Luigi Pintor
UN QUOTIDIANO
PER LA SINISTRA DI CLASSE
(numero 12 dicembre 1970)
Il 1970 è un anno che ha ridato respiro al padronato e alle forze politiche borghesi, giunte nel '69 alle soglie di una crisi di regime per efletto della lotta operaia e di una insubordinazione sociale generalizzata. Il governo Colombo ha funzionato, in questi mesi, come una bombola di ossigeno per il sistema, non tanto per aver ricomposto una coalizione in pezzi, quanto per aver ridato un minimo di credito a quella politica riformistico-autoritaria che oggi è la sola carta valida per la borghesia dominante.
La stretta economica del decretone, la controffensiva in fabbrica con le deroghe ai contratti, la repressione strisciante o violenta fino ai fatti di Milano; e insieme il patteggiamento con la sinistra tradizionale e le centrali sindacali, attorno al potere locale e al polverone delle «riforme»: ecco il clima di questi mesi. Il governo Colombo si è posto come perno della rivalsa padronale contro la spinta operaia e della manovra democristiana e socialista per la subordinazione del PCI ai meccanismi imperanti. Due facce della stessa medaglia, essendo pacifico che una stabilizzazione sociale esige oggi il contributo della sinistra tradizionale e del sindacato al contenimento del movimento di lotta entro i confini dell'ordine costituito.
È evidente che, malgrado la sua grettezza, il governo ha ottenuto qualche risultato in queste direzioni di marcia. Ha potuto sopravvivere ai suoi provvedimenti economici antipopolari, ottenendo l'adesione comunista ai programmi di « ripresa produttiva ». È sopravvissuto ai suoi atti repressivi, compreso Milano, concentrando impunemente il fuoco contro le avanguardie sociali. Ha ricondotto i sindacati a una vacua trattativa di vertice, spostando l'asse di lotta dalla fabbrica al terreno della generica invocazione riformista. Ha così favorito una frantumazione del movimento rivendicativo e un oscuramento della sua prospettiva politica.
Il governo Colombo ha potuto procedere per questa via non per suo merito ma per la straordinaria arrendevolezza dell'opposizione tradizionale. Senza questa arrendevolezza, questo governo non sarebbe neppur nato, e di sicuro sarebbe caduto da un pezzo. Qui è la chiave per comprendere la fase politica che viviamo. Questa arrendevolezza ha avuto le più svariate manifestazioni, alcune delle quali così gratuite da meravigliare tutti: sia i beneficiari, cioè le forze politiche di maggioranza, sia le vittime, cioè le masse ancora fiduciose nella direzione riformista. Così è per il solenne proclama di collaborazione alla ripresa produttiva, per la tregua parlamentare accordata in questi mesi, per i titoli di merito elargiti al PSI e per l'assenso, quindi, alla perpetuazione del centro-sinistra come « ponte » verso equilibri « più avanzati ».
Così è per la blanda reazione alle misure repressive, fino alla loro legittimazione in nome della lotta agli « opposti estremismi ». Questa arrendevolezza non è nuova, in verità, se la si considera in rapporto al disegno politico stranoto dei dirigenti del PCI: dare alla D.C. e al PSI sufficienti garanzie e affidamenti per indurli a una emarginazione dei settori più moderati della maggioranza e ad approdare a nuove combinazioni (nuove maggioranze locali, elezione concordata al Quirinale, infine un governo « bicolore »). Ma è nuova, e più difficile da comprendere, per la rinuncia a ogni contropartita, anche sul terreno tradizionale della democrazia e delle riforme. Quando un'opposizione, dinanzi a misure economiche reazionarie nella sostanza e arbitrarie nel metodo, si accorda con la maggioranza sulla data della loro approvazione, è naturale che non ottenga neppure quelle modifiche secondarie che l'accontenterebbero. Quando un'opposizione, nelle istituzioni e nella società, presta alla maggioranza i suoi voti e la sua polemica per la repressione delle minoranze, è evidente che non rafforza il « quadro democratico » ma l'autoritarismo statale. Quando ci si colloca sul terreno prediletto dalla borghesia contro gli « opposti estremismi », per screditare le minoranze di sinistra, è evidente che non si scoraggia la provocazione di destra ma la si nobilita, e se ne favorisce l'uso mercenario da parte della polizia e del governo.
Definire riformista l'ispirazione del gruppo dirigente del PCI comincia perciò a diventare un eufemismo: l'antica devozione alla « dialettica parlamentare » cede il posto a una sorta di « corporativismo istituzionale »; non una sola delle strutture portanti del sistema è messa più in discussione; la compartecipazione al potere diventa il solo parametro del comportamento, con un miscuglio disonorevole di ansia e di inettitudine.
Questo ossigeno che il governo Colombo e i traffici della sinistra tradizionale hanno propinato al sistema non è, però, di buona qualità né di lunga durata. Il 1970 è ben lontano dall'aver inaugurato una fase di stabilizzazione sociale e politica, e nulla fa pensare che possa inaugurarla il 1971. La crisi del paese non è chiusa né ha perso la sua drammaticità, anche se si presenta con caratteri meno tumultuosi. Il traguardo di una soddisfacente ripresa produttiva, con la tregua in fabbrica come indispensabile premessa, non è stato raggiunto. Il quadro economico è anzi aggravato da nuovi sintomi allarmanti e il nervosismo del mondo capitalistico va semmai crescendo. Neppure lo spappolamento del quadro politico si è arrestato, e le voci di crisi ogni quindici giorni, con l'immancabile coda ipotetica di elezioni anticipate, lo riflettono. In verità, dietro queste voci non affiora un preciso disegno politico ma una affannosa ricerca di equilibri di potere, in un labirinto dove gli stessi protagonisti si smarriscono. Nessuna delle forze politiche tradizionali, di maggioranza o di opposizione, si sente sicura, né in rapporto a una plausibile alternativa di governo né in rapporto a un confronto elettorale: di qui, quella sensazione di paralisi che il paese avverte e che ne alimenta il malessere.
L'ipotesi di un « blocco moderato », ammesso che un anno fa fosse una cosa seria, è infatti solo uno spaventapasseri. Non è questo il rapporto di forze in Italia, né sono questi gli umori del corpo elettorale. La DC correrebbe il rischio di una lacerazione interna, e anche ammesso che reggesse uno scontro elettorale senza emorragie (a sinistra verso il PSI, a destra verso i crociati socialdemocratici e fascisti), comprometterebbe comunque ogni futura costruzione politica di qualche respiro: l'on. Forlani lo confessa spaurito. Il PSU e il suo capo spirituale hanno perso perfino loro la vecchia baldanza, temendo un'emarginazione dal potere più di quanto non sperino in vantaggi elettorali: l'on. Ferri è preso sul serio solo dal notista politico del-ì'Unità.
Anche 1 'ipotesi opposta di un bicolore DC-PSI, ammesso che abbia un avvenire, resta prematura sia come formula di governo sia come proposta elettorale. È questo un fosso che la DC non salterà, ma attraverserà su un comodo ponte solo quando avrà le garanzie necessarie, cioè quando l'impaludamento e il prevedibile indebolimento del PCI saranno al punto di maturazione che l'on. Andreotti e altri con lui si attendono. Ed è un traguardo che neppure il PSI ha fretta di tagliare, dal momento che la benevolenza codina dei dirigenti comunisti, lo sfasciamento del PSIUP e un'altra serie di circostanze (compreso l'appetito per il Quirinale) gli permettono di starsene in attesa come il topo nel formaggio.
Se però nessuna delle forze tradizionali ha un reale interesse a una crisi, perché non ha una soluzione sicura, tutte sono pervase da una preoccupazione profonda per la comune difficoltà di trovare un consenso di massa, di ridarsi una prospettiva consistente, o anche solo di controllare il malessere sociale. Perciò non solo la vita dello schieramento di maggioranza ma tutto il tessuto politico nazionale restano preda di tensioni critiche.
Chiunque valuti le cose dal punto di vista del movimento di classe, dovrebbe perciò proporsi la liquidazione di questo governo e di questo clima asfissiante come un obiettivo elementare. Ne esistono le condizioni e ne è evidente la convenienza. Non solo per la vulnerabilità dello schieramento avversario, ma perché qualunque soluzione di ricambio (per esempio un probabile «monocolore») risponderebbe meno del governo Colombo all'esigenza padronale di una politica manovrata. E soprattutto perché un varco nello schieramento avversario è oggi essenziale per quel rilancio generalizzato del movimento che l'orientamento delle avanguardie e delle masse tuttora consente e reclama. Decisivo è che l'insubordinazione sociale del paese, sebbene sia stata per tanti aspetti lasciata a se stessa, non si sia placata e non abbia ceduto alla rassegnazione. E che soprattutto la lotta di fabbrica, il rifiuto operaio dell'assetto produttivo, abbia continuato ad alimentare tensioni e accendere focolai, confermando l'irreversibilità dei contenuti rivendicativi, delle forme di lotta, delle aspirazioni di potere, del livello di coscienza acquisiti con l'ondata del '68-70. Anche se i diversivi piessi in opera, non solo dal governo ma dalle organizzazioni tradizionali, hanno pesato e pesano negativamente.
Rilevante è che la radicalizzazione giovanile, sebbene sia da ogni parte osteggiata, abbia trovato nuovo alimento, specialmente in rapporto alle vicende internazionali. I fatti di Polonia, accoppiati alla penetrazione capitalistica ad est, sono stati assai meglio compresi nel loro significato di classe di quanto non lo sia stata a suo tempo la tragedia cecoslovacca. La guerriglia palestinese, e la sua dura sorte, hanno gettato altra luce sulle complicità sovietico-americane. La coincidenza, non puramente temporale, della repressione franchista con gli odiosi processi di Leningrado, persuadono della vanità di una lotta al fascismo e alla reazione che non si fondi su un limpido schieramento classista e una strategia internazionalista. La critica alla ideologia e alla pratica del riformismo si è irrobustita e allargata, riconquistando settori del movimento studentesco in passato più inclini al compromesso e contagiando le masse influenzate dal PCI.
Anche se la radicalizzazione dei « gruppi » assume a volte forme che ostacolano l'unità con queste masse, ancora restie a « bombardare il quartier generale ». Incoraggiante è che lo spazio per un discorso politico e ideale alternativo, di rifondazione comunista, continui a crescere non in astratto ma in rapporto allo sviluppo stesso della politica interna e internazionale. Per un comunista, che non sia un cultore ritardato del Machiavelli, è sempre più difficile credere che sia giovevole temporeggiare col governo Colombo. Che la spartizione degli assessorati sia una pietra miliare sulla via del socialismo. Che nuovi equilibri con questa DC e un PSI suo alleato meritino affidamento. Che lo sfruttamento in fabbrica possa figliare riforme nella società. Che la democrazia sia divisibile e la repressione delle avanguardie prepari il potere alle masse. Per un comunista, che non sia tanto rispettoso dell'ordine costituito quanto dimentico dei fondamenti del marxismo, è sempre più difficile credere che a 50 anni dall'Ottobre si tratti di attendere dall'est un po' meno razzismo, un dispotismo meno turco, molta galera ma meno plotoni di esecuzione, scambiando questa miseria col socialismo, il potere proletario, l'uomo nuovo, una società autoregolata nella libertà e nell'eguaglianza.
Ma più le cose procedono, più misuriamo il divario tra potenzialità e realtà. Una cosa è vedere la vulnerabilità di un governo e di una politica, altra cosa è batterli mobilitando le forze disponibili. Una cosa è il serpeggiare della lotta di fabbrica e di strada, altra cosa è avere i quadri, gli strumenti, l'organizzazione per una presenza, un intervento, una direzione continua e una generalizzazione adeguata. Una cosa è la polemica contro il ruolo delle organizzazioni tradizionali, altra cosa è coinvolgerle criticamente nella lotta. Una cosa è una manifestazione, anche a livello di massa, contro l'imperialismo e il riformismo, altra cosa è fare avanzare una strategia complessiva e una aggregazione permanente attorno ad essa.
Nessuna delle forze politiche minoritarie ha oggi o può facilmente darsi un respiro proporzionato a questi compiti. Il movimento di massa non trova perciò la direzione politica complessiva di cui ha bisogno. Il corpo sociale è infinitamente più ricco di energie di quanto le avanguardie politiche non possano esprimere. La necessaria rifondazione della sinistra di classe è impresa di lunga lena, suscettibile di riflussi che le forze istituzionali possono continuamente volgere a proprio vantaggio. Se un'alternativa non si fa tangibile e corposa, la critica al riformismo indigeno e al mutamento di campo dell'URSS (con le implicazioni tragiche e scoraggianti che questi fenomeni comportano) non può tradursi in- una linea di massa. Sono tutti motivi per insistere nel proposito di costruzione di un nuovo movimento politico organizzato, senza sorprendersi della reticenza di molti a porsi su questo- difficile terreno (una reticenza che ha ragioni profonde, quando non sia figlia dei vizi di notabili inerti, intellettuali petulanti, giovinetti pretenziosi). Ma per insistervi sul serio e fino in fondo, cioè con una mobilitazione e una strumentazione adeguate all'impresa: senza di che, il lavoro paziente e minuto di organizzazione dal basso rischia continuamente di essere sopravanzato dagli avvenimenti, o di rinchiudersi in sé, o d'essere risucchiato da altre spinte.
È perciò il momento di una iniziativa generale e unificante, che dia testa e gambe al lavoro di promozione di un movimento politico; che dia unità e continuità di orientamento ai quadri e ai militanti che già sono impegnati con noi in questo lavoro o vogliano impegnarvisi da diverse collocazioni; che soprattutto stabilisca un contatto con quell'arco vastissimo ma disarticolato di forze sociali che rifiutano l'ordine presente. Questa efficacia pratica e questo respiro politico - come sempre è stato in ogni tempo e paese, quando si è posto il problema di una svolta rispetto alla tradizione - può averli solo un giornale quotidiano. Il Manifesto mensile è stato una scelta di campo e un veicolo di idee nella fase della lotta interna al PCI e nella fase di lancio di una iniziativa politica esterna, e deve restare come momento di riflessione teorico-politica. Un Manifesto quotidiano è la risposta" naturale e quasi obbligata a una fase di crescita, il modo di fronteggiare un impegno che non investe solo noi ma l'intera sinistra di classe.
La sua ragione d'essere è in diretto rapporto con la necessità, oggi impellente, di un intervento tempestivo e di massa su tutto l'arco della realtà politica e sociale. È in stretto rapporto con la necessità di esercitare, se non una direzione, una influenza diretta sul movimento, favorendone l'autorganizzazione, la capacità di analisi, la valorizzazione e generalizzazione degli obiettivi. È in stretto rapporto con la necessità di misurare il discorso politico e ideale sui dati della realtà quotidiana, di calarlo in questa realtà e ricavarne una prospettiva continuamente verificabile, di tener testa passo passo all'avversario di classe e di accelerare la crisi del riformismo e del revisionismo su tutto l'ordine dei problemi nazionali e mondiali. Il suo carattere non può che essere assolutamente nuovo. Non può trattarsi di un foglio di agitazione, un veicolo di parole d'ordine, un disco ripetitivo delle posizioni di un gruppo. Non può essere né un parassita del movimento né un'accademia di esercitazioni intellettuali. Tanto meno può essere un giornale tradizionale, merce fabbricata secondo i criteri standardizzati che i giornali borghesi e quelli della sinistra hanno in comune anche se li usano per scopi diversi. Può essere solo un giornale politico capace di informare e di orientare su tutta l'esperienza delle masse e delle società, secondo un'ispirazione comunista.
La sua difficoltà è molto grande, pari alla sua ambizione. Un giornale di poche pagine, che presume di intaccare il monopolio delle informazioni gelosamente custodito dalle grandi istituzioni e potenze. Un giornale sul serio autofinanziato, e perciò del tutto impossibilitato a vivere (e a nascere) senza un vero sostegno di massa, come solo altri fogli operai hanno in anni felici potuto vantare; senza un appoggio militante, ben oltre quello già disponibile attorno ai nostri centri organizzati; senza un consenso di opinione, ben oltre quello che pure ha assicurato il successo della rivista. Un giornale che nasce da zero, con l'impegno dell'intero collettivo del Manifesto ma senza una struttura adeguata né una tecnica sperimentata. Dalla sua, ha soltanto il pregio di una assunzione piena di responsabilità di fronte ai compagni, agli operai, ai giovani, ai molti che ancora ci rimproverano, chissà perché, una nostra indecisione; e che comunque aspirano, con ragione e speriamo con coerenza pratica, a una lotta e a una crescita proporzionate al comune bisogno di rinnovamento.
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