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Luigi Pintor

 

REPRIMERE I REPRESSORI

numero 2   febbraio 1970

 

 

La repressione di stato  non è un'eccezione, una risorsa estrema del potere pubblico per fronteggiare situa­zioni di emergenza. È la norma. Di solito opera, quest'è vero, per canali invisibili, si traduce in un uso discreto e articolato dei meccanismi legislativi, giudiziari e poli­zieschi che anche il cittadino più innocuo ha modo di subire in varie circostanze: è una repressione preven­tiva o incombente, per così dire.

Più di rado, secondo scadenze che hanno quasi la regolarità dei cicli pla­netari, quando si tratta di restaurare un equilibrio tur­bato, la repressione si manifesta in forme più massic­ce: lo stato e il suo apparato realizzano per questa via quel « recupero » dell'ordine costituito che il padro­nato persegue a sua volta con la riorganizzazione del lavoro sfruttato e che i governi del padronato favori­scono con la manovra economica. È questa la repres­sione che si volge, dopo l'autunno, e più in generale dopo il biennio '68-'69, contro le avanguardie operaie e giovanili.

Ma che cosa rende possibile, e perfino agevole, il fun­zionamento quasi automatico di questo meccanismo di « recupero »? Sarebbe alquanto semplicistico sbrigar­sela con l'argomento che fino a quando il potere poli­tico è in mano dei capitalisti, o esercitato per loro conto, la macchina statale è funzionale a questo potere e natu­ralmente e fatalmente assolve, con la repressione, ai suoi compiti istituzionali. I rapporti di forza sociali e politici non sono poi così favorevoli, oggi, all'avversa­rio di classe, da comportare un simile automatismo. Oltreché sbrigativa, una simile argomentazione sareb­be del tutto contraddittoria con una strategia politica che si propone la conquista del potere e la trasforma­zione dello stato per «linee interne», e che rivendica anzi a se stessa il merito d'essere già un pezzo avanti su questa strada, di avere già conquistato un peso e una incidenza «istituzionale». Come mai, dunque, la repressione ritorna puntuale?

Il fatto è che questa ventennale strategia di conquista e trasformazione dello stato per linee interne è rimasta per gran parte allo stato di enunciazione, nelle nuvole, riducendosi nei fatti a una pura pratica riformistico-le-gislativa, con una incidenza nulla sulla natura e la strut­tura dello stato. I meccanismi legislativi, giudiziari, po­lizieschi — parallelamente ai meccanismi dello sfrut­tamento capitalistico — sono rimasti e restano, da tem­po immemorabile, intangìbili, impermeabili ad ogni in­fluenza diretta della sovranità popolare, perfino ad ogni controllo che non sia mediato — fino a risultarne vani­ficato — dalla « politica » come categoria ottocentesca.

L'opposizione di sinistra, dalla Liberazione ad oggi, ha accompagnato sempre meno i grandi movimenti riven­dicativi di massa con la costruzione di strumenti di in­tervento e di potere degli operai capaci di conservare — al di là del sindacato — le conquiste strappate con la lotta, e di impedire il « recupero » padronale nell'or­ganizzazione produttiva e nella vita economica.-Ma que­sta divaricazione tra momento rivendicativo e costru­zione di strumenti e conquista di posizioni di potere è stata macroscopica, totale, ancor più sul terreno deci­sivo dell'organizzazione statale. Per anni tutto ha ruo­tato attorno alla dìsputa sul carattere precettivo o meno della Costituzione e attorno alla ricerca di un qualche garantissimo giuridico (la Corte costituzionale, l'ele­zione o meno in essa di un giudice democratico, il Con­siglio della magistratura, la cancellazione delle norme più bestiali dei codici), con straordinario spreco di in­telligenze e di energie. E col risultato che insigni ope­ratori del diritto o esperti della dottrina, come si usa dire, continuano a riunirsi esterrefatti attorno ai tavoli dei settimanali o dei quotidiani per domandarsi come mai nel 1970 ci si ritrovi a ridiscutere negli stessi ter­mini del 1950 circa le norme che colpiscono i reati di opinione o le più elementari libertà civili, circa gli arti­coli 270 ecc. sulle associazioni sovversive, 290 ecc. sul « vilipendio », 302 ecc. sulla « istigazione » — e via di seguito: con una elencazione di numeri più lunga di una tavola dei logaritmi, essendo non questo o quel­l'articolo ma l'intera impalcatura ottocentesca dei codici un retaggio repugnante, destinato a restar tale anche se passerà nel 2000 la riforma generale già « delegata » dal Parlamento al governo. 0 a ridiscutere dell'ordina­mento giudiziario e della casta indiana dei suoi gradì superiori, cioè dell'indipendenza e della riqualificazione dei giudici, come se il vero e più generale problema con cui misurarsi non fosse quello di ricondurre il potere giudiziario a una « dipendenza » dalla sovranità popo­lare, spezzandone il carattere di corpo separato e sovrap­posto. 0 a discutere di un ordinamento poliziesco che, caduta la « democratizzazione » e l'innesto partigiano del primo dopoguerra, resta il più incontrollato ed irre­sponsabile nei suoi meccanismi dì formazione e di azio­ne, massa di manovra di un ministro e oggetto predi­letto di messaggi presidenziali (si legge nei tram: l'ar­ruolamento nella PS vi assicura un brillante avvenire; e poi vi insegnano tranquillamente a rompere teste).

Ma se in passato non si è riusciti ad avviare e neppure a concepire, nell'azione politica, un attacco ai princìpi ispiratori e alla struttura di questi meccanismi, il peg­gio è che ancora oggi gli obiettivi di « riforma » e ì modi di lotta restano i medesimi e si riassumono in nuove invocazioni di illuminate soluzioni di vertice. Un ennesimo spulcio dei codici, per esempio, di modo che il Parlamento ne purifichi il carattere di classe sempli­cemente eliminandone le più sconce norme fasciste; o un ministro degli interni un po' migliore, di modo che un questore indecoroso possa essere strapazzato e il «corpo» complessivo possa, con minor scandalo ma altrettanta organicità ed efficacia, restare istituzional­mente preposto alla repressione; e neppure un vero di­sarmo della polizia ma un suo armamento più moder­no e civile, che in 24 ore possa ridiventare all'occoren­za incivile; o magari un'amnistia, cioè un gesto di libe­ralità e di riparazione che ha tanta importanza pratica per sottrarre alla persecuzione chi oggi ne soffre quan­ta non ne ha per chi ci sì prepara a perseguitare domani; o perfino la raccomandazione patetica ai buoni giudici perché interpretino le leggi non solo «in nome del popolo» ma «nell'interesse del popolo», senza che neppure affiori l'ipotesi di una giustizia piuttosto «am­ministrata dal popolo» (neppure delle giurie popolari si è riusciti a fare una cosa seria).

Il fatto è che la ras­segnazione opportunista (già affiorata nei governi di coalizione antifascista) a una concezione pre-moderna, medioevale, della macchina statale, ha a tal punto di­sabituato alla critica del diritto borghese, oscurato il punto di vista di classe, proletario, che parrebbe ever­sivo anche solo pretendere — tanto per dire — che il potere giudicante cessi di presentarsi alla gente vestito in maschera per distìnguersi e intimidire, paludato in ermellini ogni volta che tira il poco edificante bilancio annuale della propria attività, «togato» sotto polve­rosi crocifissi mentre gli imputati vanno e vengono incatenati.

Accade, cosi, che anche le forme dì resistenza alla re­pressione ricalchino forzatamente schemi corrisponden­ti a questo carattere puramente giuridico-verticistico degli obbiettivi di « riforma ». I cortei hanno la forza della protesta politica, ma vi sfilano, disarmati in par­tenza, comitati di giuristi che continueranno il giorno dopo a soffrire della loro impotenza, costretti a riappli­care le leggi contro cui protestano; parlamentari che continueranno, per la quinta legislatura consecutiva, a chiedere l'abrogazione di un articolo del codice; conte­statori che affiancano, in mancanza d'altro, una «gio­ventù democristiana» tuttora inquadrata nel partito di Restivo. Il manico del coltello l'hanno e lo conservano impenetrabili istituzioni, all'interno delle quali non è stato conquistato alcuno spazio, e dunque non resta che la pressione esterna perché qualcuno, se può, la utiliz­zi — misterioso avverbio — «politicamente», in sedi che poi saranno le trattative di governo o una commis­sione parlamentare. La vanità riformista celebra cosi i suoi trionfi, come «via parlamentare». E ha natural­mente il suo contraltare nella opposta convinzione, non tanto « estremista » quanto impotente, che il solo modo di uscirne sia quello «tradizionale» di una brusca conquista del potere politico per spezzare, solo allora e finalmente, a cose fatte,  questa infernale macchina dello stato (e riprodurla magari identica, come nelle società dell'est, nella persuasione che una diversa  «cornice di classe» basti a mutarne il segno).

Come uscire da questo intreccio di illusione e di im­potenza? Sarebbe già un passo importante se almeno la ricerca e definizione di un diverso tipo di obbiettivi, di strumenti, di forme di lotta venisse anche su questi terreni, come su ogni altro della nostra vita sociale, intrapresa, utilizzando tutta la maturazione di coscien­za e la potenzialità di forze e strati sociali direttamente coinvolti. Il discorso che faticosamente avanza — gra­zie al sussulto studentesco — circa il rapporto scuola-società non è stato neppure aperto in queste altre dire­zioni, e tanto meno esteso al rapporto tra apparato pro­duttivo e repressione statale. Gli operai si difendono, con episodi di sciopero anche dalla repressione di stato, ma come superare il valore puramente dimostrativo di queste forme di difesa, dare ad esse quel carattere per­manente e quella incidenza e quella proiezione esterna che oggi cominciano ad assumere i modi e gli strumenti di lotta contro la repressione padronale? Non più e non solo il «soccorso rosso» verso i propri compagni colpiti dal potere poliziesco o giudiziario, ma una ridu­zione del rendimento produttivo commisurata alla per­secuzione del potere pubblico; una saldatura non epi­sodica, su questi terreni, tra operai e studenti per deter­minare una indisponibilità generazionale all'uso capita­listico del diritto, come della scienza e della medicina; trovando anche su questi terreni il fondamento dell'or­ganizzazione politica autonoma di fabbrica, la funzione dei «consigli» come contropotere non solo in rappor­to all'organizzazione del lavoro, ma dello stato.

E cominciare a rispondere agli interrogativi di fondo: che cosa dev'essere un'apparato giudiziario per cessare d'essere un corpo separato, come meccanismi legisla­tivi e come ordinamento? Come rendere anche il potere giudiziario non semplicemente indipendente ma subor­dinato alla sovranità popolare, parte di una diversa struttura democratica della società? È straordinario che l'episodio di gran lunga più significativo che su questo terreno si sia avuto da molti anni in qua, la « insubor­dinazione » di un gruppo di giudici, il loro tentativo di riqualificare la propria funzione contestando i mec­canismi tradizionali, abbia trovato le forze politiche {ma non le superiori gerarchie, che hanno adottato mi­sure disciplinari) impreparate e pressoché indifferenti: sebbene quell'episodio contenga non solo la prova del carattere faraonico dell'organizzazione interna della giu­stizia, ma un germe di autocontestazione positiva dei ruoli professionali in regime capitalistico, senza lamen­tele o invocazioni di riforme esterne ma con una assun­zione di responsabilità e una indicazione di modi nuovi di lotta e di possibili soluzioni. Una reazione a catena mtorno a ipotesi di questo genere colpirebbe al cuore la macchina repressiva, e porrebbe l'esigenza ài una ri­forma radicale - allora sì - con una forza dirompente.  

Un difficile terreno di scontro, certo. Ma una sal­datura tra l'aspirazione democratica e di potere, cioè di libertà, che percorre il mondo delle professioni - magistrati o medici, tecnici o produttori di cultura - e un'azione e lotta politica che vi corrispondano (e anzi una nuova «milizia» politica, almeno per le avanguar­die intellettuali che non vogliono più ridursi ad esserlo dentro qualche comitato) non sarebbe utopica, se tro­vasse alimento e sostegno in una nuova ispirazione strategica generale dell'insieme del movimento operaio e delle forze polìtiche della sinistra.

Senza di che, e non per caso, neppure un riformismo legislativo decoroso ha potuto finora avanzare in que­sto campo, dove il ritardo è tale che - al confronto - perfino la lentezza e il conformismo codino su altri ana­loghi terreni {l'assetto familiare, per es.) possono ele­varsi ad esempio di efficenza e di spirito sovversivo.

Un tempo, la rappresentanza proletaria in Parlamento serviva alla protesta, allo scontro, a una qualche tutela per questa via della classe subalterna e perseguitata: battaglie condotte in condizioni di inferiorità, e tuttavia con uno spirito di combattimento che più di una volta ha battuto e alla fine scoraggiato la repressione fron­tale, e che era tanto più forte quanto più c'era — anche nel subire la repressione — un rapporto diretto tra le forze di base e le rappresentanze delegate: una sorte comune. Oggi l'opposizione di sinistra ha una forza enorme, può porsi e si pone obbiettivi «costruttivi», che non significa però arretrati né da commisurare {su­bordinare) alla pratica delle convergenze maggioran­za-opposizione. Non «usare» le lotte e la carica anti­repressiva, ma tradurle anche a livello parlamentare quando si dispone dì un terzo delle assemblee e di potenziali alleanze, significa per prima cosa liquidare le finzioni oggi dominanti a questo livello: se il Parla­mento non riesce a legiferare in materia antirepressiva, se non riesce addirittura a liquidare le norme fasciste così come non riesce a porre al centro del proprio im­pegno i problemi della condizione operaia, si può bene non consentirgli di assicurare la gestione indolore dello stato borghese.

Come sempre, si ritorna a un problema di linea gene­rale, di una nuova concezione della società e dello stato, dei terreni di scontro con ì meccanismi dominanti e della prefigurazione e costruzione, nella lotta, di nuovi meccanismi e di un nuovo assetto. Ai contenuti e alle forme di lotta, cioè, di una strategia del potere. E al bisogno, perciò, di una forza politica che abbia questa ispirazione, rovesciandone un'altra: quella che - per restare «con i piedi per terra», « nella storia» - privilegia l'alleanza tra sigle politiche negli enti ammi­nistrativi locali, o la riproduzione esangue su scala regio­nale dei meccanismi statali centrali, o la compromis­sione in sfortunate investiture «da sinistra» del più alto magistrato dello stato, piuttosto che ancorare anche ogni momento tattico e ogni costruzione di schieramen­to all'obbiettivo di mia rottura e di una trasformazione degli apparati burocratici e repressivi nella fabbrica, nella scuola, nelle aule giudiziarie, nel corpo vivo della società e nello stato.

 

 

 



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