Verso un movimento politico
Luigi Pintor
A UN ANNO DAL "MANIFESTO"
Un anno di vita non è molto per una rivista, è ancor meno per un gruppo politico, ma è abbastanza per una riflessione critica. Con l'ultima crisi di governo, la politica nazionale è giunta a un punto di svolta che può decidere dei prossimi anni. E tutti ci troviamo di fronte a nuove scelte. Nasce - mentre scriviamo - un governo simile agli altri o peggiore, ma l'essenziale non sta qui. L'essenziale sta nel fatto che la crisi ha assunto, fin dall'inizio, un andamento e un carattere diverso da ogni altra del dopoguerra, registrando un mutamento di fondo, un salto, nell'orientamento delle grandi forze politiche.
Nella primavera scorsa si poteva ancora credere che l'assenso dato dal PCI a un qualsiasi governo - purché « facesse le regioni » - fosse una scivolata opportunista, una furberia elettorale, miope finché si vuole ma passeggera e non compromettente. Ora si è visto, in queste settimane, che si trattava e si tratta di ben altro. Per la prima volta dopo il 1945-47, i dirigenti comunisti hanno prospettato l'ipotesi, anzi l'offerta, di una convergenza, di un incontro, di una « intesa cordiale » con la Democrazia cristiana. Per la prima volta dopo il 1945-47 la Democrazia cristiana, non più questa o quella sua corrente minoritaria ma i suoi leaders più moderati e prudenti incaricati di formare il governo, hanno preso in considerazione questa ipotesi e questa offerta. E per la prima vòlta, da allora, è stato individuato con precisione il terreno del possibile incontro: un «patto di classe» tra borghesia e proletariato per una «modernizzazione» del paese, una «tregua sociale» finalizzata allo sviluppo produttivo, a una razionalizzazione del sistema capitalistico e del suo Stato. Con una «piccola differenza» rispetto all'immediato dopoguerra. In quegli anni, l'incontro avvenne pur sempre come proiezione dell'unità antifascista e della guerra di liberazione, attorno a un programma di fondazione del nuovo Stato repubblicano, e senza oscurare le discriminanti internazionali e i diversi traguardi (le riserve mentali) delle forze in campo, di De Gasperi e di Togliatti. Oggi, la ricerca di una intesa risponde a una comune ispirazione, al comune rispetto non più della «ricostruzione» ma della «espansione produttiva», a una comune concezione degli equilibri istituzionali e del potere. Dalla «restaurazione» capitalistica degli anni '50 alla «espansione» capitalistica degli anni '70 come programma comune alla maggioranza e all'opposizione, obiettivo universalmente accettato, cemento della unità nazionale.
Dai meandri della crisi è emerso per tutti un imperativo categorico: bisogna produrre di più, lavorare di più. In regime capitalistico questo vuol dire che gli operai devono lavorare di più (essere un lavoratore produttivo è una disgrazia — diceva Marx). È una questione di principio, il principio semplice dello sfruttamento del lavoro delle classi subalterne, fondamento dell'espansione e della sopravvivenza stessa del sistema. È un principio convincente e schiacciante, se non gli si oppone un punto di vista radicalmente diverso — quello proletario, quello della rivoluzione, della lotta di classe per un nuovo sistema sociale. È un principio che ogni corretta analisi economica conforta, ed è perciò un principio sul quale tutti convengono: l'on. La Malfa e la DC., la Banca d'Italia e i ministri socialisti, i vertici sindacali e quelli del PCI.
Se, su questo punto essenziale, si leggono le dichiarazioni ufficiali delle diverse centrali politiche, è ormai del tutto impossibile distinguerle l'una dall'altra e indovinarne la paternità. Naturalmente un patto di questo genere - cioè una programmazione capitalistica e una sorta di politica dei redditi - non è una cosa facile. Per farlo digerire alle masse, che hanno lottato e lottano per ben altro, la sinistra istituzionale ha bisogno di qualche contropartita: sul piano economico, non chiede più le «riforme di struttura» (un termine perfino scomparso dal linguaggio politico, il che non è male) ma almeno un attacco alle posizioni di rendita, al parassitismo e alla speculazione, una « americanizzazione» del nostro vecchio capitalismo, e le «riforme dei servizi» sociali come compenso allo sfruttamento del lavoro; sul piano politico, chiede la compartecipazione al potere in periferia e un riconoscimento parlamentare. Ma queste contropartite, per quanto siano lenticchie, sembrano esose a molti: il capitalismo italiano ha comunque bisogno di tempo per liberarsi delle sue componenti parassitarie, ammesso che si possa spezzare l'intreccio di rendita e profitto senza far saltare l'intero sistema; e una qualsiasi apertura delle anticamere del potere basta a scatenare, come accadde dieci anni fa perfino con i socialisti, tutta la bassa forza del nostro mondo politico, socialdemocratica e democristiana. Ecco gli scogli della crisi.
Ma per quanto insidiosi, sono scogli che gli epigoni di Togliatti e di De Gasperi non disperano col tempo di aggirare, una volta adottata una rotta e una bussola comune — quella dell'espansione produttiva. Tra di loro, non tanto c'è contrapposizione, quanto concorrenza. Interclassismo democristiano, riformismo socialista, vocazione nazionale comunista, gareggiano per conquistare spazio, ma all'interno di un comune universo. La Malfa può legittimamente osservare che «i comunisti sono finalmente all'interno della tematica repubblicana» (del PRI, vuol dire). I socialisti elogiano., dei comunisti, «la rinuncia alla demagogia». La stampa della grande industria ne elogia, con più precisione, la rinuncia «ai miti dell'autunno caldo», sebbene la revoca dello sciopero del 7 luglio sia una caparra insufficiente e si attendano nuove prove di buona volontà. Al compagno Berlinguer, che domanda lo « smantellamento dei settori improduttivi e parassitari», perché un buon capitalismo finalmente fiorisca, Andreotti risponde che « tutte le forze» possono finalmente collaborare nel Parlamento e nella società alla ripresa nazionale: un gesto politico di lunga prospettiva, ben più consistente del «governo di tutti gli italiani» dell'on. Pella. L'Unità non ha altri avversari che l'on. Ferri, l'on. Saragat (eletto con lungimiranza dai voti comunisti) e l'on. Fanfani (che può aspirare agli stessi voti, se si convertirà).
Chi ha parlato, per l'Italia, di «bipartitismo imperfetto»? Siamo a una sorta di imperfetto «monopartitisnio », a un alto grado di complicità tra le forze politiche che più contano, per restaurare l'ordine contro l'insubordinazione operaia e popolare. Il famoso « inserimento » dell'opposizione nell'area di governo, che tanti compagni paventavano e contro il quale affilavano le armi, è già nei fatti, beninteso in forme meno plateali e sprovvedute di quelle che a suo tempo squalificarono Nenni. E senza che vi corrisponda un reale potere: il comunista Fanti e il socialista Lagorio sventolano sulle torri di Bologna e Firenze mentre Colombo restaura il quadripartito, come Terracini scampanellava a Montecitorio mentre De Gasperi liquidava il « tripartito » post-bellico.
Se riflettiamo, al di là della crisi di governo e delle sue miserie, sull'esperienza complessiva di quest'anno, possiamo tranquillamente (ma senza allegria) costatare che non una sola delle questioni di fondo che ci sforzammo in tutti i modi di proporre all'attenzione dei militanti comunisti e della sinistra italiana, già al XII Congresso e poi col Manifesto, si è dimostrata arbitraria. Tutte hanno assunto, al contrario, ben maggiore evidenza e drammaticità.
Così è per il pauroso contrasto tra il movimento di lotta di questi anni nell'occidente europeo e in Italia, il respiro e le potenzialità della rivolta sociale, e questa asfissia degli sbocchi politico-istituzionali, dal dopo-maggio in Francia al 7 giugno e alla crisi di governo in Italia.
Così è per lo stato complessivo della sinistra italiana: frammentazione e integrazione si sono fatte complementari, da un lato con un crescente isolamento delle nuove avanguardie, d'altro lato con un PSIUP alle corde e un Comitato centrale comunista che discute del modo più opportuno di gestire questo Stato. Così è per la cornice internazionale, per la crisi storica del movimento comunista e del regime sovietico, che nell'ultimo atto della tragedia cecoslovacca, nel nuovo spazio lasciato all'aggressione americana in Indocina, ed ora nel tentativo di abbandonare al suo destino la resi-steza palestinese, trova nuove testimonianze difficilmente equivocabili.
Son passati pochi mesi da quando il dibattito attorno a questi nodi - e per una svolta, un progetto di transizione al socialismo, un internazionalismo liberato dalla logica di potenza, una forza rivoluzionaria nuova nel rapporto con le masse e nella vita interna - fu liquidato nel PCI con un vecchio trucco: l'accusa di frazionismo, applicazione indigena delle tecniche sovietiche. Un trucco vecchio ma di sicuro effetto, che molti adottarono in perfetta malafede ed altri accettarono per conformismo o ingenuità. Non c'era stato il XII Congresso? Un promettente giovane leader non aveva definito i caratteri del blocco storico su cui fondare l'alternativa di potere e l'edificazione della nuova società? Non era stata audacemente affermata la necessità di sottoporre all'analisi marxista perfino le società dell'est? Non erano state colte tutte le suggestioni del sommovimento del '68, l'ansia ideale delle nuove generazioni? Perché dunque dubitare di tutto questo, e dubitare che anche nel suo modo di essere il partito si sarebbe rinnovato senza bisogno della funzione « maieutica », sollecitante, di una piccola e illecita minoranza? Ma la scelta non era di « metodo », bensì di linea. Da allora, tutti i nodi sono stati recisi di netto, una svolta si è compiuta. Per quanto ne fossero state poste da gran tempo le premesse - già con l'opportunismo degli inizi del '60 e poi con la violenta repressione dell'XI Congresso, per non risalire alla storia lontana - la virata ha assunto nel corso di questi ultimi mesi un ritmo galoppante e un carattere definitivo.
Il primo nodo, quello di una prospettiva rivoluzionaria da restituire alla nostra società, è sciolto nel senso di liquidare ogni prospettiva. Il significato profondo dell'ultimo Comitato centrale comunista sta nel fatto ch'esso ha assunto la mediocrità e il conformismo dei risultati del 7 giugno non come occasione di autocritica ma come stimolo definitivo a un riformismo organico. Partito e sindacato si sono palleggiate responsabilità vecchie e nuove, ma per riversarle concordemente fuori di sé: sulle spalle delle masse, sulle lotte, sui loro «eccessi» e sul loro «corporativismo». Perciò il gruppo dirigente del PCI riconosce le buone ragioni del PSI, lo rielegge a proprio interlocutore storico. Perciò Amendola non si preoccupa che il candidato democristiano della grande industria faccia un governo, ma che lo faccia non abbastanza «stabile» ed «efficiente» .
Perciò si lascia ^ravvedere non un piccolo cabotaggio, come avevamo erroneamente previsto, ma un nuovo ventennio di cogestione riformista con il PSI e la DC, un nuovo tripartito fluido. E sebbene ancora molti siano i compagni che ragionano disperatamente in termini di una destra e di una sinistra interne al PCI, paventando il prevalere della prima e fidando nelle riserve mentali e in una riscossa della seconda, questa «dialettica» non è che un ricordo e un sogno. Le voci di «opposizione», circa la nuova democrazia di base, l'impatto delle lotte contro il sistema e lo Stato, i modelli alternativi, sono attriti residui all'interno di una comune logica collaborazionista, di una comune rinuncia strategica: il socialismo non si può fare e neppure pensare, la rivoluzione è materia delle generazioni passate e sperabilmente di quelle future, non riguarda noi e il nostro tempo. Il secondo nodo, quello della sinistra italiana, è sciolto in coerenza col primo. Ai settori radicali e anticapitalisti del mondo cattolico, alla sinistra sindacale e ai gruppi autonomi, l'ex capo della destra confederale e nuovo leader del CC comunista ha detto chiaro di tornare alla ragione, di imparare dal riformismo socialista. Il PSIUP non è più un problema, è andato felicemente in malora per proprio conto e, finché resta soggetto a un gruppo dirigente fidato, può fare come crede.
C'è ancora - e le elezioni lo hanno confermato - un preoccupante spazio libero a sinistra: ma né i resti del movimento studentesco né i gruppi extraparlamentari sono in grado di occupare questo spazio, di insidiare l'egemonia riformista. Dunque non c'è nulla da ristrutturare, nulla da riunificare. Se, al suo interno, il partito non si libera dal malessere che lo pervade ormai da anni, gli scontenti preoccupano tuttavia meno: possono scegliere tra la rassegnazione, il mugugno, il distacco individuale. Chi sposterà più i burocrati? L'autocritica? No, i bolscevichi non sono di «pasta speciale», e neppure gli assessori. Il direttore dell'UwzVà può impunemente confondere le esplosioni qualunquiste dei campionati di calcio con la richiesta di potere delle masse senza che lo sfiori alcun dubbio circa le proprie virtù professionali. Il corpo stesso del partito è cambiato, in gran parte dei suoi quadri e della sua ossatura - quella che decide - è omogeneo al riformismo, figlio di questa società e di questo Stato, malgrado tanta parte della sua tradizione di lotta e la sua rappresentatività di massa.
Il terzo nodo, quello internazionale, è sciolto con modi e tempi adeguati alla svolta a destra nella politica interna. Prima una tacita connivenza con la «normalizzazione» cecoslovacca in nome della «solidarietà di campo», poi la deplorazione della fine di Dubcek in nome della decenza oltreché della sovranità e autonomia, poi di nuovo il silenzio e l'adesione agli orientamenti della politica sovietica con qualche calcolata civetteria (Sianuk, le cineserie): un'altalena, che alterna la presa di distanza opportunista al rispetto per i carri armati. Tutto meno che una scelta intrenazionalista e di lotta. Cos'è mai la liquidazione del leader cecoslovacco, se non l'ennesimo episodio di un processo di fondo che si rivolge contro gli operai, gli intellettuali, le masse del campo sovietico? I dirigenti del PCI non si misurano con questa realtà, la sfuggono; non credono alle scelte di classe, ma alla manovra diplomatica; tra la critica cinese e la marcia di avvicinamento alla socialdemocrazia occidentale scelgono quest'ultima, senza perciò rinunciare all'appoggio della potenza protettrice. L'autonomia (relativa) diventa il surrogato dell'internazionalismo. Ha ragione l'avversario a cogliere in questi comportamenti il segno di una crescente «disponibilità» del comunismo nazionale e regionale indigeno, una carta di credito, un complemento importante dei «nuovi rapporti » tra opposizione e maggioranza atlantica. Hanno ragione i militanti comunisti a sentirsi spogliati di una fede radicata in cambio di nulla. Non per caso, tra gli altri records dell'ultima crisi di governo, vi è anche quello di un pressoché totale accantonamento dei problemi internazionali: in un momento nel quale il fascismo americano guadagna terreno, i fronti asiatico e medio-orientale debbono combattere in pari tempo l'aggressione imperialista e le insidie coesistenziali, e componenti esplosive sono presenti in tutto il corso degli avvenimenti mondiali.
Siamo sulla strada, per quanto riguarda la sinistra istituzionale in Italia, di un fallimento storico non dissimile da quello del movimento socialista degli anni '20, anche se il suo itinerario è più tortuoso e il suo prezzo non è necessariamente il fascismo. Se questo stato pre-fallimentare non si è ancora tradotto - come non si è tradotto - in una sconfitta del movimento di massa, è per il fatto che il capitalismo italiano è organicamente il più debole dell'Europa moderna, il movimento di massa il più vivace e sperimentato, la struttura politico - istituzionale post - fascista precaria, l'instabilità economico-sociale del paese profonda e di.difficile superamento. Perciò, come è stato strisciante il nostro «maggio», così è lento e ipotetico il suo riflusso, contrastato da un continuo contrattacco operaio. Anche nel breve periodo, anche nella fase attuale, la partita è ancora aperta. Se alto è il grado di complicità delle grandi forze politiche e «secondarie» sono le loro interne contraddizioni, non secondaria ma determinante e per molti aspetti insanabile è un'altra contraddizione: quella tra il disegno riformista e l'esperienza di lotta accumulata dalle masse in questi anni, i bisogni espressi, l'insubordinazione dichiarata, la crisi di autorità e di presa ideologica che hanno ferito il sistema. Sia o no passata l'onda alta del movimento, molti fronti di lotta sono aperti e la certezza del diritto padronale in fabbrica, del flusso produttivo, è solo una invocazione e un auspicio, non un risultato raggiunto. Ha ragione il neo-segretario della CGIL di prevedere che una «tregua sociale» costerebbe ancora ai sindacati, se precocemente imposta, quel distacco dalle masse e quella rivolta che hanno già conosciuto e non hanno scordato.
Ha ragione il PCI di proporre il suo concorso alla «espansione produttiva» restando tuttavia, con prudenza pari a quella avversaria, sui banchi di opposizione. Ha ragione la grande borghesia, in un quadro economico che non lascia troppo margine al riformismo, di tenersi finché può la cintura di sicurezza del centrosinistra e la carta di riserva dell'avventura. Il progettato patto riformista ha, per ora, solo la funzione di un narcotico, non di una terapia. Ma se perciò crediamo che la partita sia ancora aperta, crediamo più che mai che i tempi stringano e che la piega presa dagli avvenimenti non consenta alcuna illusione su un punto che decide di tutti gli altri: sulla possibilità di risalire questa china e di evitare una sconfitta generale senza che una nuova forza politica rivoluzionaria cominci per lo meno a prender forma via via che si accumulano le macerie politico-ideali - se non purtroppo organizzative e materiali - delle vecchie; se non si riesce, in questo modo, a rallentare e contrastare prima, e a rovesciare poi, la linea di tendenza oggi dominante.
Lo abbiamo detto quando, dentro il PCI, abbiamo parlato di una necessaria rifondazione strategica e organizzativa, di una rivoluzione culturale. Lo abbiamo ripetuto quando, fuori del PCI, abbiamo sollecitato un processo di aggregazione di forze interne ed esterne ai partiti tradizionali, attorno ad alcune scelte generali e a precise piattaforme di lotta. Lo ripetiamo ora, sebbene le difficoltà dell'impresa siano andate crescendo di pari passo con la sua necessità. Come possiamo tranquillamente costatare il fondamento delle questioni che a suo tempo abbiamo proposto, così possiamo tranquillamente costatare (ma con ancora meno allegria) che su questa strada non siamo finora riusciti - né noi né altri - ad avanzare adeguatamente. Abbiamo, con la rivista e in altre forme, esercitato una critica, alimentato una ricerca, proposto dei compiti. Ma se abbiamo conservato una influenza, offerto un riferimento, verificato una disponibilità di massa e un seguito organizzativo, neppure in piccola parte è colmato il divario tra lo spazio disponibile e la disaggregazione delle forze che dovrebbero occuparlo. Non lo è per nostri limiti soggettivi, che altri può meglio giudicare. Non lo è per ostacoli oggettivi, prevedibili e previsti ma non per questo meno corposi. Il comunismo cinese, con i movimenti di liberazione, è il punto di riferimento naturale per un rilancio della coscienza internazionalista e dei valori di una società di eguali, per ripensare e rivivere la rivoluzione in Occidente nel quadro di una strategia mondiale. Ma non è una bandiera da agitare per non «camminare sulle proprie gambe». Il comunismo cinese mantiene aperta, al di là di ogni mitologia, una prospettiva altrimenti compromessa e perduta; ma non è uno specchietto per le masse. La Cina non è, né può né deve essere, l'URSS degli anni '20 per l'Europa; non offre scorciatoie.
Il movimento di lotta è in certo modo prigioniero della mancanza di un interlocutore valido, di una guida poli-tica capace di generalizzarne le esperienze. Se questa assenza non ha fiaccato la lotta operaia, ne favorisce però continuamente il ripiegamento entro l'orizzonte sindacale e l'uso strumentale da parte della direzione riformista. Ed ha soprattutto, questa assenza, tagliato letteralmente le gambe al movimento studentesco come movimento di massa. Il movimento di lotta non ha perciò prodotto e non può produrre di per sé, se non in misura relativa, quel mutamento degli equilibri politici, quello spostamento di forze, che la sua ampiezza e il suo impeto lasciavano presumere. Né può generare, per l'eternità, nuove avanguardie capaci di Scontrarsi in modo organizzato e coordinato con la politica e la direzione riformiste.
Le minoranze politiche, esterne e interne ai partiti tradizionali e ai sindacati, sono rimaste confinate ciascuna nella propria esperienza particolare, scontando il fatto che nessuna di esse aveva in partenza la dimensione minima necessaria per esercitare una influenza in qualche modo risolutiva. È venuta meno, o si è ridimensionata, l'ipotesi principale alla quale molti si affidavano, quella di poter crescere quasi « naturalmente » sull'onda del movimento.
Si è accentuata, invece, la tendenza alla dispersione. La pura pratica, il dottrinarismo, il giacobinismo, l'entrismo, sono altrettante facce di questa dispersione, della difficoltà di scendere e di incontrarsi sul terreno dell'elaborazione di una linea alternativa, di piattaforme di lotta, di forme di organizzazione che vi corrispondano. Né forse è secondario il fatto che l'intellettualità di sinistra, gravitante in vario modo attorno al PCI, abbia finito col vedere nella contestazione di questi anni più un attacco ai propri privilegi - nella scuola e nella società - che uno stimolo a una ricollocazione culturale e politica, a una rottura con la tradizione e col narcisismo individuale. Nel sommovimento che percorre la società nazionale, in un quadro mondiale che vede crollare ogni punto di riferimento consolidato, la gran parte della intellettualità «progressista» si rivela come la nuova «armatura flessibile, ma resisten-tissima» - per dirla con Gramsci - dello schieramento democratico-riformista e dell'ordine costituito, non come una forza disposta a contribuire al rinnovamento comune pagandone i prezzi. Può essere consolante ma è solo gratuito, in queste condizioni, pensare a una nuova forza politica come a un prodotto già maturo. Una forza nuova può cominciare a nascere solo come una scelta di minoranze ristrette. Il fallimento delle organizzazioni tradizionali non significa la loro dissoluzione, ma una vittoria politica della borghesia. Si tratta perciò di orientarsi e di reagire entro un fronte scompaginato, non di tirare fila di uno schieramento offensivo e vincente.
Si tratta di porre una premessa, di stabilire un punto fermo per mettere a frutto le condizioni di una ripresa quando ancora esistono e finchè esistono.
Di questo si tratta. I molti ostacoli significano solo che una ristrutturazione della sinistra italiana, che coinvolga fino in fondo le formazioni tradizionali e assuma carattere di massa, richiede tempi più lunghi di quanto non sia augurabile. Ma non significano più di questo. E non solo per ragioni di fondo, connesse alla natura della crisi del capitalismo, all'impotenza del riformismo come suo correttivo, al bisogno di una risposta comunista. Ma per ragioni immediate e attuali, connesse alla crisi specifica della società italiana e al fatto che questa crisi - per quanto facciano e dicano i gruppi dominanti e i riformisti - non trova rimedio nell'ambito del sistema, e genera e alimenta una insubordinazione di classe e di massa diffusa e permanente, esploda o covi sotto le ceneri. Qui è la garanzia. Se può esserci un tempo lungo per la formazione di una forza politica rivoluzionaria di massa, c'è però un tempo medio entro il quale un discorso ideale e politico può tradursi in alternativa tangibile, in organizzazione e operatività, e incidere su tutto l'arco delle forze disponibili. E c'è un tempo breve, una scadenza ravvicinata, entro il quale può essere raggiunta una dimensione minima, politica e organizzativa, che freni la tendenza alla dispersione e consenta di superare i limiti della pressione intellettuale e delle «esperienze esemplari».
Siamo a questa scadenza. Troppe volte abbiamo ripetuto, perché sia ancora necessario farlo, che il processo di formazione di una nuova forza politica - di un nuovo partito - non può essere violentato con artifici né promosso da un gruppo solitario. Ma questo discorso è stato forse frainteso. Aver detto che da soli non bastiamo, non significa cbe anche da soli non ci spetti di procedere in questa direzione, come da soli la indicammo all'interno del PCI.
Siamo a questa scadenza e intendiamo affrontarla. Con questo intento, entrando nel secondo anno di vita del Manifesto, renderemo pubblica una piattaforma politica generale: proponendola a chiunque abbia consapevolezza della crisi in atto e dell'attualità di una risposta comunista, per un dibattito collettivo, un confronto, possibilmente un incontro. Qualcosa di più di una « sistemazione » delle posizioni che abbiamo finora sostenuto. Una proposta comunque non inutile, anche se non dovesse crescere con i tempi rapidi che sono necessari per vivere utilmente questa fase politica, anche se non dovesse ancora segnare - com'è nei nostri propositi - l'avvio di un movimento politico con una sua linea, una sua struttura, una sua milizia, una sua capacità d'azione.
Con questa scadenza, altri devono misurarsi: prima di tutto le forze interne al PCI, i militanti e i quadri che hanno già maturato una critica generale della politica del partito e ai quali non resta spazio alcuno per una lotta interna. Si tratta di scegliere tra la responsabilità di una nuova milizia esterna, il contributo alla costruzione di una nuova linea e di una nuova organizzazione - sola scelta che anche possa rimettere in moto un processo di differenziazione all'interno del partito - o una resa senza condizioni. I compagni che rifiutano il riformismo sono destinati comunque a essere « esterni »: l'alternativa a una nuova milizia essendo solo la passività personale.
Con questa scadenza deve misurarsi il PSIUP, piombato in una crisi senza uscita. La scelta obbligata per i suoi quadri meno compromessi e i suoi militanti è tra un gioco per la conquista del potere in un partito già condannato o il concorso alla unificazione delle forze rivoluzionarie; tra un'agonia mascherata col patriottismo di partito e col notabilato, o una lotta che approdi a una rottura e alla ripresa del cammino originario.
Con questa scadenza devono misurarsi i quadri e i militanti cattolici che, in questi anni, non hanno inteso rompere semplicemente con la DC ma col capitalismo. La scelta, di fronte a cui si trovano, operino dentro o fuori il sindacato, dentro o fuori il movimento aclista, dentro o fuori un'organizzazione politica, è tra l'avanzare per questa strada o tornare loro malgrado, dove sono partiti, impigliati nella rete del riformismo. Sia che facciano nel peggiore dei modi, com'è il caso delle minoranze democristiane, sia che lo facciano con una generosa ma vana ricerca di autonomia entro i confini dell'«area socialista» e dell'egemonia comunista.
Con questa scadenza devono infine misurarsi quei gruppi minoritari che hanno finora reagito alla sconfitta del movimento studentesco come movimento di massa con una fuga dottrinaria o praticistica. I più seri tra questi gruppi, come il gran numero dei quadri espressi dalle lotte di questi anni, si trovano a scegliere tra il rischio di smarrirsi definitivamente nelle loro tecniche particolari, per quanto apprezzabili siano, e la possibilità di ritrovare - con una dimensione politica nuova e una nuova costruzione organizzativa - quel rapporto di massa che hanno perduto dopo la loro tumultuosa esperienza iniziale.
Di fronte alla scadenza che tutti dobbiamo affrontare, anche una forte carica volontaristica non è un espediente arbitrario. Soggettivismo e volontarismo confinano con l'utopia o più semplicemente con il velleitarismo quando non siano - come oggi possono essere - prodotto di una reale esperienza collettiva, di una fase montante di lotta che in tutti ha lasciato tracce profonde e che conserva inalterato il suo valore; o quando siano fine a se stessi e non - come oggi possono essere - momento di coagulo e di stimolo di un fermento più generale e di un processo ancora aperto: un trampolino per ripartire, il piccolo motore che riaccende il più grande. o anche solo il segno che non si è sordi alla domanda di una nuova politica e di una forza adeguata. Per continuare in un puro discorso politico sulla rivoluzione in occidente, lo spazio non verrà meno in nessun caso. Il nostro secondo anno di vita potrà forse avere due sviluppi, due segni diversi, in rapporto agli orientamenti e alle responsabilità che si assumeranno uomini e forze al di là dei confini della nostra esperienza, e non solo su scala nazionale. Ma sarà, in ogni caso, più gravoso e impegnativo del primo - che pure lo è stato più di quanto può essere apparso.
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