Luciana Castellina
uando abbiamo dato alle stampe il primo numero de il manifesto, il 23 giugno 1969, volevamo solo fare una rivista. Nient'altro che una rivista. Se è poi invece accaduto che da qui è nato anche un movimento organizzato (e alla fine persino un partito, il Pdup); e che si siano aperti subito,e un po' ovunque, circoli che al Manifesto si richiamavano, è perché i nostri lettori - che furono immediatamente tantissimi, anche grazie alla distribuzione in edicola della rivista - non erano disposti ad accettare di essere solo lettori. Non erano tempi - quelli - in cui ci si accontentava di un passivo ruolo culturale, erano tempi di militanza e non era giusto negarsi a chi da noi voleva un punto di riferimento per la lotta. Noi stessi, del resto, avevamo orrore all'idea di diventare dei semplici intellettuali; e infatti già nel primo numero della rivista l'editoriale era intitolato «Un lavoro collettivo».
La domanda venne da due diversi settori. Inizialmente da quella parte del Pci che quando, nel novembre '69, gli organismi dirigenti del Pci avevano proposto al dibattito del partito la nostra radiazione, vi si erano fieramente opposti. In quella contestazione non c'era solo la protesta contro una burocratica interpretazione del centralismo democratico, affiorava anche la tematica del dibattito che, sia pur latente, aveva ormai coagulato posizioni politiche simili alle nostre, nei Comitati federali e nelle sezioni.
È accaduto, per ragioni oggettive e soggettive, in particolare a Roma, a Napoli, a Cagliari e a Bergamo, le quattro città indicate allora da Paolo Bufalini in un articolo dell'Unità come quelle dove «il frazionismo de il manifesto aveva attecchito». Ma consistenti schieramenti a favore nostro si erano formati in quasi tutte le provincie (con l'eccezione di Bologna), specie nelle sezioni cittadine: dalla piccola Avellino, dove il periodico della Federazione, «Progresso Irpino», pubblicò un editoriale in polemica con la radiazione, a Torino o Milano, dove anche nelle sezioni operaie venne polemicamente denunciato il fatto che posizioni ben più «frazioniste» di quelle de Il manifesto come quelle espresse da Giorgio Amendola (che aveva operato una esplicita apertura verso il governo di centrosinistra, difformemente dalla direzione del Pci) non avevano dato luogo ad alcuna misura disciplinare.
Solo una piccola parte di questi compagni uscirono poi dal partito (anche perché noi non suggerimmo loro questa scelta), ma quelli che lo fecero non volevano restare con le mani in mano.
Il secondo e più consistente apporto venne da chi nel Pci non era, ma dalla voglia di far politica sessantottina era stato contagiato, pur non avendo trovato collocazione nei gruppi di nuova sinistra già esistenti. Si trattava di circoli politico culturali interni alla tradizione del movimento operaio (Arci, e i molti Rosa Luxemburg o Carlo Marx,ecc, dove militavano anche socialisti di sinistra) e del nuovo dissenso cattolico (fra quelli che svolsero un ruolo di punta l'Isolotto di Firenze e il circolo Maritain di Rimini). Ma si trattò soprattutto di collettivi studenteschi, o, più spesso, collettivi che già si definivano «studenti-operai», alla ricerca di un coordinamento nazionale della loro iniziativa e di un contributo alla loro incerta formazione.
Inizialmente fummo quasi imbarazzati dalla domanda: non solo non eravamo attrezzati a rispondervi, non eravamo neppure sempre in grado di capire chi era che ci chiedeva di assumere il nostro nome e di ricevere il nostro timido imprimatur. Quando riunimmo per la prima volta i «candidati», in un'assemblea tenuta all'istituto Stensen di Firenze, dove generosamente i gesuiti ci avevano offerto ospitalità, ci trovammo a dover dirimere anche non pochi conflitti, e tutti noi peregrinammo poi per l'Italia, a nostra volta curiosi e insieme diffidenti, a verificare le credenziali di ognuno. Il risultato di questo ultimo apporto fu che, nonostante la già ragguardevole età del gruppo promotore, la media d'età dei militanti che divennero manifesto era così bassa che per un po' ci alzammo gli anni per farci prendere più sul serio dalla sinistra tradizionale.
Quanto emerse da questa prima aggregazione (di cui solo una parte si consolidò, successivamente all'unificazione con il Pdup di Vittorio Foa, nel «Pdup per il comunismo», nel 1974) non fu un movimento omogeneo. Né per consistenza, né per ricchezza di composizione sociale, né per qualità dell'impegno.
Lo stesso gruppo «storico» che aveva fondato la rivista fu nei primi due anni particolarmente oscillante, sì da andare dall'indicazione di astensione per le amministrative del '70 alla tormentata (e sciagurata ) scelta elettorale del 1972. Il corpo de il manifesto era investito dalle sollecitazioni molto contraddittorie che ci proponevano i circoli: alcuni, più legati alla tradizione della sinistra, che non riuscivano nemmeno ad immaginare un'attività politica che non avesse un risvolto parlamentare; altri, i più giovani, per i quali, al contrario, pesava una sospettosa motivazione ideologica antistituzionale, di principio. Comune del resto a tutta la nuova sinistra.
Noi stessi nella prima fase finimmo per patire le oppostespinte che venivano dai militanti che si erano raccolti attorno alla rivista e certamente subimmo, al di là della disgraziata vicenda elettorale, nella pratica di movimento ancor più che nell'elaborazione teorica, la pressione, fortemente estremista, che proveniva dalla parte più militante dei nostri aderenti: i più giovani, studenti in particolare, legati nella quotidianità delle lotte agli altri «gruppi» (e da questi inevitabilmente contagiati). Giovani che del Pci avevano conosciuto solo il volto più istituzionale, più moderato e perbenista, quello che aveva guardato con diffidenza profonda il '68 e ora ne veniva ricambiato. Il Pci, insomma, che poco dopo sarebbe approdato all'unità nazionale, verso cui mostravano una diffidenza ben più profonda della nostra che in quel partito avevamo militato per anni (e appreso molto).
Se tuttavia tutt'ora i «manifestini» di allora - ormai approdati a non univoche sponde, molti a ruoli significativi nella società civile - ancor oggi si riconoscono a naso, è perché questa nostra esperienza è stata coinvolgente e ci ha tutti segnato in modo specifico. Tutto sommato nel bene, credo possiamo dire.
L'anomalia che ci ha distinto quarant'anni fa, e ancora oggi ci caratterizza, è che siamo cresciuti sforzandoci di capire la complessità, sfuggendo le semplificazioni, perché, a differenza dei militanti degli altri gruppi della nuova sinistra, quelli de il manifesto venivano da un'esperienza meno lineare, che si collocava a cavallo fra movimento operaio tradizionale e nuovi movimenti. E aveva soprattutto cercato di fornire - con le Tesi sul comunismo del 1970 e con l'insieme della rivista, ricca di inchieste sulla realtà sociale, di approfondimenti teorici, di apporti internazionali che allargavano l'orizzonte un po' asfittico della sinistra italiana - una risposta a intuizioni che l'insieme del '68 aveva espresso ma che erano restati umori confusi. Penso alla anticipata individuazione delle nuove contraddizioni del capitalismo maturo, e la consapevolezza che in quell'orizzonte non ci sarebbe stato maggior benessere e nemmeno più libertà, ma meno. Sono stati proprio i circoli de il manifesto che per primi hanno affrontato la tematica ecologica (quando Lotta Continua per questo irrideva, gridandoci nei cortei «come era verde la mia vallata»; o il femminismo, che pure poi avrebbe lacerato anche noi, ma che proprio nei primi numeri della rivista trovò inizialmente spazio (e ospitalità in uno dei nostri circoli), allora ancora tacciato di «questione borghese».
Per tutto questo fummo anche impopolari nel movimento, che ci considerava «troppo sofisticati» («gli operai del manifesto parlano in francese», dicevano con scherno gli apologeti dell'operaio-massa). Ma credo che possiamo farci vanto di aver reso più trasparente la critica alla modernità che veniva dal movimento e di aver cercato di dare all'idea di libertà radici più profonde di quelle immiserite dell'individualismo radicale poi largamente prevalso.
Impopolari e anche difficili. Le nostre parole d'ordine non erano consolatorie: rifiutavamo lo spontaneismo, ma anche il partitismo dilagante. Il manifesto cercò infatti forme organizzate per poter agire, ma insieme si considerò - e lo fece anche successivamente il Pdup, - un organismo politico transitorio, che non rivendicava nè l'autosuffi- cenza, né avanzava la pretesa di rappresentare l'embrione del nuovo partito necessario, bensì di essere uno strumento per costruirlo insieme agli altri, ivi compreso il movimento operaio tradizionale.
Non ci siamo riusciti, come è noto. Ma ben altri tentativi sono falliti in questi 40 anni. Qualcosa però, sebbene poi rimangiata dalla controffensiva dell'ultimo decennio, l'abbiamo ottenuta: l'aver rifiutato lo scontro frontale con i sindacati, così come di accettare la loro involuzione burocratica, ha certo contribuito - come racconta Serafini - a mantenere aperti i canali che hanno poi veicolato e diffuso i contenuti politici e rivendicativi che il movimento nel suo insieme aveva introdotto. Il frutto sono state le conquiste strappate negli anni '70 - lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria e quella pensionistica, le 150 ore, la chiusura dei manicomi, il divorzio, la legalizzazione dell'aborto. Non sarebbero state pensabili se la sinistra in Parlamento non fosse stata resa forte da un movimento che aveva ridato fiato e fantasia alle organizzazioni istituzionali dei lavoratori. È stato merito di tutto il '68, ma credo che in quel contesto il manifesto possa dire di aver giocato un ruolo non marginale proprio per la linea che lo ha caratterizzato.
Il che non condona i nostri tanti errori: l'aver dilatato le valenze di quanto era invece solo tendenza embrionale; l' aver sottovalutato il peso del contesto entro cui si muovevano e che, alla lunga, avrebbe finito per rovesciarne il significato, assorbendo quanto di indolore per il sistema c'era nel movimento di quegli anni, cestinando quanto esprimeva di realmente alternativo. A livello nazionale e internazionale, dove esperienze soggettivamente esaltanti - penso a Cuba, al Vietnam, al Cile, alla Cina - si rivelarono incapaci di reggere ai condizionamenti oggettivi, l' aggressione dell'occidente e il vincolante sostegno dell'Urss di Breznev.
Sono errori pesanti, su cui varrebbe la pena riflettere più di quanto abbiamo fatto, così finendo per rimuovere gli sbagli ma con loro anche i meriti, col risultato, alla fine, di indurre noi stessi una idea immiserita e anodina di quel che è stato il manifesto.
Per questo non credo che nelle esperienze accumulate, e di cui in questo inserto scriviamo, ci siano solo vecchi arnesi ormai inservibili. È un pezzetto di passato che può servire a riflettere meglio sul futuro possibile.
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