inventiva, dalla ricerca di un rapporto non mediato con la classe operaia?

Si può avere più o meno timore, e con maggiori o minori giustificazioni, dell'« estremismo » o della spon­taneità o dell'anarchismo o del corporativismo che possono permeare la contestazione operaia dello sfrut­tamento e del potere capitalistico. Ma la carica di lotta che, forse per la prima volta nel dopoguerra, mette in discussione il sistema e dimostra d'essere « tecnica­mente » in grado di scuoterlo e di investire parallela­mente il potere statale, è tale anche perché per la pri-_ ma volta supera il momento rivendicativo e tende a saldarsi con l'azione e con l'organizzazione politica anche per propria naturale tendenza, fuori dei canali tradizionali. La « tendenza naturale » delle masse e delle loro avanguardie a esprimere organismi nuovi, esaltata da Gramsci, riprende a manifestarsi nella fati­cosa, occasionale anche, ma accanita promozione di comitati, consigli, forme di rappresentanza ravvicinata e intermedia, che moltiplicano il peso rivendicativo e politico non solo degli operai, ma degli studenti e di un vasto arco di forze sociali, su tutto l'equilibrio so­ciale e politico del paese. Cosi come, nelle zone « arre­trate », viene in luce che se non si riesce a imboccare questa via c'è poco rimedio alla disgregazione o all'in­tegrazione, e proprio gli obbiettivi « sovrastrutturali » di decentramento statale rischiano di diventare solo veicoli di nuove forme di assoggettamento e sfrutta­mento.

Si intravede, non più in astratto, che anche e pro­prio una strategia di riforme non episodiche può tro­vare nuova forza di convinzione, e non solo aggregare nuove forze sociali anche a livello intermedio (i tecni­ci, i professionisti) ma spostare e rimescolare settori  e forze politiche di base (le Acli, il dissenso cattolico, le « correnti » sindacali, lo smarrimento socialista) se avanza nelle strutture che vuol riformare, se tende a tradursi in forme di potere, in istituti permanenti della classe e delle masse, scuotendo il vecchio Stato nel suo meccanismo produttivo, e riverberandosi negli istituti tradizionali e scuotendoli dal loro interessato torpore. E, d'altro lato, rigenerando, proprio attraverso questo contatto diretto con la società, la concretezza e la positività dell'alternativa rivoluzionaria. Ci vuole tanta immaginazione per comprendere quale forza trascinante e unificante avrebbe, anche a livello poli­tico, e nei confronti delle avanguardie operaie, stu­dentesche, intellettuali, uno spostamento dell'elabo­razione e della lotta del « partito nuovo » su questi terreni, per un lavoro comune? E non è questa, per l'organizzazione politica di classe, anche la via mae­stra perché iniziativa, partecipazione, attivismo, sele­zione di quadri trovino nuove forme, non secondo moduli organizzativi e tradizioni gerarchiche tanto consolidati quanto inadeguati, ma parallelamente a una simile ristrutturazione del movimento di lotta?

È stato scritto che non si può chiedere al partito, né nuovo né vecchio, di prefigurare in sé, nella propria concezione e vita interna, nel rapporto con il movi­mento, i lineamenti del nuovo Stato che si vuole edi­ficare. Sarà vero, ma non si possono di sicuro prefi­gurare e conservare neppure dei lineamenti difformi o contrari. Il problema non è di dare « garanzie» di pluralismo politico all'avversario. Il problema è di concezione e di pratica costruzione di un possibile mo­dello di democrazia operaia. Senza un «partito nuo­vo» che abbia questa concezione non c'è probabil­mente salvezza, ma il partto nuovo non può esser tale senza questa ispirazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



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