"Effetto Notte"
Il Cile trentanni dopo Pinochet
di Maurizio Matteuzzi
"Le teorie di Milton Friedman gli sono valse il premio Nobel; al Cile hanno dato il generale Pinochet", recita uno dei fulminanti aforismi di Eduardo Galeano, il grande scrittore uruguayano autore di "Vene aperte dell'America latina", uno di quei libri "sovversivi" che il generale golpista faceva bruciare nelle strade della "Santiago ensangrentada" cantata dal "trobador" cubano Pablo Milanes. Pinochet è morto, nel suo letto, nel 2006, il 10 dicembre, il giorno in cui nel 1948 l'Assemblea generale dell'ONU proclamò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Arrestato a Londra nel 1988 grazie all'ostinazione del giudice spagnolo Baltasar Garzon, rimandato in Cile il 3 marzo del 2000 per "ragioni di salute" grazie all'ipocrisia "umanitaria" del premier laburista Tony Blair, incriminato più volte dopo il suo ritorno dal giudice Juan Guzman, uno dei pochi magistrati cileni non colluso con l'ex dittatore genocida, ma mai condannato da un tribunale del suo paese. E i guai giudiziari che gli amareggiarono la parte finale della sua vita riguardavano ruberie e soldi depositati in banche straniere non le atrocità che commise o ordinò nei 17 anni di potere assoluto, dall'11 dicembre 1973 all'11 marzo 1990 quando lasciò il palazzo della Moneda al presidente eletto della Concertacion por la Democrazia, il democristiano Patricio Aylwin, il peggior candidato "post-pinochettista" immaginabile, uno di quelli che nel '73 lavorò per il golpe militare contro Allende.
Trent'anni dopo il Cile di Pinochet, uno dei grandi criminali della storia, uno dei simboli stessi del male, è ancora considerato una delle più clamorose e durature "world's success stories", come se, per l'eterogenesi dei fini, dal male potesse nascere il bene. Pinochet si porta dietro il fardello di 3000 morti e desaparecidos, di 40 o 60 mila torturati, di un milione di esiliati. Eppure quando morì il New York Times lo elogiò per "aver trasformato una economia in bancarotta nell'economia più prospera dell'America latina" e il Washington Post scrisse che "Pinochet ha introdotto le politiche liberiste che hanno condotto al miracolo economico cileno". Chapeau. Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.
E' simbolico che a celebrare i 40 anni dal golpe di Pinochet sia un presidente ex-pinochettista (anche se lui dice che votò no al referendum del 1988) come Sebastian Piñera. Ma è ancor più simbolico che il ritorno della destra alla Moneda dopo 20 anni non abbia prodotto niente di sostanzialmente diverso dai quattro presidenti di centro-sinistra - due democristiani e due socialisti - che hanno governato dal 1990 al 2010.
Il Cile è un paese ricco abitato da poveri. Il modello economico neo-liberista è intatto e trova il suo complemento politico nella costituzione pinochettista del 1980, emendata qua e là ma mai rinnegata. Una costituzione che garantisce la libertà del lavoro ma non il diritto al lavoro, la libertà di insegnamento ma non il diritto all'insegnamento, impossibile da cambiare per via parlamentare, geniale nella sua perversità, che solo poteva e doveva essere mandata al macero attraverso una grande campagna per una nuova assemblea costituente. Che nessuno dei 4 presidenti di centro-sinistra - i dc Aylwin e Frei figlio, i socialisti Lagos e Michelle Bachelet - ha fatto.
In questi 30 anni il Cile ha mietuto successi in serie: il primo paese del Cono sud ad avere firmato un trattato di libero scambio con gli USA, con la Ue, con la Cina e il Giappone; il primo e solo paese dell'America latina ad essere ammesso nell'OCSE; tassi di crescita medi del 5% annui e tassi di inflazione bassissimi; il reddito pro-capite più alto dell'America latina; livelli di povertà ufficialmente ridotti dal 40% del 1990 al 13% del 2006; un paese "moderno" che è appena stato insignito del titolo di "most innovative country of South America". Ma anche uno dei paesi più iniqui del mondo, l'ottavo più diseguale collocato al posto 111 sui 123 presenti nella lista dell'ONU; il paese dove solo il 10% dei lavoratori fruisce del salario minimo intorno ai 200 dollari mensili e l'80% prende meno di quello che la chiesa cattolica definisce "salario etico".
Però la realtà del Cile ormai è diversa da quella degli anni '80-'90 del '900 e sembra sempre più difficile tenere insieme la "eredità maledetta" del pinochettismo con il crescente malessere sociale. Gli studenti, nati dopo il trauma da cui è stata colpita e paralizzata la generazione degli sconfitti da Pinochet, che esigono il diritto a una educazione gratuita e non classista, gli ostinati Mapuche che rivendicano le loro (ricche) terre del sud alle multinazionali stanno facendo saltare il banco e l'immagine virtuosa del paese modello.
Il 17 novembre il Cile andrà alle urne per eleggere il nuovo presidente. La partita è fra due donne: a destra Evelyn Matthei, figlia dell'ex-comandante dell'aviazione con Pinochet, a sinistra Michelle Bachelet, molto popolare durante il suo mandato dal 2006 al 2010 ma anche molto criticata per quello che non ha voluto o potuto fare. Michelle, che per la prima volta ha ufficialmente allargato la sua coalizione di "Nueva mayoria" ai comunisti, è favorita e si è impegnata ad affrontare a risolvere i 3 o 4 punti decisivi del debito pendente lasciato dalla dittatura: una costituente per una nuova costituzione, una educazione pubblica e universale non legata al mercato e al profitto, una riforma fiscale meno classista, una legge sull'aborto, che in Cile è proibito in qualsiasi caso.
A 40 anni dal golpe contro Allende e a 33 anni dal ritorno della democrazia, è il minimo che possa fare per mettere la parola fine alla maledizione di un Cile post-Pinochet ma niente affatto post-pinochettista.
Maurizio Matteuzzi - Roma, 12 settembre 2013
La "via cilena al socialismo" - di Maurizio Matteuzzi
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