ROMPIAMO L’INCANTESIMO
di Roberto Musacchio – 15 maggio 2015
Una maledizione! E’ ciò che sembra avere da, troppo, tempo la sinistra italiana. La maledizione delle sconfitte, certo. Ma su queste sarebbe bene qualche volta riflettere senza ogni volta buttare via tutto per ricominciare da capo senza aver in realtà capito cosa sia successo. La maledizione della divisione, delle rotture ripetute all’infinito ed all’infinitesimale. Anche queste mai rielaborate. Ma è veramente così impossibile provare a fare una riflessione collettiva, magari un poco organizzata, per capire e, si spera, rimediare? Certo non è facile, perché sconfitte e divisioni si accompagnano a rancori, dissapori che albergano tra i “protagonisti” e che, nel mondo della rete, si alimentano in un circuito di massa che avvelena un intero pezzo di società.
Partiamo da quest’ultimo elemento: il rancore generalizzato. “Avete sbagliato tutti, andatevene tutti”. Sentimento anche motivato e bisogno di ricambio anche giusto. Ma questo risolve? A me pare che sia il caso di chiederselo. Abbiamo ora in campo la rottamazione renziana. Possiamo vedere che il rottamare non è neutro e che spesso si accompagna a un populismo che più che altro vuole distruggere un’idea sociale e di democrazia partecipativa. Il “buttafuori Renzi” sta alimentando un nuovo bisogno di qualcosa di alternativo. Ma questo fatica ad affermarsi. Manca un leader, dicono in molti. E forse c’è una parte di verità. Ma forse ancora di più manca una nuova visione condivisa che non può fare a meno di un processo di riconoscimento reciproco dei percorsi fatti. Così come nei Paesi che escono da dure guerre civili, il riconoscimento collettivo delle colpe e delle ragioni è indispensabile al nuovo che si vuole edificare.
Siccome questo processo di riconoscimento reciproco non si può fare ex cathedra io parto da me. Che mi sento tutte le responsabilità di un percorso ormai lungo, avverto gli errori ma non riesco a rinunciare anche alle ragioni che mi hanno mosso. Il punto di vista è quello di una storia che va dal Pdup, al Pci, al Prc e Sel per poi ritrovarsi oggi in Altra Europa. A un certo punto un cambio forte di prospettiva per una politica non vissuta più come “mestiere” e un ricollocarsi in altre esperienze ma sempre mantenendo il “vizio assurdo”. Anzi, con l’interrogarsi sugli errori che porta, almeno me, a ricercare nuove ragioni di incontro con tutti coloro da cui mi sono diviso e una “urgenza” di riparare. Una vita dunque in buona parte “dentro” quel mondo ormai disastrato della politica “apparato”. Che è stato un mondo complesso, di passioni e miserie che non si possono liquidare senza rifletterci un po’ sopra.
Questo partire da sé, e dal contesto in cui si è stati, per altro a me pare una pratica utile che suggerirei anche ad altri diversamente collocati. Mi vengono in mente ad esempio gli intellettuali che anch’essi hanno vissuto una dimensione di “apparato” che oggi è radicalmente messa in crisi. Magari sarebbe utile riflettere su come, per entrambi, i politici e gli intellettuali, questa messa in discussione degli “apparati” sia divenuta messa in discussione dell’esistenza stessa delle categorie del pensiero e dell’agire cui si riferiscono e cioè la politica e l’uso dell’intelletto. Lo dico perché assieme al partire da sé a ma appare utile anche la contestualizzazione. Riconoscere il contesto in cui si è stati e si sta, vedere se coincidono i vissuti di esso, per come era o per come lo si ripensa oggi e per come è adesso è una pratica per me feconda.
Provo allora a dire come la vedo io. A me pare che il ciclo lungo in cui siamo sia quello della rivoluzione conservatrice legata al capitalismo finanziario globalizzato. Questo ciclo lungo prende le mosse nel momento stesso in cui gli “anni gloriosi” raggiungono il loro culmine e cioè già negli anni ’70. Credo di non proporre una ricostruzione ciclica contestualizzata alla mia esperienza soggettiva ma abbastanza oggettivabile. Naturalmente ciascuno di noi è portato a provare a dare un senso alla propria storia rischiando magari sfasature e di sembrare il giapponese che continuava a combattere. Ma a me pare che anche questo senso di sfasatura sia un effetto voluto di questa rivoluzione conservatrice che, come in 1984 di Orwell, prova a farti dimenticare anche le ragioni per cui combattevi il grande fratello per poi ucciderti quando ti sarai pacificato con lui.
Questo cambio di percezione che opera la rivoluzione conservatrice agisce precisamente sui grandi aggregati di senso storicamente determinati. Pensiamo a come abbiano cambiato, appunto, di senso grandi categorie come la politica, la democrazia, il pubblico, il lavoro, l’Europa. Parto da quest’ultima, l’Europa, perché a me appare precisamente il luogo-contesto dove si era maggiormente realizzato il senso degli anni gloriosi e dove oggi si pratica di più il non-senso della rivoluzione conservatrice. La definizione di questo luogo-contesto mi aiuta a leggere meglio il passaggio dal senso al non-senso di grandi categorie e di grandi aggregati. Penso all’apparato democratico e politico. A quello dell’economia pubblica e sociale. A quello della intellettualità. E penso alle grandi costruzioni sociali e politiche, il movimento operaio e, in Italia, il Pci.
Proprio il Pci, nel suo bagaglio, aveva, ed avremmo ancora noi tutti, quella lettura gramsciana che tanto aiuterebbe a riflettere precisamente sulle grandi categorie, la politica, la democrazia, gli intellettuali, il senso comune, nel loro rapporto con la “modernità”. Ciò su cui ha operato la rivoluzione conservatrice è precisamente questa capacità di costruzione di egemonia per estirparla dalla radice. Depauperato di ciò il Pci è risultato una struttura ridotta a puro funzionalismo, scalabile. Precisamente ciò che era avvenuto, per ragioni diverse, nei vecchi regimi del socialismo reale. La devitalizzazione del Pci, e il suo cambio genetico che culmina con il Partito della Nazione di Renzi, avviene precisamente nel contesto storico di costruzione della ‘”Europa Reale” e determina il venir meno della connessione sentimentale tra un popolo e il suo percorso storico. Scrivo così perchè nella perdita generale di senso operata dalla rivoluzione conservatrice la perdita del popolo e del percorso storico non avvengono linearmente ed anzi si cortocircuitano. Cosa che rende tutto drammaticamente più difficile perché non è dato un punto di ripartenza “facile” né nel popolo né nel senso.
Per tornare al mio punto di osservazione personale mi pare di poter ricostruire un percorso che va dal punto di vista di “avanguardia finale” degli anni gloriosi, e cioè il ’68 al tentativo di contrastare la perdita di senso usando ciò che ne rimaneva. Del ’68 dico “avanguardia finale” per dire che quegli anni che sembravano aprire un percorso probabilmente invece vedevano iniziare la sua fine. E dico dell’uso del senso rimasto perché mi pare che in fondo si sia vissuti soprattutto del tentativo di non far chiudere una porta storica. Naturalmente questa lunga fase di crisi ha tappe, momenti topici, in cui forse si poteva fare altro. Io considero il “fare la storia con i sé” una buona pratica che può aiutare a elaborare i lutti e a trovare nuove vie. Naturalmente altro è se invece serve a creare fissità in cui ci si trincera non per riparare agli errori ma per accusare altri di tradimento.
Volendo arrivare all’oggi, la mia idea è che l’Altra Europa con Tsipras sia stato. e sia ancora, il tentativo di riprovare a darsi un senso laddove esso era stato particolarmente perso, e cioè la dimensione europea. Per come l’ho pensata e vissuta, la relazione con Tsipras e la lotta contro l’austerità, austerità che rappresenta il punto terminale di cambio di senso dell’Europa, è il tentativo di ricostruire una connessione sentimentale con il popolo e del popolo con un progetto storico, la lotta di liberazione dell’Europa. Con tutti i materiali che ciò fornisce. Come la costruzione di coalizioni sociali a quel livello europeo dove esiste oggi solo il patto di potere tra finanza e borghesie. E il rapporto con una esperienza, quella di Syriza, che è stata capace di un processo di recupero di senso e funzione storica. Non è un caso che nella esperienza della lista si siano ritrovati percorsi fino ad allora divisi e frammentati. Penso a pezzi di naufraghi della politica e della intellettualità insieme a nuovi protagonismi sociali. Le loro divisioni erano state evidenti anche nel voto per le politiche del 2013, quelle a me pare della sconfitta definitiva del tentativo di “recuperare il PD e questa Europa”. Alcune parti politiche e molti intellettuali, compresi alcuni garanti e riferimenti della lista Tsipras avevano votato e fatto appelli per Italia Bene Comune. Nonostante che, per me, proprio il suo profilo europeo fosse la cosa più lontana. Altri, anche io, avevano vissuto l’esperienza infelice di Rivoluzione Civile. Ma insomma c’era una confluenza tra due percorsi che alludevano per altro ad un periodo lungo di incontro scontro avvenuto negli anni del “prodismo” tra chi ha provato a tenere aperta una contraddizione dall’interno e chi, come me, la considerava talmente grande, l’incombere della “Europa Reale” che occorresse comunque attrezzarsi a starne fuori. Visioni che si sono scontrate e incontrate per 15 anni per altro articolandosi in tante gamme.
Sta di fatto che con la lista Tsipras si opera una prima riconnessione, su un punto chiave, appunto l’Europa. Per questo sono affezionato a questa esperienza perché mi pare indichi il tema, la ricostruzione di senso al livello a cui lo si è più perso, e una via per l’unità fondata sulla riconnessione sentimentale tra popolo e storia. Naturalmente sono bene cosciente delle inadeguatezze e delle nuove fratture intervenute. Come si è visto non ho parlato di queste perché non volevo fare né una replica né una riflessione contingente. Ho provato a riflettere sul tema della “nostra maledizione”. Naturalmente, anche per questo, questa esperienza, quella dell’AE, non vale in sé come nuovo soggetto storico ma, come abbiamo detto, come soggetto-progetto. Cosa significa? Che sappia lavorare alla ricostruzione di senso, radicalità e unità. Il contesto resta massimamente difficile. L’”Europa Reale” incombe. La breccia greca non vede aprirsi una stagione di incontro tra lotte che si riconoscono e si uniscono. I materiali del vecchio Movimento Operaio sono dispersi e, in Italia, la vena del Pci definitivamente esaurita e trasformata nel suo contrario, il Partito della Nazione. Gli intellettuali e la politica faticano a ridarsi senso. E non c’è un movimento sociale capace di fare da architrave ad un nuovo soggetto. Né appare alle porte una soluzione generazionale.
Su questi due aspetti, quello sociale e quello generazionale, voglio spendere due parole, sapendo che dovrebbero essere molte di più. La coalizione sociale è indispensabile, specie a livello europeo. La lotta della scuola ci dice che c’è ancora un accumulo di senso che permane. Non fosse così non si potrebbe parlare di Altra Europa. Non dobbiamo però dimenticare quale poderosa costruzione sociale è stata quella degli anni gloriosi e di come abbia toccato tutti i gangli della società in una politicizzazione sociale straordinaria che va dagli operai alla psichiatri. Il ’68, il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo, l’alterglobalismo stanno nella nostra esperienza e sono forse l’irriducibile del nostro senso. Questo non toglie nulla a ciò che oggi si muove in forme nuove di altra società, di altra economia, di mutualismo. Ma senza operare, questo è il mio pensiero, scorciatoie politiciste per altro esterne a queste stesse pratiche. Appunto vivendo la coalizione sociale per come viene proposta.
Per i giovani io penso che questo nostro non confrontarsi con la memoria sia per loro un peso. Si è ingombranti non solo quando non ci si leva di torno ma anche quando ci si sottrae ad un confronto. La mia esperienza è quella di una generazione che ha provato a prendere in mano la propria vita ma è anche fatta di ricordi di “grandi” con cui ho condiviso questa mia strada, nel bene e nel male.
Allora, come sempre, c’è il che fare. Anche qui lo dico per me. La mia bussola è quella di stare dentro le pratiche sociali dal basso e di coltivare il “vizio assurdo” della politica secondo alcune regole e con alcuni fini. Mai più rappresentanza o apparato. Lavorare a ricostruire seguendo l’”etica del discorso”, il reincontro, la riflessione su passato, presente e futuro, la comprensione, l’unità nella radicalità, il cambio motivato. Il mio obiettivo lo dichiaro ed è quello di un grande soggetto politico nuovo che aiuti la riconnessione tra popoli europei e una nuova Europa. A me pare che, nonostante tutto, qualcosa si muova. Tutti dicono di non mettere insieme ceti politici e sconfitte, e io concordo. Ma non basta dirlo. Francamente se il problema fosse tutto riducibile alle “miserie” dei “partitini” o dei “ceti politici” o a quelle degli “intellettuali” le cose sarebbero ben poco problematiche. Purtroppo, almeno per me, c’è assai di più e di diverso e di questo ho provato a parlare. Per essere all’altezza, questo lavoro di reinsediamento, di reincontro, di ricostruzione di senso e connessione sentimentale, di ricambio va fatto sul serio e da tutti.
Roberto Musacchio
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